Citando il titolo Italiano di Itineraire d’un enfant gaté, una vita non basta né al regista Claude Lelouch che a 86 anni, continua a ringiovanire con il cinema, né a Kad Merad che dal successo di film come Giù al nord o Il piccolo Nicolas ha saputo scrollarsi di dosso l’etichetta di comico “tout court” con dei ruoli sempre più drammatici e complessi. Questa volta con Finalement, 51esimo film dell’autore di Un uomo, una donna, l’attore incarna il suo ruolo più pirandelliano in una commedia libera e volte sgangherata sulla follia dei sentimenti.

Il suo personaggio è un uomo alla ricerca di sé stesso che si scopre e si reinventa attraverso gli incontri che fa in giro per la Francia. È un bugiardo profondamente empatico e assetato di verità, insomma… anche se è un avvocato in crisi, ha tutte le caratteristiche di un attore, no?

È vero, è un personaggio che mi assomiglia molto. È favoloso da interpretare perché la sua libertà lo porta a vivere diverse vite: è un divo del foro, un ex prete, un regista di film porno, ma anche un vagabondo che attraversa la Francia con una borsa sulla spalla e una vecchia tromba. È un personaggio che ha bisogno di tagliare i ponti con tutto e tutti per rigenerarsi. A ognuno di noi capita, a certo punto della vita, di voler fuggire dal proprio mondo, no? Io, fortunatamente riesco a mantenere un sano distacco, molti nel cinema si sentono un po' troppo i padroni del mondo, invece siamo solo dei clown, gente che racconta storie e basta. Non credo che andrò mai in burnout come il mio personaggio, ma mi capita a volte di immaginare un'altra vita dove nessuno mi conosce e dove posso lasciarmi andare. Sembra un cliché, ma mi piacerebbe fuggire su una spiaggia a vendere noci di cocco, vivrei tutto il giorno in costume da bagno, tatuato, coi piercing…

L’ambiente del cinema è cosi elitario e insopportabile?

No, ho molti amici nel settore, ma non sento il bisogno di frequentare gente di cinema. Mi piacciono le cose semplici e trovo che alcuni aspetti di questo lavoro ti allontanano dalle cose essenziali della vita e del mestiere. Adoro stare sul set di un film o sul palco di un teatro, punto. Tutto quello che è di “contorno” invece è un po’ complicato: i vestiti, il trucco, la preparazione, le dichiarazioni in conferenza stampa, le interviste in cui dobbiamo sempre stare attenti a quello che diciamo. Ormai è un incubo, è tutto sotto controllo, non possiamo più dire niente, soprattutto coi social.

È importante rimanere in contatto con la realtà, ma il suo lavoro le permette di poter vivere “al sicuro” anche la vita degli altri...

Sì, è un mestiere meraviglioso e in questo film, ho un ruolo da sogno per un attore, una specie di Charlie Chaplin moderno pieno di sfumature: malinconia, candore, rabbia, e poi ci sono le canzoni, la poesia e il piacere del suonare la tromba. Ho sessant’anni e di film ne ho fatti, ma le assicuro che non mi sono mai sentito così amato e coccolato su un set. Claude Lelouch è come un bambino di 86 anni che ti riprende con lo stesso entusiasmo di quando girava il suo primo film in Super 8. Con lui ti senti al sicuro e hai voglia di dargli tutto, sei suo.

Prima ha detto che le piacerebbe vendere cocco su una spiaggia… se non fosse diventato un attore, che cosa avrebbe fatto? A cosa era destinato?

Sono cresciuto in una piccola città della Loira che si chiama Balbigny. Mio padre lavorava come caposquadra in una fabbrica che produceva vagoni merci, e se non andavi bene a scuola, finivi direttamente a lavorare lì. Io ero un pessimo studente quindi, se non ci fossimo trasferiti con mio padre nei dintorni di Parigi, sarei probabilmente diventato un operaio come molti altri ragazzi di quella regione. Andare a vivere vicino Parigi ha reso il mio sogno possibile perché mi ha avvicinato alle scuole di teatro, potevo finalmente iscrivermi al mio primo corso di recitazione e così ho fatto.

