Seduta al cinema dopo la proiezione de La zona d’interesse, ho pensato insistentemente alla parola esaurimento. L’ho fatto su un piano umano, etico, artistico: non avrei saputo separare bene i motivi per cui ho fatto esperienza del film in questo modo, ma ci provo adesso.

Riciclo

Per molti aspetti, La zona d’interesse può essere considerato un film sul riciclo. L’opera di Jonathan Glazer, che si è aggiudicata l’Oscar per Miglior film internazionale e Miglior sonoro durante l’ultima cerimonia degli Academy Awards, presenta diversi momenti in cui i personaggi principali sono intenti a riutilizzare cose rubate, scartate o bruciate appartenenti alla vita e al passato di persone che non vediamo mai durante il film.

Le cose rubate: Sandra Hüller, che interpreta la moglie di Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, dirige una specie di asta in cui lei e le sue amiche si spartiscono la biancheria e le sottovesti delle donne ebree rinchiuse e destinate ai forni crematori a pochi metri dalla sala da pranzo in cui si allestisce questa piccola cerimonia macabra.

La regina di Auschwitz, così si definisce la signora Höss nel film, si accaparra non solo sottovesti, ma anche pellicce e rossetti, celebrando così la sua piena assunzione alla borghesia a cui appartenevano un tempo le donne ebree di cui sta riciclando gli effetti personali.

Forse definirlo riciclo non è usare il termine più corretto, trattandosi di oggetti che le proprietarie non hanno deciso di buttare, ma cose di cui sono state spogliate e derubate, soprattutto per la necessità di imporre loro un’umiliazione.

Ma in qualche modo conta cosa decidono di farsene le persone, di quelle pellicce e di quei rossetti resi ormai quasi innocui dopo che il furto è stato “stemperato” da una serie di intermediari anonimi che lavorano al campo di concentramento, di quegli oggetti privati quasi di un’origine, di una storia, perfettamente reinseribili nel circuito della vita e dell’esperienza quotidiana.

Che è un po’ quello che facciamo anche noi con i ricordi di un trauma storico in generale, e con le immagini di guerra che ci arrivano tutti i giorni: man mano che vengono filtrati da vari intermediari e inevitabilmente sanificati nel processo, ricordi e immagini del dolore altrui diventano qualcosa di spendibile, di cui ci appropriamo nello spazio minimo di una conversazione, prima di deporli di nuovo da qualche parte, sperando che chi li raccoglierà saprà farne un uso migliore del nostro.

La zona d’interesse è un film sul riciclo anche perché, nelle scene a mio avviso più crude di un’opera che non aspira mai veramente alla commozione né alla violenza del sentire – è un film che mira direttamente alla catena dei pensieri e della riflessione, un obiettivo non sempre centrato e che tuttavia può lasciare disorientati – le ceneri delle persone morte bruciate ad Auschwitz vengono utilizzate come fertilizzante per i bellissimi giardini della famiglia Höss.

E qui emerge una contraddizione: le ceneri che gli occupanti della casa accanto al campo di concentramento sono disposti a utilizzare affinché si infiltrino e vadano a costituire la materia vibrante dei propri fiori, dei propri pomodori e delle verdure che mettono in tavola, e che dunque in qualche modo entreranno a contatto con il loro apparato digerente, devono essere accuratamente scansate quando invece finiscono nelle acque in cui il comandante nuota con i suoi figli: la superficie del corpo, la sua esteriorità, va salvata dalla contaminazione. Lo conferma il modo in cui il comandante si sfrega e igienizza l’apparato genitale dopo essere andato a letto con una donna ebrea impiegata nel ruolo di prostituta. Il suo apparato digerente, però, può essere liberamente contaminato dal corpo dell’altro: è l’inevitabile catena alimentare, sembra dirci il suo personaggio.

Sa bene chi è destinato a mangiare chi e quale posizione occupa ciascuno nella catena ma, se può evitare di manifestarlo apertamente, l’orrore della storia è destinato a restare indolore. Sempre nel territorio del riciclo e della trasformazione delle risorse ricade, non a caso, l’unica scena in cui il comandante Höss manifesta una forma di rifiuto: e cioè vomitando. Nel suo vomito c’è, letteralmente, un residuo dei corpi che ha ucciso. Arriva un momento in cui l’altro, come soggetto, non è più consumabile, perché è stato definitivamente distrutto.

