Questo testo è il frutto di una serie di conversazioni di Caterina Cardona con Giorgio Manganelli, avvenute negli anni Ottanta, incentrate sul tema della letteratura e sul suo incontro con Ernst Bernhard, allora registrate e qui riassemblate. Un grazie particolare a Silvia Di Domenico per la trascrizione dei testi registrati.

In Letteratura come menzogna (Rizzoli, Milano) nel 1967 lei scriveva a proposito della letteratura: «Anarchica, la letteratura è una utopia, e come tale continuamente si dissolve e si coagula. Come è proprio delle utopie essa è infantile, irritante, sgomentevole», e, a proposito della figura dello scrittore: «Come accade ai testimoni, lo scrittore non sa ma il suo è un modo altamente specifico di non sapere. Ignora totalmente il senso del linguaggio in cui è coinvolto, donde la sua potenza, la sua capacità di viverlo come magma, coacervo di impossibili falsi, menzogne, illusionismi, giochi e cerimonie». Userebbe ancora il termine «scrittore»? E le ripugna sempre parlare di letteratura?

Oggi non userei più quel termine: scrittore. E sì, mi ripugna perché finisce che la letteratura viene trattata come centrale, come una rivelazione, come una cosa seria, e allora av- viene un errore fatale. La letteratura trattata come centrale diventa molesta, perché tutto ciò che è centrale è intollerabile. La letteratura è centrale solo quando si capisce che è periferica. Allora va bene ma, se si capisce che è periferica, non se ne può parlare come ne stiamo parlando adesso noi. Dunque un errore fatale e una duplice ribellione: la ribellione della letteratura a essere messa al centro e la ribellione della letteratura che dice: «ma proprio tu mi metti al centro, sapendo che il mio centro è la periferia?».

Il professore, come tutti lo chiamano, ghigna soave. Nell’appartamento di Roma, in via Chinotto n. 8, interno 8, per lo più, sono libri. Pareti di libri, di dischi, stalagmiti di vocabolari, stalattiti di «compact» che emergono tra le quinte di letteratura inglese e colonne di Pléiades: strano disordine invadente e compatto a un tempo che va, subitamente, ad acquietarsi sulle rive di un tavolo, accanto alla finestra, dove, sotto una luce breve e diretta, un’edizione tedesca di Ovidio e un’altra, aperta accanto a fogli di appunti minuziosi, creano un minuscolo lago luminoso e tranquillo.

Insomma, di letteratura, non si può parlare
Se ne può parlare purché sia chiaro che il suo centro deve essere periferia. Il termine «periferia» a me fa subito venire in mente un qualcosa di intricato, perso, potenzialmente pericoloso. Qualcun altro potrebbe invece pensare a uno sfumare di strade che digradano verso la campagna: potrebbe evocare l’idillio. Va bene tutto. Quando ho fatto qualche viaggio sono sempre stato attirato da quelli che si chiamano i recessi della storia. Ho abitato molto più a lungo a Kuala Lumpur che a Parigi. Anzi, Parigi non la conosco per niente perché se c’è una città che parla di sé come del centro è quella. Io invece vado a Kuala Lumpur, vagheggio il Paraguay o la Costa Rica, luoghi periferici, luoghi delle insidie, luoghi della menzogna.

Ha parlato di menzogna. Anni fa lei ha detto che l’uomo che le ha insegnato a mentire è stato Ernst Bernhard.
Sì, è verissimo.

Come iniziò il rapporto con Bernhard?
Mi pare che fosse il 1958. Io sono venuto a Roma nel ’53, fino ad allora stavo a Milano e il modo per cui sono andato da Bernhard è molto anomalo. Non sapevo niente di Bernhard, semplicemente ero amico di Cristina Campo, che era una paziente di Bernhard. Ad un certo punto mi sono reso conto che avevo bisogno di andare in analisi ma il mio atteggiamento mentale era di dire «vado da un freudiano». Intanto non avevo neanche un soldo. In quel periodo mi capitò, però, di parlarne con Cristina che ne parlò con Bernhard e Bernhard mi invitò ad andare a fare due chiacchiere: in realtà era quanto di più lontano ci potesse essere dal mio mondo mentale.

