Pubblichiamo di seguito la prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi al saggio di Andrea Segrè e Ilaria Pertot La spesa nel carrello degli altri. L’Italia e l’impoverimento alimentare in uscita il 30 agosto 2024


È proprio vero: non di solo pane vive l’uomo. Abbiamo pensato di trasformare le pietre in pane, presi dall’onni­potenza del consumismo, ma non abbiamo saziato la fame vera. E non abbiamo diviso nemmeno l’abbondanza, per­ché la voracità rende insaziabili ed egoisti, voraci tanto da sopportare diseguaglianze scandalose e terribili.

L’uomo non è mai solo un consumatore, prigioniero di quello che ha davanti oppure indotto dall’attraente legge del “di più” come condizione per stare bene. Non di solo pane, ma di quella parola di amore di Dio che ci insegna a nutrire anche il nostro corpo, perché nella casa dell’amore il pane è sempre in abbondanza, mentre in quello del vivere per sé stessi prigionieri delle passioni e compulsività finiamo per sperimentare sempre la carestia perché, appunto, non di solo pane vive l’uomo.

“Meno è di più”

La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente, senza essere ossessionati dal consumo. Si tratta della convinzione che “meno è di più”.

Infatti il costante cumulo di possibilità di consu­mare distrae il cuore e impedisce di apprezzare ogni cosa e ogni momento.

«La sobrietà, vissuta con libertà e consapevolezza, è liberante. Non è meno vita, non è bassa intensità, ma tutto il contrario. Infatti quelli che gustano di più e vivono meglio ogni momento sono coloro che smettono di beccare qua e là, cercando sempre quello che non hanno, e sperimentano ciò che significa apprezzare ogni persona e ogni cosa, imparano a familiarizzare con le realtà più semplici e ne sanno godere. In questo modo riescono a ridurre i bisogni insoddisfatti e diminuiscono la stanchezza e l’ansia. Si può aver bisogno di poco e vivere molto, soprattutto quando si è capaci di dare spazio ad altri piaceri e si trova soddisfazione negli incontri fraterni, nel servizio, nel mettere a frutto i propri carismi, nella musica e nell’arte, nel contatto con la natura, nella preghiera. La felicità richiede di saper limitare alcune necessità che ci stordiscono, restando così disponibili per le molteplici possibilità che offre la vita» (Lettera Enciclica Laudato si’ n. 223 ndr).

L’invito è chiaro e decisivo. «La sobrietà e l’umiltà non hanno goduto nell’ultimo secolo di una positiva considera­zione. Quando però si indebolisce in modo generalizzato l’esercizio di qualche virtù nella vita personale e sociale, ciò finisce col provocare molteplici squilibri, anche ambientali. Per questo non basta più parlare solo dell’integrità degli ecosistemi. Bisogna avere il coraggio di parlare dell’integrità della vita umana, della necessità di promuovere e di coniugare tutti i grandi valori.

La scomparsa dell’umiltà, in un essere umano eccessivamente entusiasmato dalla possibilità di dominare tutto senza alcun limite, può solo finire col nuocere alla società e all’ambiente. Non è facile maturare questa sana umiltà e una felice sobrietà se diven­tiamo autonomi, se escludiamo dalla nostra vita Dio e il nostro io ne occupa il posto, se crediamo che sia la nostra soggettività a determinare ciò che è bene e ciò che è male» (lettera enciclica Laudato si’ n. 224 ndr).

Il primo tra gli ultimi

Desidero esprimere un grande ringraziamento ad Andrea Segrè per questo libro che ci aiuta a capire la domanda su cosa mangiano i poveri e quindi a cercare noi la risposta, a fare nostra la loro fame. E farlo ci aiuta a capire l’impor­tanza del cibo, a vivere meglio, perché nella condivisione siamo tutti saziati, non tutti affamati! I poveri mangiano quello che trovano, quello che avanza, spesso quello che è possibile.