Esaurimento

E qui mi rendo conto del vero motivo per cui ritengo La zona di interesse un film sul riciclo e sull’esaurimento. Nell’intraprendere un progetto durato anni e girato con estrema attenzione al modo in cui gli attori e le attrici possono riprodurre la banalità della routine spogliandola dalla maggior parte degli effetti, Jonathan Glazer ha deciso di inserirsi in una lunga tradizione cinematografica dedicata all’Olocausto. Solo che Glazer ha optato per un’installazione quasi artistica, puntando molto sulla spietatezza del sonoro e sulla brutalità architettonica dei muri, dei recinti.

La sua scelta di non far vedere il male ha spinto molti a dire che, giunti a questo punto della storia, questo è l’unico modo di raccontare l’Olocausto. Ma forse Glazer si è spinto oltre e, con questo film, è riuscito a dire che l’Olocausto non si può più raccontare del tutto: il tema, per varie ragioni, si è esaurito. Non perché non sia più importante, o tragico, ma perché la memoria su cui tanto facciamo affidamento non collabora più, e non sostiene uno sforzo che l’arte prova ancora a fare.

Mi chiedo se avrei avuto la stessa impressione di esaurimento se La zona d’interesse fosse uscito prima dell’attentato di Hamas del 7 ottobre, avvenuto nei pressi di un rave che a sua volta è avvenuto nei pressi di un luogo di detenzione a cielo aperto qual è Gaza: se la memoria storica funzionasse per davvero, generando paura e inducendo cambiamenti nei nostri rapporti con l’altro, forse il modo in cui scegliamo di esercitare la nostra libertà e la nostra felicità non somiglierebbe così tanto a quello degli amici degli Höss, che decidono di organizzare feste in giardino mentre a qualche metro di distanza asfissiano delle persone con il gas.

Nelle cronache sul genocidio perpetuato dagli israeliani nei confronti delle persone che vivono a Gaza, sono innumerevoli i resoconti di soldati israeliani che trafugano vestiti, creme per il viso o oggetti delle donne palestinesi, da riciclare per le proprie fidanzate.

Il trasferimento di proprietà dei beni materiali è una costante di tutte le guerre. Ancor prima che Naomi Klein denunciasse queste somiglianze tra il film di Glazer e l’attualità di Gaza in un editoriale sul Guardian intitolato The Zone of Interest is about the danger of ignoring atrocities, le spettatrici e gli spettatori cresciuti sul doppio binario dell’eccezionalità dell’Olocausto e di guerre di sterminio che invece adottano pratiche molto simili tra loro, sentendo tutto il peso delle interferenze e delle somiglianze tra un film visto al cinema e la realtà attuale non hanno potuto fare a meno di provare un moto di insicurezza, oserei dire di fastidio e, infine, di orrore.

Questo perché forse la cosa più riuscita del film di Glazer non è quello che fa sullo schermo, ma quello che fa subito dopo, a luci spente, quando il nero è tornato: ci costringe a prendere atto del riciclo della storia, senza dirci se possiamo farci qualcosa. Non a caso il film si chiude con le persone che spazzano i corridoi del Museo di Auschwitz: è un rinvio diretto a un’idea di rifiuto, in qualche modo di spreco.

Monolitico

Dire che La zona d’interesse parla di Gaza, però, non è del tutto opportuno e corretto, anche se lo stesso Glazer ha istituito dei parallelismi durante il suo discorso di ringraziamento per l’Oscar: se qualche cineasta vorrà raccontare quanto succede in questi giorni o in qualche modo continua a succedere in forme diverse dal 1948, potrà farlo, avrebbe già potuto farlo.

Ma quel pezzo di storia è meno filmabile, meno romanzabile: più complesso l’uso delle fonti, meno digerito e metabolizzato dalla nostra coscienza a trazione occidentale. Glazer invece ha scelto di fare un film sull’Olocausto, ancora una volta: e in questo ancora una volta c’è un peso che non si può ignorare.

In un pezzo illuminante apparso sul New Yorker e intitolato In the Shadow of the Holocaust, lo scorso dicembre Masha Gessen metteva al centro del suo obiettivo le politiche della memoria intraprese dal governo tedesco. Sono politiche che hanno cambiato lo spazio fisico della città, in un percorso fatto di musei, monumenti e pietre d’inciampo, ma che hanno cambiato anche l’idea sulla libertà di espressione, ostacolando la possibilità di discutere la storia attuale senza far scivolare il dibattito sull’antisemitismo, sulla profanazione del dolore delle vittime dell’Olocausto.

