Cosa mi hanno insegnato Massimo Canalini e Pier Vittorio Tondelli sullo scrivere e sulle storie da raccontare
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Massimo Canalini è stato il primo a credere nelle mie possibilità di narratore. È stato lui a pubblicare in duecento copie Jack Frusciante nell’estate del 1994; è rimasto il mio editor per dodici anni, e per tutto quel tempo non ho mai smesso di considerarlo un amico più grande ed esperto.
Da parecchie stagioni, ormai, conduceva vita appartatissima nella sua casa di Ancona; ho fatto in tempo a trascorrere con lui un sabato mattina di fine agosto, e si è parlato di scrittura e nuovi progetti.
Quindici giorni dopo, giusto alla vigilia dell’uscita del nuovo romanzo Due, ho imparato che non l’avrei più rivisto su questa terra. È da allora che ripenso al giorno del nostro primo incontro bolognese. Lui aveva il doppio esatto dei miei anni, e gli bastò un pomeriggio per ribaltare l’idea che avevo della scrittura.
Hai diciassette anni, è domenica e il mese breve si è ormai esaurito. Nel rincasare dal convegno festivo con gli amigos sotto il cielo inespressivo della Pianura ci sarebbe di che naufragare nello spleen, ma tua madre ha in serbo un colpo a sorpresa; non ti lascia neanche il tempo di levare le scarpe, e guardandoti in tralice sussurra che, in tua assenza, un editore ha chiamato sul telefono di casa per cercarti.
Di più, se ti sbrighi potresti ancora raggiungerlo: il misterioso signore ha assicurato che, sbrigati certi suoi affari, ti attenderà ai piedi delle Due torri alle cinque in punto.
Manca mezz’ora, e non c’è un solo istante da perdere.
Mentre pedali con la furia vintage di un Francesco Moser alla Parigi-Roubaix, ti rimbalzano in testa suggestioni di senso opposto. Da una parte, ti figuri di vivere il momento più glorioso della tua giovane esistenza, e già pregusti il momento in cui l’editore ti annuncerà che intende dare alle stampe il tuo libro e organizzare una grandiosa festa di lancio; dall’altra, mentre l’Atala divora l’asfalto della preferenziale di via Saragozza, la faccenda ti sembra sempre più improbabile. In questa risposta tanto sollecita c’è qualcosa di improbabile, addirittura sospetto; ci dev’essere dietro lo zampino degli amici, ben consci delle tue spedizioni a pioggia, e nel passare dall’asfalto liscio che conduce alla Porta ai sampietrini del centro senti ingigantire la paranoia di uno scherzo ai tuoi danni.
Ci resti secco quando vedi che sotto l’ombra smisurata della Torre degli Asinelli, fra teneri studenti neo-freak e maragli in bomber calati a vedere che aria tira in centro, è in attesa un uomo di considerevole statura che – all’improvviso ne sei certo – non può essere altro che un editore: l’impermeabile aperto sul completo scuro, la cravatta, le scarpe eleganti, persino la chioma crespa e gli occhiali, tutto in lui parla di lavoro intellettuale e dimestichezza con le segrete stanze in cui le storie si trasformano in libri. Ti approcci intimidito a quell’uomo circonfuso di energie misteriose cui arrivi si e no alla spalla, osi incrociare il suo sguardo sornione, ti attenti a domandare se per caso ha dato appuntamento per le cinque al giovane pisquano che gli sta di fronte. Annuisce, gli porgi la destra.
È così che fai la conoscenza di Massimo Canalini, editor e anima di Transeuropa, e la stretta della sua mano enorme, bianca e liscia a garantire che si occupa della vita in ispecie dal versante teorico, sembra non avere più fine.
Adesso, ti dici, se ne viene fuori che ha trovato il mio romanzo stupefacente, geniale, degno di essere portato oggi stesso in tipografia.
«Come cazzo ti è venuto in mente di riscrivere Blade runner?» ti raggela, invece, e ora tutti giovani Werther, Torless e Holden della città paiono svuotati d’ogni forza, smascherati, condannati al pubblico ludibrio.
Balbetti qualcosa nel vano tentativo di cavarti dall’imbarazzo; non fosse per la destra dell’editore che ancora trattiene la tua, ti limiteresti a fuggire a gambe levate, o esiliarti come l’Uomo-talpa nel suolo argilloso che si nasconde sotto il lastricato a custodire le vestigia della Bononia romana.
«Li hai letti i consigli di Tondelli agli aspiranti narratori?» il gigante dalle mani lisce scocca la sua domanda, e ormai è chiaro che mentirgli non avrebbe senso.
«Di Tondelli ho letto solo Altri libertini» farfugli.
«L’ha ben detto, che non bisogna copiare il cinema», ti annienta, e finalmente lascia andare la tua mano per affondare la destra nella tasca interna dell’impermeabile.
Ne trae un paio di fogli fotocopiati, ripiegati in quattro l’uno sull’altro, li apre e ti porge il primo. «Leggi ad alta voce» intima. «Dove dice “Perché invece”».
