Negli anni più recenti, l’industria 3.0 e poi quella 4.0, caratterizzate dallo sviluppo digitale e dalla crescente flessibilità dei ruoli e delle competenze, ci appaiono nelle fotografie come spazi impenetrabili, asettici e ripetitivi, più simili a ospedali che a luoghi di lavoro.
Un calo progressivo di temperatura emotiva e comunicativa che è evidentissimo nel recente volume pubblicato da Linea di confine per la fotografia contemporanea intitolato JOBS. Forme e spazi del lavoro, curato da Antonello Frongia, Stefano Munarin e Federico Zanfi.
Il primo effetto di JOBS è sorprendente: la modernità precisa e salubre che vediamo raffigurata ci sembra stranamente antitetica alle innumerevoli testimonianze del contrario che ci assillano a tutte le scale, planetaria e locale.
L’immagine del paesaggio industriale che ci è più familiare è quella che, consolidatasi subito dopo l’invenzione della fotografia, è rimasta stabile in tutta Europa per oltre un secolo, e ci descrive le fabbriche a tinte forti, dove dominano il buio, i fumi, le macchine.
È così che sono stati rappresentati i luoghi del lavoro della Seconda rivoluzione industriale, quella della produzione di massa. Fino a che, negli anni Ottanta del Novecento, i fotografi – tra i primi da noi Gabriele Basilico – hanno scoperto le dismissioni delle aree e delle attività produttive e hanno iniziato a documentarle con immagini dove invece emergono il vuoto, i rottami, il silenzio.
Negli anni più recenti, l’industria 3.0 e poi quella 4.0, caratterizzate dallo sviluppo digitale e dalla crescente flessibilità dei ruoli e delle competenze, ci appaiono nelle fotografie come spazi impenetrabili, asettici e ripetitivi, più simili a ospedali che a luoghi di lavoro.
Temperatura emotiva
Un calo progressivo di temperatura emotiva e comunicativa che è evidentissimo nel recente volume pubblicato da Linea di confine per la fotografia contemporanea intitolato JOBS. Forme e spazi del lavoro, curato da Antonello Frongia, Stefano Munarin e Federico Zanfi con il coordinamento di William Guerrieri e il sostegno del bando Strategia fotografia 2020 del ministero della Cultura (Quodlibet, 2022). Nel volume si leggono le riflessioni teoriche di un gruppo di ricercatori a commento e a integrazione del lavoro di quattro fotografi, svolto in quattro ambiti industriali dell’Emilia centrale, tra le province di Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna.
L’attenzione della fotografia all’architettura e al paesaggio urbano ha una storia ormai lunga, che comincia subito, a metà Ottocento, quando viene inventato il nuovo mezzo tecnico. Gli urbanisti invece si accorgono molto più tardi dell’importanza della fotografia: tra le prime e più note committenze pubbliche di tipo territoriale ai fotografi c’è in Italia la vasta indagine sui centri storici dell’Emilia-Romagna fatta alla fine degli anni Sessanta del Novecento da Paolo Monti, che orientò in larga misura i piani di conservazione e tutela.
Solo da questo momento si registra un ricorso più frequente alle indagini visive sul campo, e si avviano committenze fotografiche pubbliche destinate a raccogliere materiale documentario utile per affrontare le scelte di progetto.
Il paesaggio si trasforma
Con gli stessi obiettivi nacque nel 1989 Linea di confine per la fotografia contemporanea, associazione di enti pubblici che si diede il compito di rappresentare le trasformazioni del paesaggio, superando il significato estetico e formalistico con cui questo termine veniva di solito inteso, per comprendervi invece l’osservazione dei fenomeni sociali ed economici che sono alla radice dei cambiamenti in corso.
Il primo effetto di JOBS è sorprendente: la modernità precisa e salubre che vediamo raffigurata ci sembra stranamente antitetica alle innumerevoli testimonianze del contrario che ci assillano a tutte le scale, planetaria e locale. E di fronte a tanto ordine verrebbe perfino da rivalutare le capacità della programmazione urbanistica di progettare un corretto e funzionale sviluppo degli insediamenti produttivi.
I curatori – Munarin e Zanfi sono urbanisti, Frongia è storico della fotografia – affermano che l’obiettivo del lavoro è osservare gli effetti dei cambiamenti tecnologici, economici e ambientali sulle forme di lavoro e di produzione in queste aree. Quattro coppie formate da ricercatori (architetti e urbanisti) e fotografi si sono addentrate in diversi luoghi di lavoro, osservando ambienti interni e spazi aperti, dialogando con gli addetti e fotografando.
Sono andati così direttamente al cuore del problema, scartando l’ipotesi di arrivarci partendo da più lontano, cioè da una scala territoriale più larga, per evitare il rischio di essere condizionati da pregiudizi visivi o errori interpretativi. Lo sguardo è minuzioso e cerca di riconoscere le peculiarità dei diversi spazi industriali, che a prima vista sembrano tanto simili da parere uguali.
Perché ciò che accade dentro le scatole murarie è più o meno identico: progettare, controllare processi, imballare, stoccare, spedire. Un lavoro metodico, che sembrerebbe al sicuro da differenze di genere e da ogni forma di rischio, di sfruttamento e di inquinamento, e a quanto pare anche al riparo da lotte e rivendicazioni. Insomma, da tutto ciò che ha connotato negativamente il lavoro in tempi che qui sembrano definitivamente passati, ma che purtroppo non lo sono affatto.
Secondo gli autori, questi quattro luoghi sono stati scelti perché consentono una narrazione esemplificativa del nuovo lavoro ipertecnologico e “green” e delle sue scelte localizzative, non sempre capaci di affrontare e risolvere gli effetti negativi dell’automazione sugli addetti o di evitare un eccessivo consumo di suolo in un territorio che è già tra i più congestionati e inquinati d’Europa.
È proprio per osservare come ha saputo reagire il territorio dell’Emilia centrale agli effetti della crisi economica del 2008 e di quelle più recenti e attuali che tutti conosciamo che i fotografi hanno oltrepassato i cancelli e ascoltato le storie di chi in quei luoghi lavora.
Così è stato possibile vedere gli spazi per il tempo libero che si insinuano in quelli del lavoro (Michela Pace e Andrea Pertoldeo) o il connubio virtuoso tra produzione e formazione (Cristina Mattioli e Andrea Simi). Ed è così che le fotografie ci consentono di apprezzare l’estrema raffinatezza tecnologica con la quale viene confezionato il nostro cibo (Marta De Marchi e Nicolò Panzeri) e il modo con il quale quotidianamente i piazzali di parcheggi possono diventare aree di riposo e relax per gli autotrasportatori del settore logistico (Stefano Saloriani e Allegra Martin).
JOBS è un’impresa riuscita: anche grazie ai molti ritratti di persone, l’indagine restituisce frammenti significativi di conoscenza. Che si aggiunge a quanto hanno svelato in questi ultimi anni anche altri soggetti non istituzionali attivi in regione nel porsi come osservatori a largo raggio sul lavoro, in primis la fondazione Mast di Bologna, che da un decennio bandisce concorsi per giovani artisti fotografi, assegna borse di studio e organizza mostre, tra le quali la biennale Fotoindustria, giunta alla quinta edizione. JOBS è anche una mostra, aperta nella sede di Linea di confine all’Ospitale di Rubiera.
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