Ci furono dei colloqui preliminari molto lunghi, molto interessanti, dopodiché incominciammo l’analisi. Tra l’altro Bernhard mi disse: mi pagherà come e quando potrà, e questo creò subito un rapporto fra di noi. Ad un certo momento della mia analisi ero talmente senza soldi che me li prestò lui. Fu una grande fortuna: io arrivavo con il discorso pronto, con la mia carta di Tolomeo e lui smontò subito tutto… direi proprio: un colpo di dadi.

E se lei dovesse raccontare Bernhard a qualcuno che non ne sa niente, da dove inizierebbe?
È un po’ come chiedermi di descrivere in termini bidimensionali una struttura tridimensionale o addirittura quadridimensionale: è estremamente difficile. Direi che la scoperta psicologica di Bernhard, la scoperta relazionale che si aveva nel contatto con Bernhard, era proprio questa: di avere a che fare con una impostazione topograficamente anomala dello spazio psicologico in cui ci si muoveva. Improvvisamente ci si accorgeva che non si viveva in due dimensioni ma si viveva in una quantità di dimensioni impressionante. E questa polivalenza sconcertante, irritante, faticosa, era assolutamente sconvolgente e assolutamente liberatoria. Liberatoria forse è una parola risibile in questo contesto, perché in realtà Bernhard poneva molti problemi: molti più problemi di quanti non ne risolvesse.

Però i problemi erano diversi ed era il cambiare la macchina dei problemi che era affascinante nel dialogo con lui: il sentir cadere le domande e vederle sostituite da altre domande. E con queste altre domande incominciava una forma di dialettica, di tensione destinata a generare domande diverse, non dico mai a generare soluzioni ma a portare la convivenza mentale in luoghi imprevedibili e imprevisti. Bernhard aveva una capacità straordinaria di introdurti a una geografia totalmente non tolemaica: ecco, era incredibile come ci si scoprisse tolemaici dopo qualche colloquio con Bernhard.

Per cui, improvvisamente, ci si diceva «ma no questa mappa è sbagliata, non è mica così, è tutta diversa…», oppure «qui non ci sono i mari, ci sono i monti!». E tutto questo era insieme fiabesco ed estremamente pertinente perché dopo un po’ di tempo, ma neanche molto, che si incominciava a entrare in questa specie di seduzione, di adescamento geografico e psicologico, ci si accorgeva di percorrere un territorio che era invece estremamente familiare. Ad un certo punto venivano, infatti, recuperate tutte quelle schegge, tutti quei frammenti, quelle amigdale che siamo abituati a buttare via come secondarie, mentre invece è da lì che comincia il discorso.

E, per esempio, come funzionava con Bernhard l’interpretazione, il recupero, del sogno?
Ecco, il recupero del sogno non è soltanto e ovviamente (è quasi una banalità) il recupero di un contenitore di eventi consumati e perenti, ma è improvvisamente l’incontro con il fratello psicologico che ci accompagna costantemente e che sa raccontarci una quantità di cose in una lingua che noi abbiamo disatteso totalmente. Una lingua complicata, irritante, infantile e polisemica allo stesso tempo. Succede, però, che quando noi abbiamo recuperato questo misterioso gemello, ecco che la nostra esistenza acquista una qualità duplice e anche triplice per tutto quello che vi può confluire e che resterà uno dei suoi connotati: è come ricevere una descrizione di sé che sia fondata su elementi che noi non siamo abituati a considerare gerarchicamente come essenziali.

