I miei dicono che non c’è nulla di cui vergognarsi e che tuo padre non li ha combinati, i guai. Li ha subiti, piuttosto.

Già, disse Anna contemplandosi le unghie smaltate di nero.

Ovvio.

Prese a strofinarsi via lo smalto dal mignolo con un po’ di

solvente. Esce alle sette e mezzo, tutte le mattine, proseguì.

Rientra verso le otto. Sono quasi tre settimane.

Oh, be’, è la sua vita, no?

Lei, posati per terra la boccetta di solvente e il batuffolo

di cotone, si allungò sul divano affondando la testa nel cuscino.

Mia madre pensa che sia solo un po’ giù. È normale, per un uomo della sua età, disse fissando il soffitto.

Potresti cercare di scoprire cosa fa. Seguirlo. Non è mica difficile. Se ti preoccupa, voglio dire.

Non mi va di spiare mio padre.

Non è spiare, questo. Ti informi di quello che fa, visto che lui non ve lo dice.

Forse si tratta proprio di questo. Non mi va di saperlo.

Fai come ti pare, disse Alice alzandosi in piedi e avviandosi

verso la porta. È difficile sopportare la verità.

Quale verità?, chiese Anna in un soffio.

Alice si strinse nelle spalle: Be’, che ti hanno mandato a casa perché non servivi più. E che probabilmente non servi più a nessuno.

Oh, lui ci serve, si affrettò a ribattere Anna.

Sì, ma voi non contate. Te lo garantisco.

Andrea Ferrari si stava affannando a spiegare la situazione alla farmacista. L’effetto più evidente è l’insonnia, ripeté.

E guardi che non è un’insonnia come le altre. Io non riesco più a dormire in casa mia. Nel mio letto.

Provi a cambiare abitudini. Mangi leggero, si sposti dall’altro lato del letto o sul divano. Vada a dormire solo quando è stanchissimo.

La farmacista lo guardava con una commiserazione muta e inflessibile, e continuando a fare segno di no con la testa gli mise sotto il naso una scatoletta di valeriana. Senza una prescrizione medica, disse, non posso darle niente di più forte. Sfilò dalla mano di Andrea un flacone di sonnifero: Questo è già piuttosto potente. Su, non è possibile che non le faccia effetto, buttò lì, persuasiva.

Andrea scosse la testa.

Non mi fa niente, e comunque è quasi finito. Me ne dia un’altra confezione, la supplicò.

Senza ricetta non se ne parla neanche.

Per favore. Io voglio dormire.

Già. Tutti vogliamo dormire. È naturale. Socchiuse gli occhi. Si procuri la sua ricetta.

Voglio solo dormire, insistette Andrea. Quando è ora, aggiunse

a voce bassa. Solo quando è ora.

La farmacista sospirò e si volse risoluta verso un’altra cliente: Prego?

Andrea fece una specie di mezzo sorriso spavaldo e raddrizzò le spalle. Lanciò un’occhiata alla donna che aveva in mano un foglietto piegato a metà. Lei otterrà tutto quello che vuole, le disse. Attraversò la strada e si diresse verso il giardino comunale. L’insonnia che lo aveva assalito non era saltuaria, occasionale, di quelle con cui è possibile scendere a patti dosando le gocce di un sonnifero o ingoiando qualche pasticca quasi invisibile, lo sapeva perfettamente – e, da questo punto di vista, non essere riuscito ad avere aiuto dalla farmacista era irrilevante, un atto di cui si conosce in partenza la vanità e che si compie solo per fugare il dubbio di non aver tentato ogni strada.

Si era convinto che la sua insonnia fosse una protesta collettiva del corpo, di ogni organo e di ogni ghiandola, che si diffondeva ai muscoli e alle palpebre, alle giunture e ai tendini, che disarticolava i pensieri e li sguinzagliava in ogni direzione, provocandogli uno stato di eccitazione nervosa.

