Ogni pisano che si rispetti sa che da Vecchiano vengono due cose. La prima è l’espressione «Oh, hai mangiato il pollo che non la passi?»; la seconda è Antonio Tabucchi.

Per chi non lo sapesse, l’espressione gergale «Oh, hai mangiato il pollo che non la passi?» si usa o si usava tra i ggiovani (la doppia g non è un refuso) nel momento in cui prendeva a girare una canna e qualcuno la tratteneva più a lungo del dovuto. Come a dire: «C’hai le dite appiccicose di pollo che non la passi?».

«Io di Tabucchi essendo pisano e avendo vissuto a Pisa negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso non solo so abbastanza cose, ma ho anche molti aneddoti», dico al parrucchiere romano di origini ciociare da cui vado abitualmente. Certo l’aneddotica è molto simile al gossip, se ci si pensa bene, e a me dispiacerebbe fare del gossip su Antonio Tabucchi. Anche perché quando io ero a Pisa negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso Antonio Tabucchi se ne andava spesso per i fatti suoi, magari in Portogallo.

«Non è che ci incontravamo spesso io e Antonio», dico al parrucchiere romano di origini ciociare. Lo chiamo proprio così Tabucchi, per nome, millantando una certa familiarità del tutto fittizia.

Riflettendoci, è accettabile pensare che Tabucchi abbia lasciato l’Italia per il Portogallo, ma non che abbia lasciato Pisa, Vecchiano, per Lisbona.

L’incontro

Comunque un pomeriggio, mi ricordo, io stavo compiendo il mio abituale pellegrinaggio alla Feltrinelli di corso Italia, e indovinate un po’ chi ti ci vedo dentro?

Io c’è stato tutto un periodo, verso i venti anni, che ogni giorno facevo il solito giro: da casa mia alla libreria Feltrinelli e dalla libreria Feltrinelli a casa mia.

Io verso i venti anni ero iscritto a Lettere Moderne, ma il mio giro non era da casa mia alla Facoltà e dalla Facoltà a casa mia, bensì da casa mia alla libreria Feltrinelli e dalla libreria Feltrinelli a casa mia.

Io, verso i venti anni, e anche in seguito, sono rimasto iscritto a Lettere Moderne, e avevo tutti i difetti degli iscritti a Lettere Moderne, compreso quello, micidiale, che poi a Lettere Moderne non ci andavo mai (invece sarei andato fuori corso e fuori strada e fuori formato: l’essenza di ogni umanista degno di questo nome). Comunque quel giorno dentro alla Feltrinelli c’era proprio lui: Antonio Tabucchi. E io cominciai a prendere in mano tutti i libri che aveva appena preso in mano lui.

Lo so che degli incontri memorabili bisognerebbe ricordare tutto, eppure io proprio non me li ricordo i libri che avevano incuriosito Tabucchi. Potrei dirvi che quel pomeriggio alla Feltrinelli aveva preso in mano, che so, un libro di Pessoa, per farvi correre un brivido lungo la schiena, ma non cederò così facilmente alle ferree leggi dello spettacolo. Il primo libro che ho letto di Tabucchi è stato Requiem, lo so che sembra fatto apposta, ma cosa ci posso fare?

«Ma insomma te e ‘sto Tabucchi in che rapporti siete stati?», mi domanda con un tono vagamente morboso il parrucchiere romano di origini ciociare.

Che poi a me di Tabucchi più che l’Opera m’interessa la postura. L’ho visto mentre presentava qualche suo libro (sempre alla Feltrinelli di corso Italia), e mi son sempre detto: ecco il piglio di uno scrittore, anzi di un maestro.

«Eh…», sospiro enigmatico mentre il parrucchiere romano di origine ciociare mi spunta le basette. Come a dire: «Io e Antonio ne abbiamo fatte di cotte e di crude insieme, ma non voglio darti soddisfazione».

Io, prima di iscrivermi a Lettere Moderne, avevo fatto una scuola di teatro a Milano. E lì la prima cosa che ci avevano detto era stata: l’eroe occupa lo spazio scenico in un modo molto diverso rispetto ai suoi gregari. Stare al mondo, c’è poco da fare, è anche un fatto di (im)postura.