Anche se nella narrazione pubblica il governo tedesco ha fatto molto per ricordare la pluralità di vittime che sono state sterminate dai nazisti – tra queste i rom, le persone omosessuali e quelle affette da disabilità o patologie mentali – è evidente che l’argomento non si può circostanziare e che la società tedesca rinforza politiche della memoria basate in qualche modo su un ricordo perfetto, monolitico, che può avanzare nel tempo solo se viene protetto da ogni eventuale contaminazione o paragone. È uno strano paradosso: per quanto usurato, mediato e tradotto in ogni lingua e formato possibile, il ricordo dell’Olocausto chiede di non subire ammaccature, di non manifestare logoramento per il troppo uso.

Ma i ricordi non funzionano così. A meno che non siano custoditi sotto una teca di vetro, per essere contemplati nella loro inerte bellezza di manufatti di un mondo andato, corrono perennemente il rischio di essere infiltrati da batteri e sostanze volatili che appartengono al mondo che cambia.

Inviolabile

Fino a La zona d’interesse e agli eventi attuali, l’Olocausto sembrava esserci quasi riuscito, a mantenere una sua inviolabilità. Nella scala gerarchica della memoria cui appartiene, che assomiglia in modo sinistro a una catena alimentare, si è trasmesso il messaggio più o meno volontario che non c’è modo di far spazio a nuovi ricordi, o a nuove memorie, a meno di non smaltire qualcosa.

E ora che in qualche modo saremo costretti a farlo, ci rendiamo conto che non riusciamo a contenere tutto, per quanto vorremmo, e dinanzi a questi eccessi di memoria la coscienza si spacca, si infrange, reagisce con vergogna da una parte o con violenza dall’altra. Perché vogliamo saper contenere tutto: un momento lontano nel tempo che ci ronza costantemente in testa, un momento vicinissimo nella storia che ci sparisce davanti agli occhi.

L’assedio di Sarajevo è iniziato quando io avevo otto anni ed è finito quando ne avevo dodici. Come molte persone che sono cresciute con la sensazione di un appuntamento mancato con la storia – in quel caso per via di una condizione di giovinezza e di forzata ignoranza – ho ricomposto la distanza con quell’evento grazie ai libri, grazie ai film (ricordo il bellissimo Quo Vadis, Aida? di Jasmila Žbani del 2022 sul massacro di Srebrenica) cercando di aggrapparmi a quello che si sentiva dire in quegli anni: che se ci fosse stata una diretta televisiva, se ci fosse stata la possibilità di documentare tutto in presa diretta, le cose sarebbero andate diversamente.

Magari non si sarebbero risolte in maniera pacifica, ma non sarebbe andata così male: e il nome e il numero delle persone morte in guerra conta. Poi le dirette televisive sono arrivate, e non solo non è andata diversamente, ma è andata persino peggio. Dunque il postulato rievocato anche da Naomi Klein, che la storia è un avvertimento sul presente, si ripresenta in tutta la sua forza e falsità, ancora una volta: così come la letteratura non salva, non è vero che la storia insegna. Se continuiamo a dirlo e a professarlo con tutta questa convinzione, è perché abbiamo bisogno di una formula degna di un esorcismo, che possa risolvere una momentanea crisi di coscienza e liberarci temporaneamente dal male.

Ma preso atto di un esaurimento nel modo in cui ricordiamo le cose e cerchiamo di non ripeterle, forse potremmo abbandonare queste formule rituali, questi sigilli protettivi di un mondo ideale che non abbiamo mai intravisto se non nella più profonda e lacerante delle utopie. L’esorcismo delle giornate della memoria non funziona, il male dilaga lo stesso.

Se un’umanità congestionata dalla memoria ricorda sempre meno e butta sempre di più, cosa si può fare? La domanda su cosa sacrificare per produrre un’esperienza ancora viva e attiva del dolore, e per cercare di essere giusti nel presente almeno quanto avremmo voluto esserlo nel passato non è una domanda semplice, né spettava al film di Jonathan Glazer risolverla.

Eppure da qualche parte un intervento è necessario: per non trasformare la storia in un rifiuto o in un gingillo da mostrare. O, peggio ancora, in qualcosa che all’occorrenza si può anche vomitare. Ci devono essere altri modi per fare spazio.

Da Sotto il vulcano, numero 10, “Visioni”, Feltrinelli


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