Edmondo Berselli diceva da sinistra cosa non gli piaceva della sinistra, con ironia, anche feroce, e affetto. Attraverso Berselli, si legge la società di oggi
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
«Sembra di essere tornati agli anni democristiani, quando la domenica delle elezioni era il giorno glorioso della speranza e il lunedì il giorno doloroso della sorpresa. Solo che questa volta la sorpresa minaccia di durare intere epoche».
Sinistrati è del 2008, quindi queste righe non parlano del governo Meloni, anche se sembra. Io sono andata a rileggerle dopo aver sfogliato l’imbarazzante autobiografia di Elly Schlein, alla prima pagina della quale ella si butta all’indietro «a volo d’angelo sulla neve», lasciando un’impronta che dovrebbe essere metafora e invece.
Edmondo Berselli è morto da quattordici anni, che sono quattordici anni in cui il mondo è apparentemente diventato altro. È morto che Instagram doveva ancora venire inventata, per dire. E quindi una potrebbe dire: come ci manca, chissà cosa direbbe di questo mondo d’oggi in cui i ministri fanno i video per i follower invece di andare alla tv, in cui anche quando li fanno per la tv non li fanno più come se dovessero essere loro ad adeguarsi al mezzo – cos’avrebbe detto del video della Meloni prima delle Europee, quello in cui dava praticamente dei paranoici agli spettatori di La7 – cosa direbbe di questo mondo che non ha fatto in tempo a vedere? Quello che aveva già scritto in Post-italiani, direi: «Nel clima del tempo si è già annullata la distanza fra le persone serie, che fanno mestieri duri, impegnativi, rilevanti nella sostanza economica e politica del paese, e il Barnum scintillante che si agita tutt’intorno nei luoghi dell’intrattenimento mondano». Parlava di quella volta, era il 2002, in cui Berlusconi aveva ben pensato di dire in pubblico che si diceva sua moglie se la facesse con Cacciari; ma ora ditemi se non sembra un commento su noialtri, ora, qui. Noi persone serie con uso di Barnum, o viceversa.
Il fatto è che in appena cinque anni e cinque libri, tra il 2003 di appunto Post-italiani e il 2008 di appunto Sinistrati, Berselli aveva sistematizzato questo secolo assurdo prima che fosse tale. O meglio: quando lo stava diventando ma bisognava essere molto bravi per accorgersene. Nel 2003 in Italia va in onda la prima Isola dei famosi, nel 2006 Facebook passa da giochino per gli universitari americani a illusione di comunicazione orizzontale per tutto il mondo, nel 2008 l’elezione di Barack Obama sancisce che la fotogenia è l’unica cosa che conti.
Si può dire, da sinistra, che la qualità più importante di Obama era la fotogenia? Forse no, perché c’è una cosa che solo a Berselli era permesso fare senza farsi dare del connivente coi fascisti, che solo a Berselli era permesso fare senza che nessuno mettesse in dubbio da che parte si collocava, che solo a Berselli era permesso fare con uso di preterizione: redarguire la sinistra. Ricopio da Venerati maestri, 2006: «[Dario] Fo era un guitto formidabile, un istrione eccezionale. E quando Fo “fa” il suo numero medievale in cui racconta e mima storie di frati e di contadini, storie materiali e carnali, di maiali e truogoli, “el pursèl in tel smerdasso”, c’è davvero da farsela addosso per la sua gigioneria terrigna […] Solo che ogni tanto Fo si fermava, bloccando tutta la macchina scenica e narrativa, si portava sul proscenio e si metteva a spiegare agli spettatori la rava ideologica e la fava sociale del Medioevo, della religione, del potere, del gregoriano, dei preti, di “ho visto un re”; che sarebbe come uno che si ferma a metà barzelletta raggelando tutto il bar, per spiegare il contesto storico e politico, differendo la battuta e quindi la risata a tempi successivi, quando sarà già avvenuta la rivoluzione, e saremo tutti in grado di apprezzare lo spirito popolare e padano, rustico e finanche volgare».
Oggi che se il guitto fa il guitto si ritrova sui social il pubblico di sinistra indignato – e allora perché non parli del genocidio, non parli dei profughi, non parli dei massimi e minimi sistemi che ci opprimono – oggi che il pubblico di sinistra pretende di venire trattato come Berselli cercava di tutelare il pubblico dall’essere trattato, come un ripetente di seconda media che ha bisogno di sentirsi didascalizzare che i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, oggi che se qualcuno dice a un erede di Fo – ma pure a un erede di De André – se per favore sul palco fa il suo mestiere invece di farci il predicozzo, beh, allora quel qualcuno è certamente un fascista, oggi mi chiedo se la nostra capacità di usare l’intelletto invece di tifare vent’anni fa fosse diversa, o se ci fosse una deroga speciale solo per Berselli.
Puoi dire che non ti piace il presepio di sinistra e continuare a scrivere su Repubblica, e continuare a essere socialmente presentabile, e continuare a dire da sinistra cosa non ti piace a sinistra, solo se sei Berselli. Morto lui, è morta l’opportunità non tanto di scrivere di certe cose in certi termini, ma di farlo ottenendo reazioni più strutturate di quelle dei cani di Pavlov. Chissà oggi chi mai potrebbe scrivere – in una parentesi, in levare, in souplesse – che Guazzaloca è il primo sindaco di destra a Bologna per questa e quella ragione ma «per la verità è anche questione che ai rossi gli viene un colpo mortale di imbecillità» (in Quel gran pezzo dell’Emilia, 2004), e non venire espulso dal territorio bolognese, dalla società civile, dall’altarino delle professoresse democratiche.
Poi sì, certo: un classico è un libro che non ha mai finito le cose da dire. Ma, più praticamente: un classico è un autore che non finisci mai di saccheggiare. Io scopro in continuazione saccheggi di Berselli che il presente non sa d’aver compiuto: cosa sono gli «adulti riluttanti», categoria sotto cui Netflix cataloga certi film per noialtri adolescenti senili, se non gli Adulti con riserva di cui scriveva Berselli nel 2007, quando Netflix era appena passata da noleggio di dvd a servizio di streaming solo per gli americani, ma in Italia c’era un tizio che aveva già capito che questo sarebbe stato il secolo in cui s’invecchiava senza mai crescere.
Ogni volta che mi lamento dei figli delle mie amiche che non vanno a catechismo e quindi non sanno niente del tessuto culturale del paese in cui vivono, ogni volta che dico che da quando non crediamo più in niente crediamo nelle peggio scemenze, da TikTok in giù, ogni volta mi viene il dubbio che ci fosse un Berselli che questa roba qui l’aveva già descritta, e infatti c’era, ventun anni fa: «Rimasti orfani di sogni significativi, delle grandi narrazioni, delle mitologie supreme, si sente il bisogno di beni di conforto, da ricercare soprattutto negli ipermercati del cazzeggio».
Ci sono, tra i viventi, tantissimi intellettuali con la pretesa di occuparsi di cazzeggio: è diventata la cifra del secolo. Solo che non sono Berselli, e quindi smaniano per ricordarci a ogni rigo che hanno il PhD, hanno paura che non si noti, sono prigionieri delle citazioni da dottorandi e del lessico da chi vuole rendere orgogliosa la mamma che ha speso per farli studiare.
E a me ogni volta viene in mente quel Berselli su Altan, quello che diceva «Com’è noto, soltanto la gente che non sa stare al mondo cita Walter Benjamin e l’angelo della storia che guarda all’indietro un mondo di rovine», quel Berselli del 2005 che, al solito, sembra scritto dopodomani.
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