Oltre a sfogliare tutti i libri che Tabucchi aveva a sua volta appena sfogliato, quel giorno alla Feltrinelli – che già di per sé mi pare un gesto eloquente e bellissimo, se mi permettete quasi un passaggio di consegne – senza farmene accorgere lo seguii fino alla cassa.

Alla cassa della Feltrinelli Tabucchi si mise diligente in fila, nonostante i commessi e le cassiere gli facessero grandi salamelecchi. Ecco come mi sembrò: uno che non abusava del suo potere, e che vigilava sugli eventuali abusi di potere altrui.

«Ma insomma perché Tabucchi lasciò l’Italia?», mi chiede pressante il parrucchiere romano di origini ciociare.

«Perché più di ogni altra cosa amava il sentimento della nostalgia», rispondo io, un tantino paraculo. Non so esattamente cosa mi trattenne dal presentarmi a Tabucchi, quel giorno alla Feltrinelli: forse ebbi timore della sua reputazione di antipatico e scontroso. Cosa che sotto sotto di lui ho sempre approvato: guai a quello scrittore che mette tutti d’accordo, che vuole piacere a tutti.

Che poi se dovessi dire un tratto distintivo della toscanità, dell’esser toscani, sarebbe proprio quello: l’intransigenza. Ecco, Tabucchi non è stato solo un grande antipatico, bensì un intransigente. Come ebbe a scrivere Curzio Malaparte: «I toscani sembrano nati proprio per dire quel che agli altri non piace sia detto».

La confidenza

«Abbiamo finito», mi dice il parrucchiere romano di origini ciociare, dopo avermi spazzolato energicamente il colletto della camicia. Io lo guardo con aria di sfida: «Se ti dico un segreto su Tabucchi me lo fai lo sconticino?».

E ora cosa gli invento al parrucchiere romano di origini ciociare? Me lo chiedo mentre mi avvio a pagare e il tempo stringe e fuori non troverò Pisa bensì Roma (e d’improvviso capisco che Tabucchi non lo so, ma io sicuramente sì: più di ogni altra cosa amo il sentimento della nostalgia).

A proposito di geniacci a Pisa. E Galileo Galilei, dove lo mettiamo? Abitò vicino all’attuale Palazzo di Giustizia. Nei paraggi c’è un bar tabacchi dove un mio conoscente ha vinto 70,00 euro al Gratta e Vinci.

«E allora?», mi fa il parrucchiere romano di origini ciociare, abbassando istintivamente la voce. «Questo segreto su Tabucchi?».

Ci penso un po’ su. In fondo potrei dirgli qualunque cosa: Tabucchi odiava il Portogallo, Tabucchi non era un tabagista incarognito, Tabucchi votava Forza Italia… Potreste chiedermi: ma dopo quella volta alla Feltrinelli di corso Italia non l’hai più incrociato Tabucchi? Neanche nel 1995 quando Roberto Faenza trasse il film da Sostiene Pereira e la prima si svolse al teatro Verdi? No, niente. Quel giorno me lo ricordo bene: mi aggirai nei dintorni del teatro come tutti quelli che non avevano avuto la fortuna di essere stati invitati alla première, ma incrociai soltanto uno scoglionatissimo Gabriele Salvatores.

«Stasera tentiamo di metterci in contatto con Tabucchi, facciamo una seduta spiritica», rivelo infine al parrucchiere romano di origini ciociare. E per ottenere uno sconticino ancora maggiore aggiungo: «Mi accompagni?».

Come mai avrò accettato l’invito per la seduta spiritica in onore di Tabucchi sulla terrazza romana? Forse per un fatto di appartenenza, perché a me certe volte mi manca Pisa, e quindi tutte le scuse sono buone per colmare la distanza, anche questa cafonata medianica.

L’appartenenza poi è un fatto irrazionale. Riflettiamo in grande. Cantare l’inno nazionale davanti alla televisione, prima che inizi una partita di calcio, non è un fatto che si pondera.

Alla seduta spiritica, oltre a me e al parrucchiere romano di origine ciociare, partecipano la padrona di casa (e di terrazza) Contessa Bue, un politico di cui è meglio tacere il nome e un palazzinaro col pallino di Tabucchi.

