Per molti anni non sono riuscita a pensare alla Siria. Sembrava un paese dimenticato dall’attualità, sprofondato nella violenza, avvolto da un silenzio impenetrabile, interrotto soltanto da sporadiche notizie di amici siriani.

Le storie

Eppure sentivo parlare di questo paese pieno di storie antichissime e affascinanti fin da bambina. Erano le storie raccontate da mio padre che fu consigliere diplomatico a Damasco negli anni sessanta. Erano i suoi tesori: una collezione di vetri di epoca romana, custoditi in piccole vetrine, acquistati nei suoi vagabondaggi nei meandri del suq, oggetti coì fragili da rompersi con un soffio, ai quali era vietato anche solo avvicinarsi.

Ampolle iridescenti, vasi, lanterne che avevano contenuto unguenti, profumi, vino, olio, magiche pozioni della regina Zenobia, portata a Roma in catene d’oro da un lontanissimo deserto. Talvolta ci veniva il dubbio, con mio fratello, che tenesse più a quei vetri che a noi. E infatti, dopo la sua morte, li abbiamo donati a un museo, forse per quella paura che ci era rimasta di romperli.

Mio padre era arrivato a Damasco all’inizio del sessantatré ed era stato accolto da un colpo di stato, evento frequente nella Siria di quegli anni, durante il quale il ministro degli Esteri del governo appena rovesciato aveva scavalcato il muro di cinta dell’ambasciata, svegliato l’ambasciatore e chiesto rifugio all’Italia per paura di essere arrestato.

Lo avevano tenuto segretamente nascosto in una mansarda, poi l’ambasciatore, con la complicità di mio padre, aveva dovuto organizzare la fuga del ministro chiudendolo nel bagagliaio dell’auto di servizio, senza dimenticare, – specificava mio padre davanti ai nostri occhi sbigottiti –, di mettere dei cuscini e fare dei buchi nel cofano per l’aerazione, visto che il viaggio fino al confine con il Libano sarebbe durato qualche ora.

Sembrava una storia degna di Agatha Christie che infatti visse in Siria per lunghi periodi della sua vita, seguendo gli scavi del secondo marito Max Mallowan, un celebre archeologo inglese. Scendevano al prestigioso Hotel Baron di Aleppo, dove Agatha Christie, nella stanza 203, scrisse una delle inchieste più celebri di Hercule Poirot, Assassinio sull’Orient Express.

Mi domando che cosa è successo all’albergo Baron, è ancora possibile prenotare una stanza? Torneranno i turisti a visitare questo bellissimo paese martoriato?

La scoperta di Ebla

Mio padre era affascinato dall’eredità storico-culturale della Siria e viaggiò intensamente su tutto il territorio, scrivendone nelle sue memorie, raccogliendo oggetti e facendo scoperte entusiasmanti, come poteva ancora accadere in quegli anni. In una di queste escursioni, lui e l’ambasciatore scoprirono un ponte romano intatto ai confini con la Turchia che non era segnalato in nessuna guida.

Mari, Dura Europos, il fiume Eufrate, Ugarit; nomi leggendari che hanno dato origine alla storia dell’umanità e che noi ritrovavamo nei sussidiari di scuola. Ma ciò di cui andava più fiero era stata l’idea, condivisa con l’ambasciatore, di coinvolgere l’Italia in una missione di scavi archeologici. L’Università La Sapienza di Roma mandò un giovane, tale Paolo Matthiae che scelse una collina a sud-ovest di Aleppo, Tell Mardikh, non lontano di Idlib, e cominciò a scavare. Chi avrebbe mai immaginato che sotto la sabbia del deserto si nascondeva la mitica città di Ebla?

Ebla, antica città di epoca Bronzo Antico, il cui regno prosperò tra il terzo e il secondo millennio avanti Cristo. Dal 1964 fino al 2014 la missione archeologica diretta dal professor Matthiae continuò a fare scoperte sensazionali, tra le quali gli archivi di stato della città, nella forma di migliaia di tavolette d’argilla con iscrizioni cuneiformi in eblaita che hanno permesso di rivoluzionare le conoscenze sulla Siria antica, dimostrando l’importanza di questa civiltà fino ad allora semisconosciuta.

Mi domando che cosa è successo a questo archivio da quando la missione archeologica ha dovuto interrompere le campagne di scavo dopo cinquant’anni? Che ne è di questo fragile sito, dell’archivio delle tavolette cuneiformi? Cosa è successo da quando il regime di Bachar el-Assad nel 2011 ha represso nel sangue la rivolta pacifica della popolazione siriana scatenando una feroce guerra civile?

