L’ascesa di una nuova generazione di cantautori manda nell’ombra la canzone melodica d’amore e disimpegno. Dopo il triennio d’oro 1970-1972 Il festival rompe con le case discografiche e va in crisi. Sono nate le radio private e sulle musicassette ciascuno può registrarsi la musica che vuole, mentre Mina e Battisti non si fanno più vedere.
Nella musica italiana gli anni Settanta sono divisi in due. La prima parte è una coda lunga del Sessantotto: le canzoni passano ancora dai mangiadischi e d’estate nei juke-box sulle spiagge. I televisori trasmettono in bianco e nero, nelle case non sono arrivati i telecomandi. Una seconda generazione di cantautori irrompe soprattutto dall’Emilia e da Roma: dopo Francesco Guccini emergono Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Antonello Venditti.
La canzone melodica deve cercare luoghi dove poter sopravvivere. La sua reputazione sta calando. Cantare l’amore è diventato un impegno di seconda fila. Anche il festival di Sanremo ne risente. Nella seconda metà del decennio vive il suo periodo di minor attrazione. Diventa presto crisi. Nel ‘78 le prime due serate non vengono trasmesse né dalla tv né dalla radio, nel ‘79 si vede in diretta solo la finale.
Molto cambia, dentro e intorno alla musica italiana. Nel febbraio del ‘75 Lucio Battisti tiene il suo ultimo concerto, nel ‘79 arriverà l’ultima sua volta in radio. L’estate prima era stata Mina a uscire di scena, con un’ultima apparizione pubblica a Bussoladomani, Lido di Camaiore. Diventano i Salinger della nostra canzone. Fantasmi. Ricordi. Sono voci senza corpi. Sono canzoni senza un volto.
Anche il panorama industriale è stravolto. Nel 1975 è nata la prima radio privata, a fine decennio saranno diventate quattromila. L’immediata conseguenza è la diffusione delle audiocassette, con la possibilità di registrarsi da soli a casa la musica trasmessa, per sentirla a proprio piacimento quando si vuole, ogni volta che si vuole.
Dentro questa cornice, ecco le dieci canzoni sanremesi da ricordare.
Chi non lavora non fa l’amore (1970): Adriano Celentano e Claudia Mori
Il Sessantotto è passato da due anni, Celentano lo seppellisce con un pezzo che porta per la prima volta sul palco la parola «sciopero» e lo fa per accusare i sindacati e il femminismo. Viene sommerso di critiche. Lietta Tornabuoni su La Stampa parla di «testo odioso». La musica tradisce una somiglianza con Give Peace a Chance di Lennon e Yoko Ono. La coppia con la moglie Claudia Mori funziona. Avevano già avuto successo in Hit Parade con La coppia più bella del mondo. Vincono. Sergio Endrigo attacca: «Poteva vincere chiunque, non lui».
Che sarà (1971): José Feliciano
Oggi viene considerato uno dei primi ad aver lanciato un ponte fra il pop americano e il suono latino. In abbinamento con I Ricchi e Poveri, a Sanremo Feliciano si presenta carico di considerazione e di Grammy vinti in America. Porta nelle case italiane la prima immagine forte del decennio con i suoi occhialoni neri e un primo grande dilemma legato al testo. Perché dice di saper far tutto e subito dopo aggiunge «forse niente»? I bambini del tempo rimangono spiazzati, da adulti alla fine capiranno.
4 marzo 1943 (1971): Lucio Dalla
Nello stesso anno, Lucio Dalla porta al festival un pezzo che va in scena monco rispetto alle aspirazioni. È il primo caso di censura. Il titolo originale era Gesubambino. Nella versione definitiva diventa la data di nascita del cantautore. In un pezzo sull’assenza della figura del padre, le allusioni religiose non vengono tollerate. L’ultima strofa («E anche adesso che bestemmio e bevo vino, per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino») viene rimaneggiata nel profondo. Terzo posto.