E cioè? Come mangiano i poveri e come dovrebbero mangiare perché l’alimentazione non diventi un motivo ulteriore di povertà? Credo che si capiscano le tante riflessioni proposte e l’attenzione alle storie a partire dalla dedica, che mi ha commosso.

Don Giovanni Nicolini, della Piccola Famiglia della Visitazione, ha diretto la Caritas Diocesana di Bologna, unendo tanta sapienza spirituale e umana alla scelta preferenziale per i poveri. Li contemplava con occhi buoni, mai di giudizio, anzi casomai attento a giudicare la tentazione della fretta, della sufficienza, dell’in­differenza verso di loro.

Sì, è stato un primo che si è fatto ultimo, il primo tra gli ultimi che ha insegnato ad amare, a conoscere non in maniera distaccata e sociologica, ma con l’intelligenza del cuore e con passione evangelica e uma­na. Non ha certo vissuto una delle tentazioni davanti alla povertà, meglio ai poveri (la povertà non è una categoria astratta, è vita segnata dalla sofferenza, dalla mancanza di dignità, dalla disperazione).

Gli autori non si sono fermati alle statistiche, peraltro impressionanti. Le disuguaglianze sono aumentate ed è diminuita la passione per superarle. E non ha pensato – la seconda tentazione – di accontentarsi pensando «faccio quello che posso», «ho questo e non è possibile trovare la risposta».

La moltiplicazione dei pani

L’episodio evangelico della moltiplicazione dei pani ce lo conferma. I discepoli sono rapidissimi nel fare i conti, addirittura rimproverano Gesù di chiedere qualcosa di irrealizzabile, mettendogli davanti le statistiche impietose di quanti denari erano necessari e l’evidenza che non ci sarebbe stato nemmeno qualcosa per tutti annullando così la richiesta «impossibile» del maestro: «Date voi stessi da mangiare».

Si tenevano stretti i loro cinque pani e due pesci. Non serve tanto di più, serve la condivisione. La sapienza ebraica che Martin Buber ci ha tramandato ricorda, peraltro, che «in un tempo di carestia Rabbi Mendel vide che i molti bisognosi che erano ospiti in casa sua ricevevano pani più piccoli del solito». Egli dette ordine che si facessero più grandi di prima, «perché i pani devono adeguarsi alla fame e non al prezzo».

Non basta solo fare il possibile, bisogna togliere la fame, rimuovere le cause di questa. È l’intelligenza coraggiosa e umanamente libera di san Francesco con il lupo, che metteva paura a tutti tanto che «tutti andavano armati quando uscivano della cittade, come se eglino andassero a combattere», cui parlò chiamandolo «frate» nonostante che «ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica».

San Francesco e il lupo

San Francesco gli propone la pace, capendo e risolvendo il motivo per cui era violento. «Dappoiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto che io ti farò dare le spese continuamente, mentre che tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai più fame; impercioc­ché io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male».

Lui si fa garante della buona fede del lupo e convinse la gente di Gubbio a «nutricarlo» e a farlo «cortesemente», tanto che «dopo due anni, frate lupo si morì di vecchiaia: di che li cittadini molto si dolevano». Possiamo non solo distribuire, condividendo del nostro, quello che abbiamo, ma rimuovere le cause della fame. I poveri, come ci ricor­da papa Francesco, «sono persone, hanno volti, storie, cuore e anime… ed è importante entrare in relazione con ognuna di loro».

Non è mai un problema tecnico: occorre comprendere le situazioni per trovare la risposta adeguata. È proprio al lavoro di osservazione e ascolto, che da anni svolge puntualmente la Caritas dedicando attenzione alla povertà e all’esclusione sociale, si ispira il saggio di Andrea Segrè e Ilaria Pertot.

E quanto è importante il punto di par­tenza: la vita concreta di persone concrete, di quelle storie da accogliere, capire, verso le quali provare compassione, non commiserazione, ma fare nostre le loro sofferenze, aspirazioni, desideri. Spesso i poveri sono senza nome e non hanno diritto a essere conosciuti nelle loro vicende personali. Spaventano, anche, perché in realtà tutti pos­siamo essere poveri e scopriamo con quanta facilità questo avviene.