Le atrocità

In questi ultimi anni non sono riuscita a guardare le immagini di distruzione, assedi, bombardamenti, deportazioni, esodi di massa, lo scempio compiuto del proprio paese, senza alcuna pietà. Come ha potuto quest’uomo, laureato in medicina, specializzato in oftalmologia a Londra trasformarsi in mostruoso fantoccio, fino a essere soprannominato il "macellaio di Damasco”, per aver incitato il suo esercito a compiere ogni forma di atrocità, incluso l’uso di armi chimiche, contro la sua stessa popolazione?

Permettendo che il suo paese marcisse nella corruzione, tornasse a essere terra di conquista e di ingerenze di potenze straniere interessate esclusivamente al proprio tornaconto, in particolare la Russia di Putin e l’Iran dei Mollah, e lasciando che una parte della Siria diventasse un feudo dello Stato Islamico?

Nel 2005, forse per emulare Agatha Christie, sono partita per la Siria in viaggio di nozze. In realtà volevo vedere con i miei occhi questo paese tanto decantato da mio padre. La prima notte ci siamo fermati a Sednaya, a trenta chilometri da Damasco, allora considerata un luogo di villeggiatura con un clima fresco dove andavano i ricchi sauditi a passare le vacanze.

Ora Sednaya sarà per sempre ricordata per il suo carcere, il “mattatoio umano” del regime di Assad. Non sono riuscita a pensare a quel buco nero che ha inghiottito centinaia di migliaia di persone, persone che sono state torturate, impiccate, giustiziate senza processo, buttate in fosse comuni e di cui ad oggi non si sa e forse mai si saprà più niente.

Le immagini che sono arrivate, dopo che il carcere è stato aperto e i prigionieri, quelli ancora vivi, sono stati liberati, sono sconvolgenti. Migliaia di persone sono accorse nella speranza di ritrovare un parente, un marito, un figlio, una sorella. In tutto il paese, le carceri sono porte aperte sull’inferno, la dimostrazione della barbarie umana. Non posso immaginare l’angoscia, l’orrore ma anche quel sentimento che resiste nonostante tutto: la speranza. Quanto coraggio serve oggi ai siriani e alle siriane per sperare?

La caduta di Assad

Il 27 novembre l’offensiva condotta dal gruppo islamista HTS (Hay’at Tahrir al Sham) che controllava la provincia di Idlib ha portato alla caduta improvvisa del regime di Assad, durato tra padre e figlio per più di mezzo secolo. Le immagini tornano a galla inaspettatamente. Con un misto di incredulità, sollievo, preoccupazione, paura e gioia. Domenica 8 dicembre un amico siriano che vive a Damasco ci ha mandato un messaggio pieno di allegria e di speranza, dicendo però che sarebbe rimasto a casa perché c’erano spari in aria e non voleva essere ferito da proiettili vaganti.

Ho ascoltato con emozione le parole della giornalista e scrittrice italo-siriana Asmae Dachan per Valigia Blu: «Oggi è il 25 aprile della Siria. Nessuno si illude che da domani il paese diventerà una democrazia laica, egualitaria e pacifica, sappiamo che la strada è tutta in salita.» Proprio per questo Dachan ci invita a offrire sostegno morale e empatia al popolo siriano.

Colata a picco

Nel viaggio di nozze ci eravamo fermati nella città di Hama, famosa per le sue norie, le gigantesche ruote di legno che raccolgono le acque dell’Oronte per distribuirle attraverso antichi acquedotti nelle campagne circostanti, rendendo fertili e rigogliose le terre.

Hama era stata teatro di un massacro nel 1982, quando le truppe di Assad padre sedarono una rivolta dei Fratelli musulmani nel sangue, assediando e distruggendo i due terzi della città. Hama è stata al centro di numerose rivolte contro Assad figlio e una delle ultime città a cadere prima di Damasco. C’era qualcosa che mi metteva a disagio già allora, un’aria soffocante, viziata, benché le strade fossero affollate di gente che passeggiava tranquilla.

Alcuni ragazzini, per ottenere qualche spicciolo o forse come prova di coraggio, si aggrappavano con agilità ai legni delle gigantesche ruote e si lasciavano trasportare fin su, all’apice della rotazione, prima di precipitare nel fiume. È un gioco pericoloso che non consente indecisioni, una volta salito, se non ti butti finisci stritolato. Chissà se sapevano già i bambini di Hama che quando la macchina distruttiva della Storia si mette in moto, niente può fermarla, e non basta il coraggio per salvarsi. Chissà se i bambini di Hama torneranno a tuffarsi nel fiume, saltando dalle norie.

L’acqua

A proposito di acqua. C’è un piccolo libro prezioso, scritto in versi liberi da un autore belga, Antoine Wauters, intitolato Mahmoud o l’innalzamento delle acque, (Neri Pozza 2023, traduzione dal francese di Stefania Ricciardi) che racconta la storia tremenda della Siria contemporanea con la voce di un vecchio poeta, Mahmoud. Solo la poesia può rendere conto dell’inenarrabile. Mahmoud nuota nelle acque del lago artificiale Assad, formatosi nel 1973 a seguito della costruzione della diga di Taqaba lungo il fiume Eufrate.