È come se io cominciassi a descrivere lei partendo, ad esempio – e dedicando venti pagine della mia relazione su di lei –, dalle sue narici. Ecco, lei prima è irritata o in qualche modo disturbata, poi effettivamente si accorge che le sue narici sono fondamentali perché sono buie, perché sono profonde, perché sono nel volto, perché ricevono dei messaggi che noi normalmente consideriamo secondari, perché separano gli occhi, perché sono un elemento protruso del volto – adesso invento – però, improvvisamente, lei si accorge di questo elemento. Si accorge che la geografia della sua faccia, la geografia veritiera con cui lei in realtà ha sempre convissuto, è quella e non è quell’altra che ha una forma di semplificazione vicina alla carneficina. Non è quella di eliminare il suo naso, le sue narici, i suoi sogni, il doppio di sé che lei porta con sé, l’altro linguaggio che viene continuamente parlato dentro di sé e che è dentro di lei e che lei si è disabituata non solo a capire ma addirittura a sapere che esiste, per cui questo linguaggio viene espunto. Anzi, è stato espunto per tutta la vita ma ecco che, improvvisamente, ritorna e che noi ci accorgiamo, per esempio, di parlare esquimese e che l’esquimese è una lingua estremamente familiare, estremamente amica. Amica non è però la parola giusta, direi meglio: «bella».

Questo era Bernhard: fondamentalmente un sollecitatore delle insidie e questo era molto eccitante: accorgersi di vivere dentro se stessi come un luogo estremamente insidioso: un luogo impreciso, ambiguo, in cui la stoltezza si mescolava alla straordinaria intelligenza e alla visione, alla capacità di essere molto più intelligenti di se stessi e di essere, o di possedere, un se stesso molto più stupido di noi. E di dover convivere con queste immagini.

Qualcuno dei pazienti di Bernhard ha raccontato il fastidio iniziale provato per certe particolarità del suo metodo analitico. Per come affrontava l’analisi, per esempio, iniziando con la lettura delle linee delle mani o lo studio del quadro astrologico del paziente. E poi l’uso continuo dell’I Ching: tutte cose che potevano sorprendere e a volte anche irritare…
Ha perfettamente ragione. È vero: tutte queste cose prese una per una e catalogate come lei ha fatto, non solo potevano risultare inquietanti ma molto spesso respingenti e io anche le respingevo. Perché con Bernhard c’era anche questa possibilità nel dialogo analitico: il respingere senza rompere il colloquio. C’era la possibilità di dire di no, e questo anche era molto interessante.

In realtà, però, io credo che sia sbagliato il dire: «ma lui faceva queste cose…» perché lui non «faceva mai delle cose». In lui operava una specie di strano sistema psicologico che adoperava tutto quello che gli capitava sotto mano: era una completa psicologizzazione del materiale che maneggiava, per cui che lui adoperasse i segni della mano, dell’unghia, i fondi di caffè (se l’avesse fatto, non lo ha mai fatto), non aveva mai carattere scientifico, non era mai un gesto oggettivo. Non esisteva nessuna traccia di obiettività nel suo discorso.

È come se lei mi rimproverasse se uso una parola arcaica. Non so, faccio un esempio, improvvisamente uso la parola «peritanza». Ecco, però, che questa parola, dato che fa parte del mio linguaggio, diventa viva, viva in quanto è linguisticamente maneggiata. Quindi, il suo adoperare tutte queste tecniche impure in lui funzionava meravigliosamente perché lui era puro e nel modo stesso di toccarle faceva sì che tutti i pezzi di un linguaggio si ricomponessero e tutto funzionava. E funzionava perché c’era questa poderosa fantasia psicologica di fondo, una fantasia totalmente anomala, totalmente spostata.