Questa osservazione, da un lato, circoscrive il campo di osservazione alla povertà alimentare, dall’altro ci aiuta a capire presentando tredici «piccole» storie, facendo parlare la fame, ascoltando la voce degli stessi protagonisti che ci raccontano le ragioni per cui si può diventare poveri alimentari anche se si è ricchi.

Il quadro che ne esce è scon­volgente e va ben oltre le statistiche ufficiali che enumerano la povertà alimentare in Italia: la platea è, in realtà, molto più ampia. Gli autori dimostrano come la nostra società stia vivendo un drammatico e crescente «impoverimento alimentare» che comprende, incrocia, somma e moltiplica altre forme di povertà. Non solo quella economica, ma anche la povertà educativa, sociale, culturale, relazionale e alimentare.

Le risorse del Creato

Esse sono legate assieme, spesso difficili da distinguere ma possono anche essere virtuosamente risolte, iniziando da una di queste. Così, nonostante occupi una parte importante della narrazione collettiva, il cibo assu­me sempre meno valore. Tanto che se ne spreca in grande quantità, con quella deformazione tipica del benessere e della facile stoltezza conseguente che ne sia disponibile in quantità illimitata.

Invece le risorse del Creato sono un dono limitato, mentre «scartare il cibo significa scartare persone», come ha detto Papa Francesco. Del resto, questo saggio si colloca nel solco della Laudato si’, dell’ecologia integrale e della cura della Casa comune.

Sorprendentemente, ma non troppo, nel capitolo finale proprio «la manna» ci guida a trovare delle soluzioni con­crete a partire dall’educazione alimentare per consumare e vivere in modo più consapevole e sostenibile.

Sono sicuro che questo saggio farà riflettere chi guida le istituzioni e deve compiere le scelte più opportune, ma anche tutti noi, chiamati a nuovi stili di vita, a iniziare da quel “di meno è di più” che ci libera dalla tentazione bulimica del credere di stare bene consumando tanto e diventando noi padroni del cibo e non viceversa. E ci aiuta a capire che solo pensandoci insieme sapremo pensare davvero a noi stessi.

Il pane non basta 

Il cardinale Lercaro proponeva frequentemente un versetto della Didaché, testo composto tra la fine del I secolo e l’inizio del II, perduto e ritrovato a fine Ottocento: «Se condividiamo il pane del cielo, come non condivideremo quello della terra?»

E non basta dare il pane, bisogna dare la parola che sola costruisce fraternità. Il povero sono io, in realtà, e pensarci insieme, capire la sua fame vuol dire anche capire e affrontare la mia. Essere senza fissa dimora non deve significare mai essere sconosciuti, senza volto, senza storia, senza parole.

Le povertà economica, urbana, di genere, sociale, educativa, alimentare, di lavoro, di pen­sioni basse, della solitudine, della bassa scolarizzazione, sono legate l’una all’altra, spesso si uniscono e si generano a vicenda. Ma non sono una condanna. I cinque pani e due pesci (dimensione possibile quindi e che peraltro sono molti di più, tanto che sprechiamo in modo sconsiderato e umiliante) offrono nella prospettiva della condivisione tante indicazioni che gli autori ci descrivono con intelli­genza e tanta concreta umanità.

Non il libro dei sogni, ma vie molto concrete per sognare di stare bene tutti e di fare stare bene. Occorre uscire dalla logica dell’emergenza, capire le cause e, come San Francesco, aiutarci a risolverle. Il reddito da lavoro, dalle politiche globali alle politiche locali (del cibo), il diritto al cibo, la cittadinanza e la giusti­zia alimentare, il cibo come bene comune, la democrazia e di poesie, Il sapore del pane, scrive: «L’ultimo pane è per chi ha fame». Il mio pane sarà mio se lo spezzo con te, perché il problema non è mai solo materiale, ma insieme spirituale e religioso e viceversa. Perché non di solo pane vive l’uomo. Solo così non avremo fame.

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