Il lago, promessa di modernizzazione della Siria da parte di Assad padre, inghiottì villaggi e memorie, causando lo spostamento di migliaia di persone. È come se tutta la storia fosse annegata in quel lago e il vecchio poeta cercasse di trattenere qualcosa con le parole, nonostante la prigione, la guerra, la morte, la pazzia.

Ho trovato in queste pagine il ritratto più acuto di Bashar el-Assad, l’oftalmologo timido, «dagli occhi di squalo pazzo» finito al potere per sbaglio dopo la morte del fratello maggiore. «E la nostra Siria,/i nostri alberi,/Mahmoud,/i luoghi dove ci siamo amati,/la nostra terra,/tutto è colato a picco».

Il deserto

Ma è il deserto che si deve attraversare per arrivare a Palmira. Ricordo l’emozione arrivando all’oasi con le sue rovine: colonne e templi, archi, mute vestigia imponenti circondate da un fittissimo palmeto racchiuso da muretti a secco. Palmira diventò provincia romana nel secondo secolo dopo Cristo, rifondata sui resti di un antico insediamento risalente al secondo millennio A.C. che vide avvicendarsi gli Assiri, i Persiani e il regno dei Seleucidi.

Fu tappa per le carovane che dal Mediterraneo si dirigevano verso l’Eufrate, fin giù verso la Penisola Arabica, punto estremo di contatto tra oriente e occidente. Oltre alla bellezza nella luce dorata del tramonto, quello che mi colpì di Palmira era il sincretismo versatile di questo sito archeologico, patrimonio dell’umanità UNESCO; l’intreccio di mondi, divinità, stili, come se tutto il conoscibile dell’antichità si fosse incontrato qui, in mezzo al deserto.

Il tempio di Bel, Giove mesopotamo, giaceva imponente accanto al cardo colonnato, alle terme di Diocleziano, al teatro perfettamente conservato e all’agorà. Il tetrapilo, nodo centrale della città, incontrava il tempio di Baal Shamin, dio fenicio delle tempeste e delle piogge. Nel maggio 2015 Palmira è caduta nelle mani dell’ISIS. I templi di Bel e di Baal sono stati distrutti. Il 18 agosto di quello stesso anno, l’ex direttore del sito archeologico, Khaled Al-Assad, è stato decapitato a 81 anni sulla pubblica piazza. Sono gli stessi islamisti che hanno rovesciato il regime di Assad? Non lo so, ma so quanto coraggio serve oggi ai siriani e ancor più alle siriane per sperare.

L’ultimo cantastorie

Nel suq di Damasco, c’era un cantastorie, forse l’ultimo rimasto, Abu Shady, che tutte le sere, seduto sul trono in un caffè dietro la Moschea degli Omayyadi, narrava le vicende del sultano Beybars, di Antar ibn Shadad o di Saladino. Tutti conoscevano le storie a memoria, ma era come se le ascoltassero per la prima volta, per quell’incanto meraviglioso che è proprio della narrazione orale, reminiscenza dell’infanzia e forza suggestiva della fiaba, miniera inesauribile di esperienza e di scoperta.

Abu Shady sedeva sul trono, con il fez calato sulla fronte, folti baffi e occhiali rotondi, nella mano destra teneva una spada. Il racconto era inizialmente lento, regolare, con tono quasi cantilenante, «c’era una volta, in un tempo molto lontano...», poi d’improvviso si impennava, la voce tuonava e la spada sbatteva fragorosamente su un tavolinetto di rame, facendoci sobbalzare e ridere, come bambini. La storia riprendeva, a ritmo alternato, lenta e veloce, pacata e concitata appena il livello dell’attenzione scemava.

E anche noi che non capivamo le parole in siriano eravamo rapiti dal ritmo del racconto, dalla sapienza antica di secoli, come è la città di Damasco, lei che era già lì, prima del tempo, quando ancora i giardini erano appendici del paradiso e le altre città poco più che villaggi.

Lei che oggi spalanca la bocca nera ogni volta che si apre la porta di una cella delle sue prigione, ogni volta che una madre riconosce il cadavere di un figlio, o non riesce nemmeno a riconoscerlo, ogni volta che i sogni di libertà, democrazia, laicità, fratellanza vengono schiacciati brutalmente. Quel sogno che fu anche di Padre Paolo dall’Oglio, fondatore della comunità monastica di Deir Mar Musa, sparito nel nulla nel luglio del 2013.

Wahid, wahid, wahit, Sham Suriya wahid: il popolo siriano è uno. Abu Shady finisce la storia poi d’improvviso, come insegna Sherazade, si interrompe, si alza e se ne va. Chi vuole sentire il seguito, torni domani. La Storia non è ancora scritta. Ma proprio per questo è importante rivolgere la nostra attenzione alla Siria.

© Riproduzione riservata