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Se gli Stati Uniti avessero limitato i loro obiettivi in Afghanistan a contrastare la minaccia terrorista e si fossero ritirati una volta contenuta la minaccia, le operazioni militari avrebbero servito gli interessi americani vitali e conservato un sostegno interno sufficiente. Invece gli Stati Uniti e i loro alleati si sono lasciati trascinare dietro a un obiettivo, quello di un Afghanistan stabile e democratico, che non è mai stato realizzabile.
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Nella desolante chiarezza del senno di poi, il nation building in Afghanistan è stato peggio di un errore. È stato un evento secondario. La principale sfida strategica era la Cina. Invece di sviluppare una strategia a lungo termine per affrontare il primo serio avversario dalla fine della Guerra Fredda, l’America ha perso tempo, soldi e vite umane in un’impresa periferica che poteva solo concludersi con un fallimento.
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Poiché le cose sono andate così, per un internazionalista liberale come me è una tentazione mollare, gettare la spugna e unirsi ai realisti: quelli che credono che il conflitto e la lotta di potere debbano definire le relazioni internazionali. Il fascino di questa realpolitik per i liberali disillusi è la sua promessa di mettere da parte quegli impulsi morali che così spesso distraggono le democrazie dal perseguire con determinazione l’interesse nazionale. Ma, a ben vedere, anche questa non può essere la soluzione.
Cosa deve pensare un internazionalista liberale impegnato come me del crollo delle nostre speranze? L’internazionalismo liberale ha promesso di promuovere la democrazia e rafforzare un “ordine internazionale basato su regole” con altri paesi. Invece di ripiegarsi su di sé, ha immaginato un ruolo attivo per l’Occidente come difensore dei diritti umani all’estero. Ma i suoi progetti distintivi, l’intervento militare e il nation building, sono falliti in Afghanistan, così come in Siria e in Libia. Come dolorosa dimostrazione dei limiti della potenza militare americana, il crollo dell’internazionalismo liberale ha accelerato anche il declino del potere globale di Washington. Che cosa è andato storto?
Quando manca il sostegno
Al fondo, l’internazionalismo liberale ha sofferto di un deficit democratico. Era un prodotto di ciò che lo scienziato politico Stephen Walt ha definito “il blob”, l’élite bipartisan della politica estera che ha dominato le decisioni durante la Guerra fredda e in seguito. Eppure “il blob” ha dimenticato che la proiezione del potere all’estero dipendeva ultimamente dalla volontà degli americani di combattere e pagare per questo. Il sostegno interno americano, che non è comunque mai stato forte, si è esaurito mentre il numero delle vittime cresceva in Afghanistan e la “guerra eterna” continuava senza fine. Quando si è allontanato dagli interessi vitali della sicurezza americana, che avrebbero potuto portare il sostegno dell’elettorato, l’internazionalismo liberale ha finito per mandare segnalazioni di cose virtuose, lavoro sociale in luoghi che comprendevamo poco e in cui comunque non c’era sostanzialmente ragione di essere.
Accanto alla mancanza di sostegno locale, l’internazionalismo liberale ha sofferto di un fatale caso di “mission creep”, travalicamento della missione, la tendenza a estendere gli obiettivi oltre i loro parametri iniziali. Se gli Stati Uniti avessero limitato i loro obiettivi in Afghanistan a contrastare la minaccia terrorista e si fossero ritirati una volta contenuta la minaccia, le operazioni militari avrebbero servito gli interessi americani vitali e conservato un sostegno interno sufficiente.
Invece gli Stati Uniti e i loro alleati si sono lasciati trascinare dietro a un obiettivo, quello di un Afghanistan stabile e democratico, che non è mai stato realizzabile. Sia le forze armate statunitensi sia la società civile internazionale che si sono fatte avanti per “ricostruire” l’Afghanistan non sono riusciti a cogliere l’astuzia politica del loro nemico talebano o ad affrontare l’inveterata corruzione dei loro amici politici afghani. Le agenzie umanitarie e le Ong americane hanno acceso le speranze dei loro partner afghani, e poi, una volta che il gioco era avviato, gli Stati Uniti le hanno tutte abbandonate.