Ecco, così come in una immaginaria geografia di un paese mai visto, l’indicazione di certi luoghi o di certi animali. Per esempio, gli «ornitorinchi»: nessuno sapeva che in Australia ci fossero gli ornitorinchi prima che qualcuno, andato in Australia, non ci avesse raccontato che là esistevano gli ornitorinchi. Se però, ad un certo punto, includiamo l’Australia nel nostro mondo, l’ornitorinco diventa non solo verosimile ma vero. Ed era lo stesso per il suo mondo che era tutto pieno di ornitorinchi, di armadilli, di pangolini, di canguri, di lupi marsupiali. Tutte queste cose che non ci dovrebbero essere, improvvisamente erano lì.

Lui, poi, operava costantemente come una persona che adopera il sogno senza avere bisogno di addormentarsi, di immergersi nel sogno. Per cui non stiamo a discutere se le immagini che vediamo nel sogno sono veritiere o attendibili o scientificamente infondate: appartengono a un sogno ed è lì che vanno lette, è lì che vanno vissute. Il sogno è il gemello, il fratello. È colui che parla una lingua altra: questa lingua esquimese, etrusca, sabellica, questa lingua strana, estremamente pregnante, estremamente faticosa, ma anche estremamente privata, intima. E in quel luogo, in quel lago del cuore in cui operava il discorso di questo uomo, tutti i conti tornavano. Era insensato per me stare lì a discutere pezzo per pezzo se il suo discorso fosse, per esempio, in quel segmento dato, fedele alle ultime conquiste dell’astronomia o della chimica,  o checchessia.

Stiamo, quindi, parlando più che di un metodo certo di una persona molto speciale.
Infatti. Bernhard ha lasciato dei problemi enormi dietro di sé, perché nessuno è in grado, ovviamente, di essere come lui. Lo strumento di Bernhard era Bernhard e questo strumento non si può costruire. Ecco, è stata una singolare, e anche estremamente ambivalente, fortuna per molti aver incontrato una figura di queste dimensioni e di questo carattere. Soprattutto, è stata proprio una sua caratteristica il suo essere «sbagliato», il suo essere fuori dall’ordine precostituito, il suo insegnare che nel muro c’è la porta – anche se tu al momento non la vedi – e la porta va cercata nel muro.

Quindi: la sua volontà di discontinuità e la sua illuminante, e direi, pertinente, inesattezza. Con Bernhard si può pensare ad un sistema in cui l’inesattezza sia il criterio di interpretazione. In una situazione per noi, diciamo, linguisticamente apparentemente rigida, apparentemente coatta, chiusa, ecco che continuamente l’errore diventa la chiave per capire, diventa la chiave per rompere: bisogna spaccare il discorso, perché il discorso che sta sotto venga fuori.

C’era forse anche un po’ dell’atteggiamento del maestro Zen che storce il naso del suo allievo quando questi chiede qualcosa?
Forse qualcosa c’era che poi abbiamo ritrovato su dei libri orientali. Lui era ebreo e aveva molte radici orientali: mentalmente la sua logica non era aristotelica, questo è sicuro, però anche dire che lui operava come un maestro Zen mi trova un po’ riluttante perché in fondo non è vero che lui era un maestro Zen.

Forse qualcosa c’era: a lui tutto andava bene purché fosse irragionevole, ecco, ho detto «irragionevole» dopo aver esitato occidentalmente di fronte alla parola «irrazionale» che detesto ma «irragionevole» mi piace. Ecco, quello che faceva era irragionevole e per quello era estremamente importante quando si riusciva a colloquiare con la sua irragionevolezza. Era allora che cadeva la carta di Tolomeo, cadeva il discorso sintatticamente impeccabile e veniva fuori tutta questa pluralità infinita di discorsi.

E che cosa era per Bernhard la malattia psichica?
Bernhard aveva capito che il problema della malattia psichica era un problema di «spostamento». Si andava da Bernhard con l’idea di una propria carta geografica in mente ma lui ti faceva capire subito che la tua carta geografica non era quella, era un’altra. Poi, una volta stabilito che la carta è un’altra, non è detto che tu sia guarito però hai la malattia che ti spetta e non la malattia che non ti spetta.