Aveva provato, nei giorni precedenti, diversi rimedi tra quelli alla portata della sua immaginazione: pasti leggeri, languide camminate senza meta, diluite nel tempo, lunghe immersioni serali in bagni così caldi da arrossargli la pelle...

Risultati inutili, riguardo al sonno, almeno quanto quel residuo di sonnifero trovato nell’armadietto del bagno, di cui la farmacista si era rifiutata di vendergli un’altra confezione.

E poi un pomeriggio – di quelli in cui si prevede che non ne arriverà mai la fine, quando le ore si impigliano e li inceppano quasi fossero meccanismi troppo sofisticati per sopportare la mancanza di scopo con cui li si attraversa – la scoperta, banale e sorprendente: se non riusciva a dormire in silenzio, al buio, circondato dagli oggetti che gli erano familiari, era evidente che dormiva benissimo in pubblico, alla luce, esposto al brusio e agli scossoni in un tram, in metropolitana, oppure nell’atrio della stazione, tra un annuncio e l’altro di un treno in partenza o in arrivo; e dormiva ancora meglio fingendo di osservare i nuotatori alla piscina comunale, nel tepore umido e saturo di cloro che appannava i vetri.

Per ogni notte perduta di sonno, recuperava di giorno, lontano da casa. Dormire mentre attorno a lui la gente si affannava a viaggiare, nuotare, correre lo faceva sentire meschino e quasi in colpa; ma i suoni smorzati del mondo, affievoliti dalla coscienza vigile che infine si arrende alla stanchezza, agivano come una cantilena rassicurante e piacevolmente soporifera.

Mai e poi mai avrebbe confessato a sua moglie che cosa lo spingeva fuori di casa ogni mattina e come passasse le sue interminabili giornate vuote; erano sposati da vent’anni e, mentre era stato messo in conto che uno dei due, prima o poi, sarebbe sopravvissuto all’altro, non erano mai stati sfiorati dall’idea che un giorno sarebbe potuta essere lei l’unica a lavorare; anzi, dall’idea che lei non avrebbe potuto smettere di lavorare – e faceva una bella differenza.

Sua figlia, si consolò, era sicuramente all’oscuro di tutto, come ogni adolescente che ignora – con una certa determinazione istintiva – qualunque preoccupazione seria riguardi i propri genitori. La voleva così, inconsapevole e superficiale, come gli pareva giusto che si fosse a quindici anni.

Scelse la panchina assolata accanto all’area dedicata ai bambini più piccoli; e le risate e i pianti infantili gli provocarono immediatamente un’implacabile nostalgia.

Se per la propria infanzia o per quella di Anna, era difficile dirlo; o forse la nostalgia era dovuta al desiderio che entrambe si estendessero, la sua e quella di sua figlia, per un periodo illimitato, o comunque che l’infanzia fosse un’età a cui si potesse fare continuamente ritorno, con la sola forza del desiderio.

E in questo senso di perdita irrimediabile socchiudeva gli occhi al sole e cercava, nel bagliore rossastro filtrato dalle palpebre, immagini sbiadite di una felicità inventata o rabberciata alla meglio pescando a casaccio nella memoria. Da lì, da quel bagliore solcato di striature arancio e oro, scivolava finalmente nel sonno.

La sirena di un’autoambulanza bloccata nel traffico lo svegliò bruscamente. Diede un’occhiata all’orologio e si alzò. I bambini erano spariti. Sulla recinzione qualcuno aveva appeso uno zainetto blu impolverato e dimenticato nella fretta del gioco. L’unica traccia evidente che lì c’erano stati dei bambini, pensò Andrea. Chiuse dietro di sé il cancelletto del recinto, come per preservarlo, intatto, per l’indomani. Nella luce smorta della sera si muoveva a passi lenti, svuotati di qualunque energia.

