L’apologia più hot di Françoise Hardy come oggetto del desiderio fa capolino dal cicaleccio ospedaliero tra vecchi amici di Le invasioni barbariche. Il Rémy di Denys Arcand (Rémy Girard) sta rievocando le primissime pulsioni sessuali da allievo di una scuola gesuita, e le erezioni notturne ispirate da Cielo sulla palude di Augusto Genina (1949), quando la Maria Goretti di Ines Orsini «entra in mare e con un gesto regale e tuttavia pudìco si tira su la sottana». «Ah, le cosce ben tornite di Ines Orsini!»

Un’estasi erotica detronizzata di colpo dall’esplosione folgorante sugli schermi tv di Françoise Hardy con la sua Tous le garcons et les filles. «Improvvisamente – racconta il malato terminale Rémy – mi sorpresi a trovare Ines Orsini insignificante e gattamorta. Ah, sono andato a letto in sogno per un bel pezzo con Françoise Hardy. Siamo stati molto felici insieme».

Maschi e femmine non vedono mai lo stesso film e sembra che non sentano mai la stessa canzone. La morte così contigua di due regine di cuori del Novecento come Françoise Hardy e Anouk Aimée è una sottile istigazione all’analisi comparata di questo strabismo di genere.

Anouk Aimée

Il fulgore raffinato di Anouk Aimée ha ispirato Claude Lelouch attraverso 53 anni e nove film. Se è stata la musa di un autore in particolare, è stata la sua. Il solo regista però che le ha fatto vincere il Prix d’Interprétation a Cannes, nella sua Francia (il premio César del 2002 era solo onorario) è stato il Marco Bellocchio di Salto nel vuoto, anno 1980, premio doppiato da Michel Piccoli come interprete maschile.

L’occhio maschile di Bellocchio liquida Un uomo e una donna, il film della consacrazione popolare per un’attrice già nota e già trentaquattrenne, come «una storia romantica per cui impazzirono i francesi». Ho fatto un test di memoria con tutte le amiche e colleghe coetanee: la carica di erotismo contenuta in quel film, nella tensione magnetica tra Aimée e Jean-Louis Trintignant, è un assioma comune.

I contraccolpi emotivi sono arrivati ben più in basso del cuore. E qualcuna mi ha ricordato che il vinile delle canzoni (il mio ce l’ho ancora, by the way) era un fantastico sottofondo da scopata, debitamente logorato dall’uso in quegli anni di (illusoria) liberazione sessuale.

Le musiche erano di Francis Lai, testi e voce di Pierre Barouh, allora fresco compagno di Anouk, che interpretava anche il marito defunto nei flashback. In Francia quello “cha-ba-da-ba-da” del title track (Golden Globe per la migliore canzone originale) ha fatto storia al punto che liste chabadabada, nelle scadenze elettorali, indica una lista di candidati che alterna un uomo e una donna, in nome della parità.

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Ho incontrato Anouk Aimée solo negli anni Duemila. E temo proprio che le prime parole che mi sono affiorate alle labbra siano, d’istinto e poco educatamente: «Com’è bella!». Se hai occhi, labbra e soprattutto un teschio così, quegli zigomi strategici che combattono la forza di gravità, sfidi l’eternità. La sensualità è spesso un effetto da grande schermo.

Federico Fellini l’ha sublimata nel personaggio di Maddalena, alto-borghese che in La dolce vita finisce a letto con Mastroianni in casa di una prostituta. In quel 1960, Aimée (profetico nome d’arte per una dame nata Dreyfus) aveva già impressionato Bellocchio: «Un personaggio bellissimo e disperato in cerca di libertà».

E Fellini l’ha poi riciclata per 8 e mezzo come Luisa, moglie del regista: «Che malinconia fare la parte della borghese», commentava ironica lei. Una moglie affascinante, cornificata a ripetizione ma lucida nella denuncia di un genio dai piedi d’argilla: «Fallo il tuo film, compiaciti, accarezzati, fa credere a tutti di essere meraviglioso! Ma che vuoi insegnare agli altri tu, che non hai saputo dire niente di vero a chi ti sta accanto?»

Icona per vocazione

Side B: Françoise Hardy, nata dodici anni più tardi di Anouk Aimée, era appena diciottenne quando da sconosciuta folgorò i francesi in un siparietto musicale durante la diretta tv sul referendum per l’elezione del presidente a suffragio universale, il pallino storico di De Gaulle.

Correva l’anno 1962 e la canzone era il malinconico valzer di un’adolescente sentimentalmente emarginata, Tous les garcons et les filles. L’emarginata però era uno schianto, l’incarnazione parigina delle bellezze androgine che spopolavano nella Swinging London, allora capitale centripeta dei trend giovanili.