Piazza Grande (1972): Lucio Dalla
Dalla torna al festival pure l’anno dopo ma si piazza ottavo. Anche questa canzone aveva in origine un altro titolo (America), Ron ha raccontato di averla composta con un giro di chitarra a bordo di una nave che lo portava insieme con Lucio da Napoli in Sicilia. La Piazza Grande è individuata in prevalenza nella Piazza Maggiore di Bologna.
Come le viole (1972): Peppino Gagliardi
Pezzone tra i più dimenticati e sottovalutati della musica italiana. Del resto in quel periodo c’è un’abbondanza di capolavori che travolge. Siamo nel cuore del triennio d’oro di Sanremo (1970-1972), quando dodici canzoni del ‘70, dodici del ‘71 e undici del ‘72 finiscono in classifica e cinque vanno al primo posto (lo scrive Marcello Giannotti in L’enciclopedia di Sanremo).
Come le viole si piazza seconda, eguaglia il successo di Settembre, vende moltissimo, ma porta Peppino Gagliardi fuori dalle scene televisive per il declino del genere melodico-malinconico. L’arrangiamento è di Bill Conti, successivamente autore della colonna sonora di Rocky.
L’uomo che si gioca il cielo a dadi (1973): Roberto Vecchioni
Il festival infila il tunnel. Comincia la sua discesa verticale. Le canzoni che passano da Sanremo non vedono la classifica neppure da lontano. Il cast peggiora di anno in anno. Nel ‘74 va in scena un’edizione senza l’accordo con le case discografiche, con una platea di semisconosciuti. I dischi venderanno complessivamente quanto quelli del 1951. C’è una perla che spicca nel buio, il pezzo con cui Roberto Vecchioni comincia la sua scalata e la sua trasformazione da autore a interprete.
Bella da morire (1977): Homo Sapiens
È la canzone che vince un festival storico per due motivi. Per la prima volta la RAI lo trasmette a colori e per la prima volta la gara si tiene al teatro Ariston, lasciando il Salone delle feste del casinò municipale. La canzone era destinata inizialmente a Mal, ma il grande successo di Furia, sigla del telefilm per ragazzi delle 19.20, lo costringe a saltare Sanremo.
Gianna (1978): Rino Gaetano
Arriva dal Folkstudio di Roma, mette in musica personaggi di Salgari e si fa convincere a portare al festival una canzone che non gli piace. Si presenta con una tuba che gli ha regalato Renato Zero, frac, papillon, scarpe da ginnastica, un ukulele. Un’apparizione da un altro mondo. È la prima canzone con la parola «sesso» nel testo, ventisette anni dopo la prima edizione.
Un'emozione da poco (1978): Anna Oxa
Ha 17 anni, sconosciuta, sale sul palco ed è una folgorazione assoluta. Porta un pezzo scritto e prodotto per lei da Ivano Fossati, si presenta con un look punk androgino pensato da Ivan Cattaneo. Gioca col mistero. Si dice in quei giorni – e lei lo lascia dire – che i guanti tagliati a metà nascondono chissà quale segreto. Una delle canzoni italiane più belle del decennio, una delle prime quattro o cinque mai sentite a Sanremo.
A me mi piace vivere alla grande (1979): Franco Fanigliulo
Uno dei festival peggio riusciti di sempre tira fuori un personaggio unico, istrionico, dissacratore, ironico, interprete di un pezzo con una melodia irresistibile, una vetta forse irraggiungibile tra le presenze più stralunate di Sanremo. Anche lui censurato come Dalla a inizio decennio. Doveva cantare: «Foglie di cocaina / voglio sentirmi male». Invece disse: «Bagni di candeggina / voglio sentirmi uguale». È morto all’età di 45 anni dopo essere stato fra gli arrangiatori di uno degli album più belli di Zucchero (Blue’s). Come si faceva a non amarlo? Peraltro l'anacoluto con cui parte il pezzo ha scagionato per anni generazioni di studenti agli occhi delle professoresse di italiano.
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