Direi proprio questo, direi che questo è molto calzante. Il pericolo non è di essere malati, perché credo che, in un certo senso, esistere sia essere malati, ma di avere una malattia non pertinente, incongrua. Il problema è di sostituirla con una malattia pertinente, con la malattia giusta. La malattia giusta è ciò che noi possiamo chiamare qualche volta in un momento di distrazione anche «salute», sebbene sia difficile confondersi fino a questo punto, ma dato che viviamo in una civiltà ottimistica qualche volta lo facciamo, può capitare…

Credo proprio che sia la pertinenza della malattia il problema reale, non l’assurda assenza della malattia che non ci spetta. E allora non mi sembra impossibile per Bernhard trovare un tipo di linguaggio o un tipo di discorso capace di istituire un terreno comune anche con uno psicotico. Direi, anzi, che Bernhard corteggiava la psicosi. Era una corte molto maschile, quindi molto ferma, anche molto cauta ma la corteggiava, direi che coltivava una moderata psicosi nei suoi pazienti: spiegava, cioè, che senza una certa forma di follia non si poteva riuscire a trovare l’adito nel muro che porta alla malattia pertinente. E tutto si chiariva quando si cominciava ad entrare nella sua ferrea dislogica.

Che cosa le è rimasto, oggi, di Bernhard e di quegli anni di analisi che sente ancora suo?
Intanto, qualcosa di molto semplice, quasi elementare, che poi si è rivelato molto ricco a lungo andare: il gusto della casualità. Potrei anche dire che quello che mi è rimasto è stata la sua capacità di sostituire sistematicamente la fede con la superstizione.

E questo c’entra con la letteratura?
La letteratura è una sorta di superstizione, perché le superstizioni sono molto, molto più serie delle fedi.

Una superstizione o una menzogna?
È anche una menzogna perché è rinuncia a essere verità, cosa che la fede non sa mai fare e che comunque si usa fare poco. Invece bisogna ricominciare a praticare questo recupero della casualità.

È per questo che, alla fine, la scelta di un’analisi junghiana la convinse?
Quando sono andato da Bernhard, di Jung non conoscevo niente. Conoscevo abbastanza bene Freud mentre di Jung avevo letto solo poche cose e, tutto sommato, allora avrei scelto Freud come maestro. Dopo ho capito che la differenza profonda tra Jung e Freud è che Jung è un po’ pasticcione, ed è straordinariamente importante che lo sia, mentre Freud non lo è per nulla. La differenza è che Jung spesso ha il tocco magico del ciarlatano che Freud non ha mai, la dimensione del ciarlatano gli è negata. Freud, per esempio, scriveva benissimo, è un grande scrittore. Ma a un certo punto si è sfuggito di mano e si è ritrovato nella mitologia greca più schietta che si potesse immaginare.

Dunque, alla fine, ha avuto a che fare anche lui con una sorta di ciarlataneria…
No, però stava già toccando il livello della metafora.

E la «ciarlataneria» di Jung?
Io non ho conosciuto Jung, l’ho solo letto, e quindi per me lui è un autore. Un autore non letterario, strettamente parlando, che, anzi, quando parla di letteratura dice quasi sempre delle sciocchezze. Però quando parla, per esempio, dei sogni o di alchimia, dice cose curiose, anche se non sempre chiare. E non dice sempre cose chiare non perché non sia un dialettico particolarmente capzioso ma semplicemente perché vive in un contesto di immagini non chiare e quindi anche lui non è chiaro.

Lei, però, ha detto che di suo sarebbe andato da un freudiano.
Sì, perché allora, in fondo, avevo l’idea che avrei dovuto avere un’unica immagine coerente. Avere un’unica autobiografia.