Rientrare a casa, osservare l’espressione stanca e vagamente preoccupata di sua moglie, il lampo di commiserazione che di tanto in tanto le attraversava lo sguardo, era avvilente. I primi giorni, fingere di avere qualcosa da fare durante il giorno gli era parsa una soluzione accettabile, dal momento che rimanere solo quando le due donne uscivano gli provocava una claustrofobia insopportabile; si era illuso che mantenere la stessa routine di quando aveva un lavoro – otto ore fuori casa, dal lunedì al venerdì – rendesse meno aspra la consapevolezza che la sua vita era irrimediabilmente cambiata. Gli parve di vedere un’ombra minuta che si ritraeva dietro il tronco di un faggio, ma non vi badò e continuò a camminare.

Dopo aver cenato – passato di verdura, stracchino e mele cotte – indossò il pigiama e le pantofole, come ogni sera. Verso le undici raggiunse la moglie a letto e ascoltò, paziente, il resoconto della sua giornata. «Prima o poi ti rimetterai in carreggiata» concluse lei spegnendo la luce. «Vedrai».

Andrea aspettò di sentirla profondamente addormentata, quindi si alzò. Sospettava che lei si fosse accorta di come passasse le notti seduto in salotto, ma non ne aveva la certezza.

Voleva evitarle almeno questo, la visione di un uomo incapace di riprendere il controllo e anzi determinato, forse, a conquistarsi una completa rovina.

L’arrivo di Anna lo fece sobbalzare. Sembrava estremamente fragile nella camicia da notte che le sfiorava il ginocchio.

Stai cercando un altro lavoro, papà? È questo che fai tutti i giorni, vai a fare colloqui?

Ogni tanto, mentì lui. Certe volte faccio solo delle gran passeggiate.

Passeggiate, proprio passeggiate?, chiese lei, con una sfumatura di nervosismo nella voce.

Andrea avvertì una stretta di pericolo immediato e inevitabile.

Passeggiate, confermò.

Una mia amica ti ha visto, oggi. Al parco.

Passeggiavo, sussurrò Andrea, incerto.

Dormivi. Dormivi, ripeté lei, calcando appena la voce. Su una panchina. Davanti alle giostre.

Dormo poco di notte, sai. Mi sarò appisolato. Non è mica la fine del mondo, non ti pare?

Alice dice che sei incastrato dalle circostanze. Dice che è difficile immaginare come ti senti in questa situazione. Si arrotolò una ciocca di capelli sull’indice.

Te l’ho detto, fece Andrea sulla difensiva, mi ero solo appisolato.

Alice è tornata a vedere a intervalli, e tu hai dormito tutto il pomeriggio.

Alice è una... Andrea si interruppe. Smettila di fissarmi con quell’aria, riprese, tentando di infondere una nota di autorevolezza paterna a quanto stava dicendo. Ero stanco morto. Tutto qui.

Anna si guardò i piedi scalzi. Sono le tre di notte, papà.

Le tre? Andrea udì la propria voce incepparsi, confusa. Già le tre? Si sentì sopraffatto da quell’informazione appena ricevuta, come se lo scorrere del tempo avvenisse suo malgrado.

Perché non vai a dormire?, continuò Anna. Parlava con un tono più deciso, adesso. Come fanno tutti, aggiunse, e nel dirlo allargò il braccio disegnando un semicerchio nell’aria.

Non ci riesco, sussurrò Andrea. Scosse la testa. Non posso farci niente.

Puoi andare da un medico, no? Sono cose che si curano, queste.

Sì, disse Andrea, immagino che potrei.

Ok. Fallo, allora.

Lo farò. Promesso.

Anna si morse le labbra. Io torno a dormire. Ciao, papà, disse chinandosi a sfiorargli la guancia con un bacio.

Andrea la guardò uscire dal salotto, in punta di piedi come se temesse di fare troppo rumore. Era arrivata quasi a imboccare il corridoio quando si voltò.

Domani vengo a passeggiare con te, papà. E anche dopodomani. Tutti i giorni. Finché serve, disse risoluta.

Ad Andrea parve di vederle un guizzo di crudeltà nello sguardo, o forse semplicemente di amore incondizionato – quale dei due, si accorse, non avrebbe saputo dire.


da «Sono molte le cose umane», Mondadori, 2024

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