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Come l’ha presa suo padre quando ha deciso di fare l’attore?

Ha fatto finta di niente, mia madre mi ha sostenuto molto, è stata lei a comprarmi la mia prima batteria quando volevo fare il musicista e ad aiutarmi a iscrivermi al Cours Simon (n.d.r. scuola d’arte drammatica). Mio padre mi seguiva da lontano, non mi ha mai fermato, mi diceva: «Vai avanti, ma alla fine tornerai a fare un lavoro normale», perché ovviamente per lui, recitare non era un mestiere. Poi quando le cose hanno iniziato a decollare era così orgoglioso di me! Pensi che si è fatto un selfie davanti al televisore mentre leggevo la dichiarazione dei diritti umani durante la parata del 14 luglio 2008. Casa dei miei è diventata una specie di museo “Kad Merad”: poster, foto, ritagli di giornale ovunque. Sentivo una grande responsabilità nei loro confronti ed è stato importante renderli fieri di me.

Lei ormai è un attore e regista che passa tranquillamente dalla commedia al dramma, fare il comico è stato solo un trampolino di lancio per la sua carriera?

Nasco comico, fin da piccolo facevo ridere i miei amici e la mia famiglia. I miei idoli erano Jerry Lewis, Louis de Funès o Peter Sellers. Avevano qualcosa di clownesco, ma sentivo che dietro alla maschera c’era qualcosa di malinconico che mi toccava. Jerry Lewis in Le folli notti del dottor Jerryll è esilarante ma anche commovente, nel doppio ruolo di un professore imbranato di chimica che si trasforma in un aitante playboy maschilista. È uno dei miei film del cuore insieme a La vita è meravigliosa di Frank Capra. Finché posso, non smetterò mai di far ridere ma devo ammettere che alcuni ruoli drammatici mi hanno permesso di esprimere un’altra parte di me stesso. Mi piace cambiare registro, dopo Lelouch ho girato con Costa Gavras un film sulle cure palliative.

Quindi per lei l’umorismo era una specie di corazza per difendersi?

Certo, l'umorismo è una maschera dietro alla quale ti puoi nascondere. Da piccolo facevo ridere mio padre per evitare che mi picchiasse. Era un uomo piuttosto duro e a casa ci faceva talmente paura che non osavamo dire una parola di troppo. Quando ti rendi conto a cinque, sei anni, che riesci a disinnescare situazioni difficili con la risata, capisci che è un potere. L’umorismo mi ha fatto superare molte difficoltà e mi ha insegnato a non prendere mai le cose veramente sul serio, una vera arma che ti permette di sopravvivere. Un esempio cinematografico per tutti? La vita è bella di Roberto Benigni.

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Sa che l’antenato di La vita è bella è The day the clown cried (1972), il film ripudiato e mai uscito di Jerry Lewis? La storia di un clown in un lager che doveva far ridere i bambini destinati alla camere a gas. Il film fece cadere Lewis in una terribile depressione e ne vietò la diffusione, era il suo primo ruolo drammatico…

È difficile essere solo un attore comico perché non vieni mai preso sul serio. Quando ti incontrano ti danno una pacca sulla spalla, ti danno del tu, non ti conoscono ma ti parlano come se fossi un tizio incontrato al bar. Se invece sei Alain Delon, per esempio, sei subito Monsieur Delon. Solo dopo aver interpretato ruoli più drammatici, hanno iniziato a chiamarmi Monsieur Merad, prima ero solo Kad. Credo che la commedia sia la cosa più complicata da fare al cinema, c’è un ritmo, un tempo comico difficilissimo da trasmettere, non è come a teatro dove hai un pubblico in carne ossa che reagisce. Purtroppo c’è un pregiudizio sui comici, non vengono considerati dei veri attori e le commedie cinematografiche non vengono mai premiate, c’è un solo festival della commedia all'Alpe d'Huez che è una specie di sagra della risata. La verità è che i comici vengono considerati come dei clown da rinchiudere nelle loro roulotte mentre gli altri sorseggiano cocktail sulla terrazza dell’hotel Martinez a Cannes.

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