Immagine aberrante: durante la finale del Campionato del mondo di calcio, accorgersi di cantare a squarciagola l’inno nazionale della squadra avversaria.

«Allora, si comincia?», rompe gli indugi la Contessa Bue, padrona di casa nonché di terrazza, ovviamente vedova e instancabile organizzatrice di eventi mondani, anche in salsa occulta.

Roma, a differenza di Pisa che ci si è costretti, le cose si fanno in quattro gatti perché fa chic. Dunque io, che ero stato chiamato in quanto autore pisano, il parrucchiere ciociaro, la Contessa Bue, il politico e il palazzinaro congiungiamo le mani sul tavolo a formare un cerchio.

Roma, a differenza di Pisa che finisce subito, è un paesone per scherzo, perché se poi vai nelle periferie e cominci a contare i palazzi, e per ogni palazzo conti le finestre, ti viene quasi una vertigine, ti viene quasi da star male.

«Tabucchi ci sei?», domanda all’aria rafferma dell’equinozio d’autunno romano la Contessa Bue, che è anche la medium della serata, cioè come a dire che si occupa anche dell’animazione.

Roma, a differenza di Pisa con Livorno, non c’ha rivalità storiche con altre città della regione. Non potrebbe esistere insomma un Vernacoliere di Viterbo o di Latina o di Frosinone.

Una domanda per lui

«Voi cosa gli domandereste a Tabucchi?», gli viene da chiedere al parrucchiere romano di origini ciociare al resto della combriccola. La Contessa Bue lo fulmina con lo sguardo, ma ormai è troppo tardi.

Roma, a differenza di Pisa che c’incontro solo Paolo Conticini, io ci vedo un sacco di vip nel loro quotidiano: Michele Santoro al banco frigo del supermercato, Valeria Marini in taxi ferma al semaforo, Martina Stella in libreria, Renato Zero che parcheggia... Per non parlare di Massimo Giletti. Massimo Giletti lo vedo dappertutto, sempre.

«A Tabucchi non domanderei niente, più che altro se fosse ancora vivo lo convincerei a tornare in Italia», asserisce convinto il politico.

Certo, anche in provincia capitano parecchi vip, ma vengono sempre su invito, per una qualche manifestazione pubblica. A Roma invece i vip li vedi nel loro vacuo, disperato quotidiano. Massimo Giletti, per dire, io lo vedo sempre nei paraggi degli studi Rai di piazza Mazzini mentre si mette a cavalcioni del suo scooter, scoglionatissimo.

«A Tabucchi domanderei se è vero che il modernismo è tornato in auge con l’avvento dell’autofiction, mentre il postmoderno in chiave citazionista di cui Pessoa fu il caposcuola – e i suoi bildungsroman camuffati – è tutto sommato un fenomeno già storicizzabile», dice il palazzinaro.

Potrei sbagliarmi, ma forse ora è ai domiciliari. Una volta Massimo Giletti, nei paraggi degli studi Rai di piazza Mazzini, mi ha anche guardato intensamente negli occhi, prima di mettersi a cavalcioni del suo scooter, scoglionatissimo.

Ma per mettersi in contatto con Tabucchi, come d’altronde con qualsiasi altro scrittore, non bastano i libri? Io, il parrucchiere romano di origini ciociare, la Contessa Bue, il politico e il palazzinaro continuiamo a tenere le mani congiunte sopra il tavolo, ma il piattino non si muove neanche per sbaglio.

Pisa comunque rimane un posto da scrittori. Ne sono fermamente convinto. Poco rumore, poche distrazioni. Deprime il giusto, offre un senso di emarginazione molto utile alla pratica letteraria. In realtà se il piattino si muovesse io farei scena muta, io una domanda per Tabucchi adesso proprio non ce l’avrei. Invece penso che il massimo sarebbe stato incontrarlo a Vecchiano mentre fumava una canna e domandargli: «Oh, hai mangiato il pollo che non la passi?»

Ma questo sulla terrazza romana non potrebbero capirlo, perciò sto zitto. Lo capiamo solo io e voi. E lui, naturalmente.

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