La vera priorità
Nella desolante chiarezza del senno di poi, il nation building in Afghanistan è stato peggio di un errore. È stato un evento secondario. La principale sfida strategica era la Cina. Invece di sviluppare una strategia a lungo termine per affrontare il primo serio avversario dalla fine della Guerra fredda, l’America ha perso tempo, soldi e vite umane in un’impresa periferica che poteva solo concludersi con un fallimento.
Anche se l’Afghanistan ha suonato le campane a morto per l’internazionalismo liberale, le campane suonavano da tempo. L’ascesa dell’autoritarismo, il fallimento di un’azione concertata per rispondere alla crisi climatica e la pandemia di Covid-19 hanno presentato sfide nei confronti delle quali l’internazionalismo liberale non aveva strumenti. La risposta tipica dell’attivismo liberale – il naming and shaming per i diritti umani, “additare e svergognare” – è diventata irrilevante quando i capi autoritari sono diventati spudorati, consolidando la loro presa all’interno di potenze globali come Russia e Cina, così come di paesi più piccoli come Turchia e Venezuela.
Regole dimenticate
L’obiettivo principale di una politica estera internazionalista liberale – il rafforzamento di un “ordine internazionale basato su regole” – è naufragato contro questa nuova realtà. Le grandi potenze hanno iniziato a comportarsi in maniera criminale.
La Cina ha preso ostaggi per forzare il rilascio di un suo cittadino; ha mentito sulla pandemia, ha rubato la proprietà intellettuale ai suoi concorrenti, ha eliminato la libertà a Hong Kong e ha minacciato di invadere Taiwan. In Russia, il regime di Vladimir Putin ha avvelenato gli avversari in paesi stranieri, ha usato la guerra informatica per diffondere disinformazione nelle elezioni interne americane e ha fornito ai ribelli in Ucraina le armi per abbattere un aereo di linea commerciale, uccidendo centinaia di persone.
Nemmeno la “nostra” parte è stata immune dalla tentazione di comportamenti criminali. Gli Stati Uniti e lo stato alleato di Israele hanno compiuto omicidi mirati contro scienziati e comandanti militari in Iraq e Iran. Se mettiamo insieme tutti questi pezzi, questo ci dice che molto tempo fa il mondo si è lasciato alle spalle “l’ordine internazionale basato su regole”.
Il realismo della stabilità
Poiché le cose sono andate così, per un internazionalista liberale come me è una tentazione mollare, gettare la spugna e unirsi ai realisti: quelli che credono che il conflitto e la lotta di potere debbano definire le relazioni internazionali. Il fascino di questa realpolitik per i liberali disillusi è la sua promessa di mettere da parte quegli impulsi morali che così spesso distraggono le democrazie dal perseguire con determinazione l’interesse nazionale.
Il moralismo ipocrita e l’autoinganno che assilla la politica estera americana sono stati la disperazione di alcune menti raffinate, dal pensatore di spicco del realismo Hans Morgenthau, allo stratega della Guerra fredda George Kennan, persone non senza sentimenti liberali, ma che credevano che l’imperativo dell’arte del governare fosse di tenere questi impulsi saldamente sotto controllo.
Ad ogni modo, prima di abbracciare completamente il realismo, chiariamo cosa significhi abbandonare in pratica una politica estera liberale. Una politica estera “realista” si disfa di qualsiasi impegno a difendere i diritti umani e la democrazia all’estero. Gli Stati Uniti manterrebbero le democrazie come alleati preferiti, ma non perderebbero tempo a promuovere elezioni eque e diritti umani tra i rinnegati democratici o gli stati fragili.
L’obiettivo dell’America non sarebbe la libertà, ma la stabilità, anche a costo di favorire gli autoritari. L’obiettivo costante della politica sarebbe quello di ricentrare l’esercito, il dipartimento di stato e persino i nostri aiuti esteri, attorno al lungo gioco di controbilanciare il principale concorrente dell’America, la Cina.