Poi Cristina Campo le parlò di questo junghiano, ebreo, tedesco, che viveva a Roma a via Gregoriana e lei si lasciò convincere ad andare da Ernst Bernhard.
Sì, e la prima cosa che ha provocato in me l’impatto con Bernhard è stato proprio il rompere quella idea. L’idea della unicità dell’Io e quindi una decomposizione dell’immagine della mia personalità, di quello che io ero. Questa è stata la prima cosa che ho capito e che non mi ha più abbandonato. Questa scoperta l’ho fatta mia.

Lei prima mi ha detto che allora pensava che si dovesse avere una sola autobiografia, e che ora non lo pensa più. Quante sono allora le autobiografie possibili?
Tante quante quelle che servono. Tutte quelle possibili. A seconda del momento della nostra vita noi abbiamo un’autobiografia che ci raccontiamo, ed è sempre un’autobiografia diversa. Yeats ha intitolato il suo libro Autobiografie (Autobiographies). L’autobiografia è un genere plurale. Di volta in volta ne racconti una, ma non è mai una, è sempre un intrico di citazioni, di «exempla», di aneddoti. Via via, alcuni vengono scartati mentre altri vengono recuperati. Noi siamo continuamente altre persone e continuamente percorriamo nuove strade.

Ecco, anche questo mi viene da Bernhard: aver capito che la strada giusta è fatta da un’infinità di strade sbagliate. La risultanza è poi la strada giusta, ma noi non la conosceremo mai. Di Bernhard mi rimangono poi tanti momenti in cui si faceva semplicemente conversazione, si chiacchierava in modo rilassato. Lui aveva, fra l’altro, una cultura molto interessante, per nulla libresca, molto vissuta. Aveva anche una capacità assoluta di farti capire che stavi dicendo delle sciocchezze semplicemente stando in silenzio, senza dire nulla.

Altra sua capacità straordinaria, come ho già detto, era quella di rimettere a posto la tua carta geografica. Ti diceva: lì sono i mari e quelle le valli, questi gli anfratti e queste le montagne. Il tema che sembra avere per te meno importanza è quello che spiega tutto o, perlomeno, quello a cui tu dovresti dare attenzione. È una questione di spostamento di ottica. Bernhard ti spostava la visuale e quindi ti cambiava la tua autobiografia.

E non c’è mai un momento in cui la tua autobiografia si fissa?
Mi viene in mente che la Chiesa con il sacramento della estrema unzione fa il tentativo di inventare un’autobiografia finale, alternativa a tutte le altre. Tenta di irrigidire un’autobiografia rispetto a tutte le altre, consacrandola. Ti dice: Questa è quella vera. Tu vai davanti a Dio con l’autobiografia timbrata dal Sacramento. Quindi la Chiesa è perfettamente consapevole che le autobiografie sono tante e che noi andiamo in giro con una quantità di autobiografie, e il suo tentativo finale è quello di farne esistere una sola.

Tu muori con un’autobiografia, l’ultima che ti viene scelta. L’unica che ti possa consentire il trapasso. Avere un’unica biografia consacrata: io commetto un delitto e lo ricordo, questa è un’autobiografia; se lo ricordo e me ne pento, viene fuori un’altra autobiografia.

Torniamo a Ernst Bernhard e all’analisi con lui. Che cosa ancora le è rimasto di quell’uomo così fuori dal comune che poi si sia sempre travasato da un’autobiografia a un’altra?
Di lui mi è rimasta la sua furbizia. Era furbo. Userei proprio questo termine. Di lui mi è rimasta una certa forma di ironia e il fatto che possiamo usare il getto dei dadi: è lecito. Quando prima le dicevo che bisogna scegliere la superstizione contro la fede volevo dire che bisogna scegliere la nostra estraneità alla verità. La verità non ci riguarda, questa è una mia personale convinzione. La superstizione, invece, è fatta a nostra misura. Un ragionevole superstizioso ha la sua ragionevole riluttanza ad accettare alcune situazioni.

