Il decennio dell'individualismo e del riflusso. Il decennio della disco-music e dell’edonismo reaganiano. La stagione dell'insostenibile leggerezza dell'essere e del pensiero debole. Tutto questo diventa immagine, look, icone da poster. Nascono stelle nuove, ma Sanremo non sempre le riconosce: da Vasco Rossi a Jovanotti
Il decennio dell'individualismo e del riflusso. La musica ha le antenne dritte e capisce tutto in anticipo. John Travolta esce dalla sua febbre del sabato sera e contagia il mondo. I Bee Gees sono i nuovi Beatles. La disco-music mangia tutto il resto. L'impegno post-sessantottino della canzone d'autore sfuma verso quello che Roberto D'Agostino chiamerà "edonismo reaganiano" nel tormentone pensato per Quelli della notte, programma cult di Renzo Arbore dell'estate '85.
La stagione dell'insostenibile leggerezza dell'essere (Milan Kundera), gli anni del pensiero debole (Gianni Vattimo) e la Milano da bere arrivano tutti insieme per reagire alla cupezza del terrorismo. Il rock sfuma nel pop, il pop abbraccia il look, il panorama è stravolto dalla nascita di MTV (1981). The Buggles aprono gli anni '80 cantando che Video Killed the Radio Star. Con i videoclip, i musicisti non possono più non essere personaggi, e i personaggi più grandi diventano icone, da Michael Jackson a Madonna, da Simon Le Bon a Boy George.
L'evoluzione colta vive nell'elettronica, il synth pop, il metal melodico. Gli adulti scoprono un nuovo diavolo tentatore nella vita dei loro figli: il walkman. Un paio di cuffie intorno alle orecchie hanno il potere di trasportare in un altro mondo, come mostra meglio di un saggio Sophie Marceau nella scena più famosa de Il Tempo delle Mele (1980), film generazionale che manda mamme e padri nel panico: aiuto, gli adolescenti si isolano, non li controlliamo più.
Sanremo intercetta ora l'una ora l'altra tendenza. Accoglie nuovi personaggi sul palco, ma spesso non li capisce al primo colpo. Le dieci canzoni del decennio da ricordare
Ancora (1981): Eduardo De Crescenzo
Eppure c’è ancora spazio per un anti-divo. Eduardo De Crescenzo sale sul palco e sembra sbarcato da un mondo improbabile. Ha 29 anni e porta una montatura d’altri tempi, si muove tra il soul e il blues, presenta un pezzo che diventerà un classico della canzone italiana. Tiene la testa piegata e gli occhi chiusi, le spalle raccolte, le mani dietro la schiena. Canta il dolore di un amore finito mostrandolo anche nel fisico che si piega durante l’interpretazione. Non lascia indifferenti. Renzo Arbore, seduto in prima fila, dice: «Stasera abbiamo trovato un grande interprete». L’amore si è ripreso il festival.
Una notte che vola via (1982): Zucchero
Adelmo ha 27 anni, si è diplomato perito elettronico e si è iscritto a Veterinaria prima di mollare tutto per la musica. A Sanremo ci arriva attraverso il concorso giovanile di Castrocaro, dove avevano già scoperto in passato Alice e Luca Barbarossa. Ma quando Adelmo Fornaciari passa per la prima volta da Sanremo pare proprio uno dei tanti, anzi pare uno degli ultimi. Penultimo per la precisione, e sempre penultimo si piazzerà tre anni e quattro dopo con Donne e con Canzone triste. Due mesi più tardi la casa discografica gli dà un’ultima occasione. Esce l’album Rispetto e Zucchero spacca.
Vado al massimo (1982): Vasco Rossi
Forse il caso più clamoroso di mito incompreso al festival di Sanremo. Se Zucchero arriva penultimo è perché all’ultimo posto c’è lui, destinato di lì a poco a diventare il monumento del rock italiano. Quando finisce di cantare, infila il microfono in tasca, lascia il palco e diventa Vasco. Torna l'anno dopo con Vita spericolata e migliora: penultimo. Se ne va prima di finire la canzone per smascherare un trucco: stanno cantando tutti in playback.
Vacanze romane (1983): Matia Bazar
Sono la quota elettro-pop del festival. Raffinati, sofisticati, dominatori del festival tra Padre Cionfoli e Pupo, un piccolo mondo semplice nel quale si poteva prendere una sbandata perfino per gli svolazzi di Marco Armani. Quando i Matia Bazar incantano Sanremo, lo fanno evocando Gregory Peck e Audrey Hepburn, mettendo da parte per sempre le linee dritte di C'è tutto un mondo intorno (peccato).