Follie realiste
Anche supponendo di essere a nostro agio nell’abbracciare il duro amoralismo del realismo, è tutt’altro che chiaro che l’alternativa realista sia sempre la più razionale. L’interesse nazionale non è la stella polare che promette di essere.
Chiamare un fine un interesse nazionale non lo rende tale. In effetti, è un concetto stranamente mutevole, e non è meno probabile che sia contaminato dallo zelo crociato rispetto agli imperativi morali di un liberale. Durante la Guerra fredda, i realisti hanno condotto una fervente crociata anticomunista, che, liberata da scrupoli morali o dal dubbio su di sé, ha portato ad avventure “realiste” come il Vietnam.
Viviamo ancora con le conseguenze di tali follie realistiche, alle quali molti liberali dell’epoca si sono opposti. Se l’internazionalismo liberale è morto, una realpolitik senza valori non è un rifugio per i disillusi.
Nello stesso pianeta
Né il nazionalismo e l’interesse nazionale dovrebbero essere gli unici obiettivi di una politica estera credibile. Nessun liberale discuterebbe sulla priorità degli interessi dei nostri concittadini, ma le priorità interne non sono il limite delle preoccupazioni dei cittadini.
Il realismo scredita le pretese dell’universalismo umano – siamo una specie sola – e non coglie l’interdipendenza umana – viviamo su un unico pianeta. Anche una politica estera che metta al primo posto la propria gente avrà bisogno della cooperazione internazionale per affrontare le pandemie, il cambiamento climatico e l’immigrazione, così che problemi che a prima vista sembrano lontani non finiscano per sopraffare la nostra capacità di farcela in patria.
Senza una politica estera che riconosca le minacce universali che affrontiamo e cerchi di costruire alleanze per respingerle, potremmo non essere nemmeno in grado di proteggere i nostri stessi cittadini.
Non cedere all’autoritarismo
Dunque, se il realismo non dà una soluzione chiara, dove dovrebbe andare la politica estera liberale da qui? Per prima cosa, i nostri principi fondamentali non dovrebbero essere abbandonati. Una politica estera liberale certamente dovrebbe rinnegare l’interventismo e l’avventurismo militare in nome della prudenza.
Ma una politica che non dice e non fa nulla sugli abusi dei diritti umani e sulla recessione della democrazia globalmente consentirà ai regimi autoritari di diffondersi, fino a quando la democrazia sarà così isolata da non potersi più difendere.
Non passa giorno senza che Vladimir Putin, Xi Jinping e attori minori come Viktor Orbán sbandierino la decadenza del modello liberaldemocratico e predichino l’inevitabile trionfo della via autoritaria. Quando dichiarano la superiorità dei regimi costruiti sull’intimidazione, la manipolazione e la paura, è solo prudenza da parte nostra difendere i governi che si basano sul consenso dei governati.
Combattere contro l’innalzarsi della marea dell’autoritarismo è più di un semplice principio. In effetti, è buon senso. Possiamo frenare l’arroganza e pentirci del tacito imperialismo morale di molti impulsi liberali per rimettere a posto il mondo, senza dimenticare che il modo in cui un regime tratta il proprio popolo anticipa la minaccia che rappresenta a livello internazionale. Ci preoccupiamo della Cina non solo perché è potente, ma perché è determinata nel reprimere le sue minoranze, sprezzante delle tradizioni democratiche degli hongkonghesi e così spaventata dal suo stesso popolo da schiacciare ogni sussurro di dissenso.
L’ingiunzione realista che dovremmo ignorare questo comportamento perché non è affar nostro lasciare che le preoccupazioni morali infestino la nostra politica estera ignora il fatto che il modo in cui uno stato si comporta in patria è un segno della sua minaccia all’estero.
Credere negli Stati Uniti
Ricostruire il sostegno interno a qualsiasi politica estera liberale sarà difficile. Una repubblica continentale, protetta dagli oceani a est e a ovest, e vicini amichevoli a nord e a sud, è stata spesso isolazionista per istinto e internazionalista per scelta riluttante.