Quando dicevo che la letteratura è superstizione volevo anche dire che non è cosa che abbia una sua intensità, dignità e veridicità. Il superstizioso è una vittima. Fa certi gesti secondo i segni che gli vengono incontro, gli piaccia o non gli piaccia. Perché ha paura. Il superstizioso viene tiranneggiato, ma è una tirannia frammentaria. Anche lo scrittore è una vittima. Quindi come vuole che si possa parlare di letteratura? È come se lei mi chiedesse: mi faccia la teologia dei gatti neri. Che cosa potrei dirle? Se sono un teologo mi ribello perché non parlo delle teologie, se sono un vero superstizioso mi ribello lo stesso perché certamente non parlo dei gatti neri, mi verrebbero i vapori...

E questa condizione di «vittima» vale solo nei riguardi della letteratura o vale anche per la musica, o per la pittura, per l’arte in generale, per esempio?
Certamente che vale, vale per tutte le superstizioni. Vale per tutte le cose inutili, probabilmente dannose, certamente prive di qualunque serietà e che non comunicano alcun concetto veritiero. Come per la letteratura, il ricordo della mia esperienza analitica con Bernhard continua ad agire come una superstizione, non come una fede. Il che, a me sembra, è il modo giusto. Con un fortissimo gusto della casualità e dell’arbitrarietà, di quella autobiografia di cui si è parlato.

Cambiando del tutto argomento posso chiederle, per esempio, che rapporto aveva Bernhard con la
natura? In tutta la sua Mitobiografia se ne trovano tracce rare.

Il problema della natura mi sembra molto chiaro nel caso del suo atteggiamento generale. Lui non era particolarmente indifferente alla natura, ma la natura è anch’essa un gigantesco serbatoio di immagini, di simboli, per cui il concetto di natura è un concetto psicologicamente molto riduttivo, è qualche cosa di cui non capiamo il senso, a cui non attribuiamo nessun senso. La natura è genericamente qualcosa di bello, qualcosa di dionisiaco, di entusiasmante. Devo dire che io detesto la natura, quindi se lei mi dice che Bernhard non amava la natura, beh, vorrei vedere, mi sembra perfettamente logico…

Questo culto della natura che tra l’altro è anche storicamente molto recente, mi sembra molto rozzo, molto goffo. Se invece vogliamo tornare ai sogni si può dire che la materia onirica diventa una pasta ectoplastica, viva, certo, ma non la chiamerei più «natura» e a quel punto non mi interessa più. Non c’è il paesaggio in questo contesto, pensavo che, per esempio, i Greci, che certo non sono completamente rozzi, non avevano nessun senso della natura, perché erano talmente pervasi da una visione mitica per cui anche la natura aveva senso quando faceva parte di un mito, quando un frammento, un oggetto, una pietra, una pianta, una fonte, un fiume, un prato era una scheggia di mito: allora sì che acquistava senso, ma non esisteva di per sé, come qualcosa da ammirare. Il senso panico è un’invenzione di gente che non ha mai conosciuto il panico… il panico ellenico…

Penso, non so, a quella bellissima strofa dell’Ippolito di Euripide in cui c’è la descrizione degli usignoli, ed è la descrizione dell’ingresso nell’Ade. Ed è solo in quanto descrizione dell’ingresso nell’Ade che questi usignoli, questa pace, questi alberi sono così intensamente vivibili, perché per Euripide è l’Ade che stinge sulla loro bellezza e a sua volta la bellezza di questi oggetti è Ade.

E per la sua autobiografia attuale c’è un qualche risultato, se possiamo usare questo termine, di tutta questa esperienza psicoanalitica?
Risultato? Il risultato è un dizionario impazzito, che custodisco come tale. Sono io il dizionario impazzito. O è lui che mi sfoglia?

Da Giorgio Manganelli Il vescovo e il ciarlatano. Inconscio e letteratura: l’incontro con Ernst Bernhard, Sellerio, 2024

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