Lei verrà (1986): Mango
Quell’anno a Sanremo i tifosi si dividono tra Eros Ramazzotti (Adesso tu) e l’ironia di Renzo Arbore con Il clarinetto. Mango se ne sta delicatamente al 14esimo posto, portando sul palco le maniche della camicia arrotolate sulla giacca e il capello gonfio d’aria così Eighties. Nell’estate dell’anno dopo sarà il dominatore assoluto degli amori al mare con Bella d'estate.
Quello che le donne non dicono (1987): Fiorella Mannoia
Aveva esordito sei anni prima audace e provocatoria con Caffè nero bollente, per poi ammettere che «come si cambia per non morire» (1984), e diventando così la Signora Eleganza della musica italiana, abbonata al premio per la Critica. Qui lo vince a mani basse con un pezzo che al tempo viene salutato come un inno di genere ma che quarant’anni dopo si disvela dinanzi alle nuove sensibilità per quello che è: l’ha scritta un uomo (Enrico Ruggeri). «Siamo così: dolcemente complicate» e «non saremo stanche neanche quando ti diremo ancora un altro sì». Torna al festival nel 2024 per tirare un riga e presentare un nuovo manifesto dell’emporwement femminile.
Sarà per te (1988): Francesco Nuti
C'era l'abitudine al festival di chiamare in gara una volta un attore, una volta un comico. Così sono sfilati i in gara vari Enrico Beruschi, Francesco Salvi, Marisa Laurito, Gigi Sabani. Ma per Francesco Nuti non fu così. Attore spacca-incassi di Io, Chiara e lo Scuro, regista anche in Casablanca Casablanca, uno dei nuovi campioni della comicità italiana con Troisi, Benigni e Verdone, si affaccia a Sanremo e piazza un colpo al cuore. Nell’anno in cui Massimo Ranieri vincerà ma perderà l’amore, la canzone di Nuti entrerà pure nel repertorio di Mina: «Adesso vieni fuori che io mica ti conosco, o forse lascia stare che mi sembra ancora presto».
Questa volta no (1989): Gino Paoli
La volta in cui Sanremo convince Renato Carosone a presentarsi per la prima volta in concorso, c’è anche il ritorno di Gino Paoli dopo ventitré anni. Ha da poco rinfrescato il suo meraviglioso bagaglio anni Sessanta (Senza fine, Il cielo in una stanza) scrivendo Ti lascio una canzone («Una canzone che tu potrai cantare a chi / A chi tu amerai dopo di me / A chi non amerai senza di me) e Una lunga storia d’amore («Fai finta di non lasciarmi mai anche se / dovrà finire prima o poi questa lunga storia d'amore»). Uno che ha scritto almeno tre delle dieci canzoni italiane più belle di sempre: che ti combina? Arriva a Sanremo con un pezzo in cui tutto è sottrazione. Deciderà di non inciderlo mai, anzi, lo regala a Ornella Vanoni: «E non finirà – dice stavolta dell’amore che prima o poi doveva finire – e non finirà per qualche ruga che ti cambierà».
Vasco (1989): Jovanotti
Mentre Raf già si chiedeva cosa sarebbe restato di questi anni Ottanta, eccolo qua un altro campione della musica italiana che all’inizio fraintendiamo, noi e tutta Sanremo. Del resto lui stesso ce la mette tutta per confonderci le idee, per sembrare quel che non è. O forse non è ancora. Arriva con l’estetica paninara del Drive In e con un pezzo di Cecchetto che profuma di Gioca Jouer. Rita Pavone presenta addirittura un esposto al pretore, perché quel giovanotto nella sua canzone fa pubblicità, lancia un messaggio pubblicitario. In favore di cosa? Ma di Vasco. Proprio quel Vasco lì. Quello che a inizio decennio Sanremo non aveva compreso. Così il corto circuito è completo. Il pretore le dà torto.
Almeno tu nell'universo (1989): Mia Martini
Qualche anno dopo aver commosso con E non finisce mica il cielo (Ivano Fossati), Mia Martini porta sul palco una delle dieci canzoni italiane più belle di tutti i tempi. Stop. Fine delle discussioni. Un inno d’amore e di diffidenza, «tu che sei diverso, almeno tu nell'universo non cambierai, dimmi che per sempre sarai sincero», un inno allo spavento che ogni volta un’anima avverte quando s’innamora.
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