L’ultima volta che un elettorato americano ha abbracciato veramente l’impegno internazionale è stato tra il 1942 e il 1948, un periodo in cui gli americani hanno affrontato una minaccia mortale e sapevano che il loro potere economico e militare sarebbe stato la chiave per la vittoria.
Mentre l’egemonia americana passa lentamente, convincere gli americani a mantenere i loro impegni all’estero sarà doppiamente difficile. Gli sforzi del presidente Joe Biden di ricostruire il consenso attraverso una «politica estera per la classe media» sono un buon punto di partenza.
Convincere gli americani a sostenere un’alleanza globale di democrazie perché aiuterà i loro portafogli e li terrà al sicuro fa parte della retorica necessaria per ricostruire la fede in un’America rivolta verso l’esterno. La sfida più profonda è abituare gli americani all’idea che, anche se il potere degli Stati Uniti è diminuito, rimarrà sufficientemente forte da guidare i suoi amici e scoraggiare i suoi nemici.
Per la pace
Oltre a ricostruire il sostegno in patria per l’impegno all’estero, gli internazionalisti liberali dovranno concentrarsi su un altro bene fondamentale: la pace. L’obiettivo principale dell’internazionalismo liberale dovrebbe essere quello di impedire che la guerra, regionale o globale, spazzi via il vasto edificio di prosperità e opportunità costruito sulle rovine del 1945.
Ciò significa una rinnovata attenzione al controllo degli armamenti e alla non proliferazione, e uno sforzo continuo per sbloccare la situazione di stallo che impegna Cina, Russia e Stati Uniti in una corsa agli armamenti letale. Laddove ciò potrebbe fallire, come potrebbe succedere in Iran, abbiamo bisogno di una deterrenza credibile contro l’avventurismo che il possesso di armi nucleari può incoraggiare.
Gli Stati Uniti dovrebbero concentrare tale leva politica come hanno fatto in stati più piccoli in Africa e in Asia per evitare che piccole guerre diventino maggiori. Lavorare con i leader africani per mantenere la pace in Africa è la cosa più importante che gli Stati Uniti possono fare per aiutare il continente a crescere.
Tenere a bada il caos
Questo non significa abbandonare la nostra forza militare. La pace richiede una deterrenza credibile. Che il liberalismo sia morbido in difesa è una bufala della destra, ripetuta così spesso che gli stessi liberali a volte ci credono. I liberali della Guerra fredda sono stati tra i più evidenti difensori di solide capacità militari, e oggi nel ventunesimo secolo abbiamo bisogno di una diplomazia attivista supportata da avanzate capacità militari e informatiche, ma disciplinata dal controllo democratico, che esamini i budget e le ambizioni dei nostri comandanti militari.
Mettere la pace al primo posto, sia chiaro, non dovrebbe significare pace ad ogni costo. A Taiwan c’è una democrazia che funziona che affronta un gigante, a cento miglia di distanza, deciso a completare la rivoluzione di Mao e a forzare la sua integrazione con la terraferma. Un’acquisizione cinese di Taiwan dovrebbe essere scoraggiata per motivi di stabilità globale, ma anche in nome di un popolo libero che vuole rimanere tale.
Forse ciò di cui una politica estera liberale ha più bisogno è una lunga memoria storica: sia la memoria dei nostri successi, come il piano Marshall, sia una resa dei conti spietata con i nostri fallimenti, come la Libia, l’Iraq e l’Afghanistan.
Il passato è la migliore cura per l’arroganza e l’illusione che la storia sia dalla nostra parte. Dopo il 1989 siamo caduti preda dell’illusione che la politica mondiale fosse la storia della libertà. Da allora abbiamo imparato che la storia è in realtà la storia di imperi che sorgono e crollano, dell’ordine raggiunto con la violenza che lentamente lascia il posto, ancora una volta, al caos.
L’impero che sta lentamente crollando nel nostro tempo è quello americano e un internazionalismo liberale che si è agganciato alla sua ascesa, deve ora fare pace con il suo trapasso e lottare, senza illusioni, per tenere a bada il caos.
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