In una democrazia sana ci si dovrebbe ispirare al principio secondo il quale le regole della competizione – da quelle elettorali a quelle costituzionali – sono condivise, si scrivono insieme e, semmai, si confligge sugli indirizzi politici e sui programmi di governo. Ma, nel caso nostro, l’impressione è che tale principio sia difficile da praticare. Lo si evince da ultimo dallo scontro relativo al centro di trattenimento in Albania.

Sarebbe legittimo dividersi sulla pur rilevante questione delle politiche in materia di immigrazione. Peccato che lo scontro si sia subito spostato proprio sul terreno delle regole, anzi, della Regola più alta, la Costituzione; del rapporto tra potere politico e ordine giudiziario, così come esso è disegnato nella Costituzione, e, al fondo, della concezione stessa del costituzionalismo democratico il cui cuore sta nel «porre limiti al potere di chi comanda» (così Valerio Onida) dopo la stagione degli assolutismi.

A ben vedere si tratta della certificazione di ciò che già avevamo inteso. Solo, ora dovrebbe riuscire chiaro anche a chi, minimizzando, ne dubitava. Il contrasto verte su metodo e merito delle riforme di sistema messe in cantiere dal governo. Sul metodo, si pensi alla circostanza che quelle riforme sono state concepite e varate dal governo e non dal parlamento e, unilateralmente, dalla maggioranza.

Riforme di parte, non condivise. A suggello di quel metodo, la forzatura, solo al momento scongiurata, di eleggere giudice della Consulta il consigliere giuridico di fiducia della premier autore del premierato assoluto.

Circa il merito, tre riforme, spartite tra i tre partiti di governo, tra loro logicamente incoerenti ma convergenti su un solo ma decisivo punto: la massima verticalizzazione/concentrazione del potere in capo all’esecutivo e, segnatamente, del capo del governo, con la mortificazione di parlamento e istituzioni terze di garanzia.

Ignazio La Russa – si dirà lo conosciamo, è incontinente, ma è pur sempre il presidente del Senato nonché cofondatore del partito di Meloni e figlio (o padre?) della sua stessa “cultura” politica – non poteva essere più esplicito: a suo dire, si dovrebbe riparametrare il rapporto tra potere politico e ordine giudiziario. Chiaro no?

A fronte dell’evidenza – quella di una partita politica nella quale la posta in gioco è la stessa Costituzione vigente, i suoi principi, il suo impianto e la visione del costituzionalismo democratico – non si può fingere di non avere inteso. Sarebbe il caso che se ne facessero una ragione quei politici e quei costituzionalisti – vi hanno fatto discreto cenno su queste colonne autorevoli editorialisti come Pasquino, Ignazi, Urbinati – inclini ad esercitarsi, con sbrigliata fantasia, nel concepire lodi e soluzioni “terziste”.

Nell’illusione di mediare su un terreno sdrucciolevole che facilmente conduce alla capitolazione. Sono coloro che imputano attitudini divisive a chi si predispone ai referendum (costituzionali o abrogativi), anziché a chi concepisce riforme di parte che lacerano il paese e, neppure tanto surrettiziamente, mirano a introdurre nella sostanza una nuova Costituzione.

Ha detto bene Gaetano Azzariti: «Se passassero le tre riforme avremmo un’altra Costituzione». Così pure giova che, della posta in gioco, si mostrino consapevoli le forze di opposizione.

Giustamente si dice che la loro unità va realizzata su temi e non su sigle. Quale tema, quale cleavage più alto e dirimente della Costituzione? I litigiosi ed evanescenti centristi dovrebbero segnalarsi per sensibilità e cultura liberale.

Come non intendere che la difesa dei capisaldi del costituzionalismo, delle istituzioni di garanzia quali presidio dei diritti e antidoto al giacobinismo e alla “capocrazia”, è la più liberale delle battaglie?

Anziché dividersi su dettagli, tipo Renzi sì Renzi no, si metta al primo posto dell’agenda della coalizione per l’alternativa la questione costituzionale, essa sì attuale e dirimente. 

© Riproduzione riservata