Attacco a mezza voce con l’impressione di dover patire un castigo per la mia arroganza: «Perché invece non raccontate quello che fate, che sentite: i vostri tormenti, i vostri rapporti a scuola, con le ragazze, con la famiglia. E perché di queste cose, poi – visto che ne avete così voglia – non provate a formulare un giudizio?». Alzi gli occhi dal foglio e, misurando le parole per non mancare di rispetto al giovane uomo ritratto su quella copertina de L’Espresso dal titolo infelicissimo, obietti: «Questo, però, funziona solo per chi ha una vita interessante. Nella mia non c’è niente di così coinvolgente da interessare agli altri. Vado a scuola, come tutti, suono molto male il basso elettrico in una band, e...»
Canalini sospira come avesse previsto l’obiezione. «Vai avanti» t’incoraggia, e tu non puoi che ubbidire.
«Perché non scrivete pagine contro chi odiate? O per chi amate?», e già la proposta di Tondelli ti sembra più interessante. «C’è bisogno di sapere tutte queste cose. Siete gli unici a poterlo fare» riprendi la lettura. «Nessun giornalista, per quanto abile, potrà raccontarle al vostro posto. Nessuno scrittore. Sarà sempre qualcosa di diverso. Siete voi che dovete prendere la parola e dire quello che non vi va o che vi sta bene. Siete voi che dovete raccontare».
Tiri il fiato, e ti ritrovi confuso a rileggere fra te e te le ultime righe. Siete voi che dovete raccontare. Ti sembra di avere appena letto il testo di una chiamata alle armi che, in qualche modo, ti riguarda da sempre. «Capito in che senso non serve copiare il cinema?» domanda l’editore. «C’è già abbastanza vita, dalle tue parti, come da quelle di ognuno di noi».
«Scaveremo nei weekend, nelle sottoccupazioni, nei doppi lavori» riprendi a leggere. «Andremo presso i ladri di polli, i giovani artisti incantati, scenderemo sulle strade provinciali e comunali, incontreremo finalmente una marea di giovani improduttivi e selvatici, incazzati e morbidi, ubriaconi e struggenti, ragazzi di cui i giornali non s’occupano, che le trasmissioni non fanno parlare, le firme non intervistano».
«Salta al finale!» intima con un gesto perentorio da direttore d’orchestra. «Il resto lo leggerai con calma nella tua cameretta».
«L’esperienza giovanile degli anni Settanta, suicidatasi per grande parte in fenomeni di illegalità e di tossicomania, ha fatto il deserto» lo assecondi. «Ma in quell’ansia distruttiva, suo malgrado, non è riuscita a strappare quel fiore. Quel fiore è lì, adesso. Quel fiore siete voi» concludi, e ti ritrovi a fissare con un brivido quel foglio dal quale un adulto, uno scrittore vero, la migliore guida nella quale puoi sperare, sembra parlarti benevolo dal regno delle ombre.
Ormai è chiaro che il destino di Hard boiled è segnato. Rimpiangi tutte le carte da mille lire spese in fotocopie per spedire in giro un testo che si fondava su presupposti tanto sbagliati. Non eri davvero tu a raccontare, in quelle pagine. Era la proiezione secchionica e segajuola di te stesso, un giovane improduttivo e selvatico, nei panni di scrittore. Eppure – cazzo di narvalo! – a lei era piaciuto...
«Pensa quanto le piacerà di più leggere una storia autentica» riprende il gigante come avesse decifrato il tuo pensiero più intimo, e per un istante ti chiedi se stai sognando o invece l’ha detto davvero.
Lo vedi sbigottito spiegare il secondo foglio, lo ascolti leggere con voce nasale arrochita dalle sigarette: «Scrivete non di ogni cosa che volete, ma di quello che fate. Astenetevi dai giudizi sul mondo in generale (ci sono già i filosofi, i politologi, gli scienziati, ecc.), piuttosto raccontate storie che si possano oralmente riassumere in cinque minuti».
Picchietta l’indice sul foglio e spiega: «Questo è l’invito dal quale ha avuto inizio il progetto Under 25, che ho avuto il privilegio di curare per cinque anni insieme al Pier. E questi sono i consigli che dovrai mandare a memoria – di più, introiettare – se vuoi metterti d’impegno a scrivere».
Pare spossato, all’improvviso, come un veggente al termine della possessione, o forse è semplicemente commosso al pensiero del compagno di strada perduto da pochi mesi. «Raccontate i vostri viaggi, le persone che avete incontrato all’estero, descrivete di chi vi siete innamorati» riprende a leggere un’ottava sotto. «Immaginatevi un lieto fine o una conclusione tragica, non fate piagnistei sulla vostra condizione e la famiglia e la scuola e i professori, ma provatevi a farli diventare dei personaggi e, quindi, a farli esprimere con dialoghi, tic, modi di dire» riprende a leggere, un’ottava sotto, e ti domandi se realizza o meno di essere il primo adulto che si occupa dei tuoi scritti, ad esclusione della suoraccia di lettere, che pare trarre un gusto particolare nel censurare i tuoi temi.
