Sono impressionato dal repentino rovesciamento nel giudizio espresso dalla più parte della stampa mainstream sull’esito (allo stato) della partita ingaggiata dal governo Meloni circa la composizione della Commissione Ue e, in essa, del ruolo assegnato al commissario designato Raffaele Fitto.

Prescindiamo dalla disputa circa il rilievo delle competenze attribuitegli e dalla comparazione di esse con quelle a suo tempo intestate al suo predecessore Paolo Gentiloni. Per inciso, si approfitta di una diffusa smemoratezza: si è data enfasi alla circostanza che FdI ha sostenuto Gentiloni, tacendo però che poi ha votato contro la Commissione sino a organizzare manifestazioni contro di essa.

Ora taluni esaltano l’abilità manovriera della premier e persino la sua visione strategica. Solo qualche settimana fa, in occasione del voto dell’Europarlamento, un po’ tutti – con la sola eccezione della stampa governista militante – avevano registrato (e stigmatizzato) l’oggettivo, vistoso isolamento nel quale si era cacciata Meloni con il suo voto contrario ai vertici della Commissione e al secondo mandato di Ursula von der Leyen.

Il paradosso di Meloni

Una frattura senza precedenti nella storia dei rapporti tra governi italiani e Ue. Note e palesi le ragioni: un appiattimento sul no espresso dalle destre ultra-sovraniste raccolte nel neonato gruppo dei Patrioti dettato dalla decisione di Meloni di anteporre il proprio ruolo di leader di partito a quello di premier.

Una capo partito che mostrava di non reggere la sfida alla sua destra, ove – non un dettaglio – militava il vicepremier Matteo Salvini. Ora Meloni si rivolge all’opposizione, chiedendo il sostegno a Fitto in quanto commissario italiano e non del governo. Cioè di ispirarsi al criterio contrario a quello da lei praticato. Ci sta.

Tuttavia, francamente esagera la suddetta stampa mainstream quando sembra intimare all’opposizione e, segnatamente al Pd, di non sollevare problemi, di non chiedere rassicurazioni e garanzie, pena figurare come anti italiani. Con la pretesa persino di negare a essa il diritto-dovere di un discernimento e di un vaglio critico degli intendimenti di Fitto non solo sui dossier a lui affidati (penso alla gestione del Pnrr, del quale si è occupato da ministro con esiti a dir poco controversi), ma soprattutto sul suo complessivo orientamento circa le questioni che contano per il futuro dell’Europa.

Un cumulo di contraddizioni

Davvero si può ragionevolmente chiedere un pregiudiziale e scontato assenso – che incredibilmente già si dà per acquisito da taluni europarlamentari dello stesso Pd – chiudendo gli occhi su un cumulo di contraddizioni e sulle incognite conseguenti?

Esemplifico. Le suddette giravolte di Meloni, che cambia cappello alla bisogna; quelle di un vicepremier che sostiene Fitto ma non la Commissione Ue e la sua presidente; quelle di von der Leyen che incassa un secondo mandato grazie a una maggioranza politica e – notare, soprattutto – a un programma ma poi si svincola da essi; quello dello stesso Fitto cui generosamente si fa credito di esorcizzare l’appartenenza a un partito sovranista in nome delle sue remote ascendenze familiari e politiche democristiane. Proprio la sua consumata esperienza politica lo dovrebbe fare consapevole che si deve rispondere del partito nel quale si è scelto di militare, che i partiti non sono taxi fungibili a ogni politica.

A concorrere a stendere un velo su tali contraddizioni la recente liaison di Meloni con Mario Draghi. Di nuovo rimuovendo l’opposizione di FdI al governo presieduto dall’ex presidente della Bce e i contrasti tuttora evidenti tra il rapporto Draghi sulla competitività Ue e la posizione delle forze sovraniste su punti qualificanti: un volume ingente di investimenti Ue, politiche di bilancio coordinate, il debito comune, lo sblocco del voto a maggioranza, una fiscalità responsabile e progressiva (non demagogica), il Green deal pur rivisitato pragmaticamente ma non rinnegato. Non a caso, partiti europei raccolti nella famiglia politica Ecr presieduta da Meloni hanno già bocciato il rapporto Draghi, che ora lei sembra sposare.

Chiamare le cose con il loro nome

D’accordo, il compromesso è prescritto quando ci si occupa della Ue e dei suoi organigrammi. A cominciare dalla esigenza di coniugare il criterio degli orientamenti e delle famiglie politiche con quello dei rapporti tra gli stati. Tuttavia dovremmo evitare le rappresentazioni di comodo e chiamare le cose con il loro nome.

Mi spiego. Chi si ispira a una visione genuinamente europeista deve riconoscere che, in questo passaggio, siamo in presenza di un doppio arretramento: sul programma della Commissione, rivisitato e ridimensionato, per esigenze organigrammatiche tese ad assecondare la sensibilità di forze che europeiste non sono; e sulla natura e sulla mission della Commissione nel quadro delle istituzioni comunitarie.

Per gli europeisti punta avanzata e non retroguardia del processo di integrazione nella quale la logica comunitaria fa premio su quella intergovernativa. A differenza del Consiglio Ue. Qui, al contrario, si profila una Commissione intergovernativa.

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