Frangetta liscia, occhi grandi e labbra carnose, era un’icona per vocazione, con quelle gambe lunghissime da passerelle di Mary Quant. Solo che in casa aveva di meglio, per certificare uno stile: André Courrèges e Paco Rabanne. Alla Vogue Records serviva un contraltare meno sfacciatamente sessuato per la rockstar in rampa di lancio, Johnny Hallyday. Il famigerato (e mai abbastanza vituperato) periodo yé-yé aveva trovato la sua profetessa, decisamente meno dozzinale delle altre versioni correnti: un pop di sapore cantautorale.

Ma qui, di nuovo, lo sguardo maschile e quello femminile divergono irreparabilmente. Da soggetto di genere femminile, la mia domanda è: in cosa consisteva il sex appeal di Françoise Hardy? Corrispondeva perfettamente ai must dell’iconografia femminile anni Sessanta o incarnava la solita, banalmente intramontabile, attrazione ormonale per le jeunes filles en fleur?

Il messaggio candido dei suoi testi era lo stesso che due anni dopo, nel 1964, avrebbe decretato il successo di Gigliola Cinquetti. La nostra sedicenne cantava: «Non ho l’età per amarti, non ho l’età per uscire sola con te». Hardy sognava amori platonici «les yeux dans les yeux, la main dans la main», e in J’suis d’accord articolava un proposito di castità equivalente a quello di Cinquetti: «J’suis d’accord/ pour le cinéma/ pour le rock/ le twist et le cha-cha/ j’suis d’accord pour tout ce que tu voudras/ mais ne compte pas sur moi pour venir chez toi».

Il sugo in soldoni era: mi piaci ma a letto con te non ci vengo. Tanto Hardy che Aimée sono state sposate con due sex symbol dell’epoca: rispettivamente Jacques Dutronc (Hardy) e Albert Finney (Aimée, ma solo in quarte nozze). Françoise Hardy ha continuato a cantare una plumbea e ansiosa solitudine femminile: «Il dolore del mattino/ è una porta che si chiude/ la tua auto che va via/ il silenzio nella stanza».

Però ha popolato i sogni di illustri conosciuti, da David Bowie («ero appassionatamente innamorato di lei», ha confessato decenni più tardi) a Bob Dylan, che le ha dedicato un poema nelle note di copertina dell’album Another side of Bob Dylan.

Di lei in realtà si parla solo nella prima riga del testo: «For Françoise Hardy/ at the Seine’s edge/ a giant shadow/ of Notre Dame/ seeks t’ grab my foot..»(«Per Françoise Hardy/ sul bordo della Senna/ un’ombra gigante/ di Notre Dame/ cerca di afferrarmi il piede..»)

Quello che voglio dire è che nella prevalente aura romantica che ha circondato il lavoro di entrambe la componente erotica, livello 10 per l’una, era 0 per l’altra. Stando alle rimembranze del Rémy di Le invasioni barbariche, nondimeno, l’attrazione fatale dei maschi segue altri percorsi, e vale da conferma a sé stessa.

Una comune scintilla

Sono due donne, due personalità, due talenti che niente hanno in comune, oltre alla madrepatria. Eppure se contestualizzi le date-cardine della loro consacrazione nell’immaginario collettivo, del loro approdo allo status di icone pop, scopri una comune scintilla di sovversione del panorama culturale dominante.

A ripensarci, il 1962 di Tous les garcons et les filles musicalmente è vera preistoria. Da noi Tony Renis lanciava Quando Quando Quando (che tuttora gli garantisce pingui diritti d’autore), Pat Boone furoreggiava col twist da comic book Speedy Gonzales duellando col Chubby Checker di Let’s twist again, e i frugoletti nostrani imparavano l’italiano fantasiosamente biascicato di Paul Anka e di Neil Sedaka, precettati alle cover tremende di Love me warm and tender (Ogni giorno, in traduzione) e Breaking up is hard to do (Tu non lo sai, in traduzione). Con Love me do la beatlemania era agli albori, Mina era classificata ancora come “urlatrice”(Renato), i Beach Boys di Surfin’ Safari guidavano le classifiche e l’Elvis Presley di Cant’help falling in love doveva ancora riagguantare la sua anima black. In Francia c’erano, sì, le “canzoni di parole”, Gilbert Bécaud con Et maintenant e Richard Anthony con Et j’entends siffler le train (così cara a Franco Battiato che decenni dopo ne avrebbe fatto una cover più struggente dell’originale), ma Georges Brassens, che in quell’anno pubblicava il suo nono album, era un autore “per intellettuali” come il primo Fabrizio De André da noi.

Françoise Hardy a diciott’anni sparigliava le carte. Portava la brezza nostalgica e le cadenze degli chansonnier a spettinare i capelli degli adolescenti, che il mercato discografico si preoccupava solo di far ballare.