Si piazza con un gesto da prestigiatore una Philip Morris fra le labbra, l’accende con uno Zippo ricercato, mica i Bic da due soldi che usate di sfroso voialtri, sbuffa il primo fumo azzurrino e riattacca: «Raccontate le vostre angosce senza reticenze piccolo-borghesi, anzi ‘spandendo il sale sulla ferita’. Dite quello che non va e quello che sognate attraverso la creazione di ‘un io narrante’ che non deve, per forza di cose, essere in tutto e per tutto simile a voi. Iniziate a fingere, a dire bugie, a creare sulla carta qualcosa che parta dal vostro mondo, ma che diventi poi il mondo di tutti, nel senso che tutti noi che leggiamo possiamo comprenderlo».
«Sì» ti ritrovi a mormorare.
Ti guarda per controllare la tua reazione, trae un’altra boccata dalla Philip Morris, e riprende suadente: «Raccontate di voi, dei vostri amici, delle vostre stanze, degli zaini, dell’università, delle aule scolastiche. Ricordate che quando vi mettete a scrivere, state facendo i conti con un linguaggio fluido e magmatico che dovrete adattare alla vostra storia senza incorrere nello stile caramelloso della pubblicità o in quello patetico del fumettone».
«Sì!» esclami, questa volta ad alta voce, e sei tu quello che si è appena battuto una mano sulla coscia in preda a un’euforia nuova.. Il gigante sorride e torna a leggere: «Il modo più semplice è scrivere come si parla, e questo è già in sé un fatto nuovo, poiché la lingua cambia continuamente, ma non è il più facile». Ha levato l’indice della mano libera in verticale, adesso, parallelo al profilo della torre che vi sovrasta. «Non abbiate paura di buttare via» sale di tono. «Riscrivete ogni pagina, finché siete soddisfatti. Vi accorgerete che ogni parola può essere sostituita con un’altra. Allora, scegliendo, lavorando, riscrivendo, tagliando, sarete già in pieno romanzo». «Sì, porca puttana!» prorompi. Chi se ne frega di Hard boiled. Proverai a scrivere una cosa nuova, vera, sporca della tua vita ordinaria ed eccezionale come quelle di tutti gli altri, e ci lavorerai sopra quanto serve per portarla a un livello decente. «Sei molto giovane» osserva Canalini, il foglio a mezz’aria, e per la prima volta quelle parole non suonano ai tuoi padiglioni auricolari come una condanna. «Se ti metti d’impegno, hai tutto il tempo di fare un buon apprendistato». Qualunque cosa intenda, non chiedi che di aderire al progetto.
«Pier non c’è più, ma noi vogliamo andare avanti con il lavoro di ricerca sui giovani cominciato sotto la sua egida» spiega nel passarti il foglio con i migliori consigli che ti siano mai stati forniti.
Te lo rigiri fra le mani, e per un attimo temi che il gigante sparisca in uno scintillìo sovrannaturale. «Te la senti di metterti d’impegno a scrivere una storia come si deve?» domanda invece, e senza lasciarti il tempo di rispondere premette: «Intanto ti lascio un elenco di libri che si sono rivelati più che preziosi per i ragazzi del progetto Under 25, o almeno per quelli fra loro che hanno deciso di provare a scrivere seriamente».
È come un invito a prender parte a una festa di gente più grande, consideri fra te e te. Servirà arrivare preparati a ogni evenienza.
«Non devi semplicemente goderteli, devi studiarli, leggerli, per così dire, tra le righe» ti ammonisce. «Serve comprendere il loro passo, il ritmo specifico che assumono, e per prima cosa bisogna capire chi racconta davvero, in senso filosofico, quella storia». «Tipo il narratore implicito o quello esplicito?» domandi ragguagli, e lui fa cenno di lasciar perdere senza nascondere un’ombra di scoramento.
«A scuola si disimpara» sancisce sarcastico. «Di peggio c’è solo l’università».
Hai commesso un passo falso, ma non sembra irrimediabile.
«Ti piace la musica, no?» domanda a bruciapelo il gigante. «Be’, fai finta che i libri siano dischi, opere titaniche come Led Zeppelin II. Ascoltali e riascoltali finché non ci sei entrato dentro. Domandati come ha fatto l’autore a stupirti con un dialogo o una descrizione, come fossero assoli di chitarra. Manda a memoria i tempi della batteria, e cerca di individuare la linea di basso che dà corpo al tutto».
Annuisci, ormai votato alla causa. «E la voce?» domandi diligente. «La voce?» ripete incredulo Canalini. «Quella ce la devi mettere tu», e torna a porgerti la destra. «Facciamo un patto» propone mentre la stringi, e ti sembra di essere estremamente più consapevole e a tuo agio rispetto a quando – a occhio e croce sette minuti fa – è accaduto la prima volta. «Adesso noi due ci spostiamo in un bar decente, sediamo al tavolino davanti a un paio di bibite come due personcine a modo, e io ti annoto i libri da leggere» dispone. «Tu fai i compiti da bravo, introietti quel che c’è da introiettare, e intanto cominci a scrivere la tua storia. Quando poi ti sembra di essere a buon punto, mi chiami e ci si rivede per lavorarci su insieme. Ti sembra un’ipotesi operativa accettabile?»
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