Era musica antica per orecchie giovani, con gli accordi semplici che il tuo compagno di banco al liceo potrebbe improvvisare alla chitarra. Non nasceva nelle sale di registrazione, nasceva dentro una generazione per farsi ascoltare da una generazione. Non era un pensiero triste che si balla, come diceva Enrique Santos Discépolo del tango (non Borges, come credono tutti) era un pensiero triste e basta. Ascoltare pensieri tristi che erano i tuoi era uno sdoganamento libertario, una rivoluzione. Era riprendersi la parola e il diritto di fare poesia su te stesso, senza usare le parole che gli altri, gli adulti, scrivevano per te. In questo consisteva la vera cesura.

Carestia d’amore

Cosa passava il convento del cinema nell’anno di grazia 1966, quello di Un uomo, una donna? Dallo schermo rimbalzavano i pensosi capolavori di un Ingmar Bergman in piena maturità (Persona), che neanche gli sfibranti dibattiti nei Cineforum dell’epoca riuscivano a sviscerarti del tutto, e le laboriose metafore di Andrei Tarkovskj (Andrej Rublev), che a molti hanno ispirato un odio incontenibile per le icone.

Né potevi contare, per il diletto di un paio d’ore di spensierata evasione, su altre pietre miliari come La battaglia d’Algeri di Gillo Pontecorvo e Au hasard Balthazar di Robert Bresson: roba nutriente, per carità, ma niente a che fare coi feel good movies. C’erano pur sempre i grandi vecchi come Alfred Hitchcock e Billy Wilder, ancora operanti ma in sottotono (rispettivamente con Il Sipario Strappato e Non per soldi..ma per denaro), e il mondo godeva ancora della benedizione di Francois Truffaut (Fahrenheit 451) e Michelangelo Antonioni (Blow-Up, così bello che pur essendo Antonioni si capiva tutto).

In sala passava anche L’armata Brancaleone, e con Mario Monicelli il sollievo di poter ridere senza una laurea. Ma un bacetto, un sentimento leggero, una coccola romantica non c’era verso di trovarli neanche col lanternino. C’era carestia d’amore a trecentosessanta gradi. Sembrava che non interessasse più a nessuno, comunque a nessuno di quei signori supremamente intelligenti autorizzati a far uso di una macchina da presa.

Chiedo scusa per l’interferenza autobiografica, ma la prima recensione della mia vita (sul giornalino del mio liceo) è stata quella di Un uomo, una donna. Era arrivato un francese di nome Claude Lelouch, e non si vergognava a parlare d’amore: un terremoto.

Anouk Aimée è stata la Madonna di Fatima delle platee femminili. Non c’era niente da pensare o capire, bastava palpitare. Ha vinto la Palma d’oro a Cannes e l’Oscar per il film straniero e la sceneggiatura originale, ma per i critici (tutti rigorosamente maschi allora, e di fatto anche adesso) era «un fotoromanzo» dalla «poetica di carosello pubblicitario», «un tranquillante su pellicola», «una storia zuccherosa e finta», «un concentrato di tutti i luoghi comuni possibili sull’amore e sulla solitudine».

Per l’altra metà del mondo era come tornare a galla dopo anni di apnea, e respirare, finalmente. “Una donna”, non casualmente anonima nel titolo, è in automatico tutte le donne. E magari puoi innamorarti di nuovo anche se ti è capitata la tegola del marito morto in un incidente sul lavoro (evvai, c’è perfino l’attualità sociale!). Lo ribadisco: maschi e femmine non vedono lo stesso film. E queste due donne così dissimili sono emblemi di due tappe, circoscritte ma memorabili, di riposizionamento culturale.

Ruoli invertiti

Per gioco, le immagino a ruoli invertiti: attrice Françoise Hardy e Anouk Aimée cantante. Senza soverchia esposizione, Françoise ha recitato anche per Roger Vadim, Jean-Luc Godard e John Frankenheimer. Avrebbe mai potuto essere una Jane Birkin-bis, così fisicamente simile a lei, ma tanto più timida e prude?

La voce profonda, musicale di Aimée è tra i ricordi più intensi di Marco Bellocchio. Non è difficile immaginarla come un’erede di Juliette Gréco, meno esistenzialista e più Nouvelle Vague, anche se i tempi dei mostri sacri che scrivevano testi per le canzoni – non solo Prévert, anche Sartre e Queneau – erano già tramontati. Ma i ragazzi degli anni Sessanta avrebbero perso la loro insostituibile portavoce francese di pene e disagi senza nome. E Jacques Demy – senza parlare degli altri – avrebbe perso la sua irresistibile Lola, donna di vita, monumento alla forza e alla fragilità femminili, e la sua Amante perduta, cioè le due fette del sandwich che conteneva il mitico Les parapluies de Cherbourg. Molto meglio, davvero, che le cose siano andate così.


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