La scrittura confessionale ha da sempre occupato uno spazio rilevante seppur di nicchia, negli ultimi anni si è assistito però a un significativo aumento di testi che esplorano il concetto del sé. Da dove nasce tutto questo interesse? Analisi della genesi di una tendenza d’autore diventata fenomeno editoriale
La scrittura confessionale ha da sempre occupato uno spazio rilevante seppur di nicchia ma negli ultimi anni si è assistito a un significativo aumento di testi che esplorano il concetto del sé. Vari fattori, tra cui la pandemia, la crisi della salute mentale e l'esposizione sempre più pervasiva sui social media e su Internet, ci spingono a riflettere su come ci presentiamo al mondo, offrendoci un'ampia gamma di opportunità per ridefinire la propria identità e il proprio vissuto.
L'atto di scrivere diventa così sia un processo di scoperta sia di rielaborazione, l’occasione di liberarsi dai vincoli del passato e per ridefinirsi: raccontando la propria storia si può così prenderne il controllo e dare un senso alle proprie esperienze.
Un atto che è anche un’invenzione, come insegna Elena Ferrante che del trasformismo biografico in incognita è maestra, dato che la scrittura seppur di matrice personale può non essere solo un resoconto dei fatti ma anche una reinterpretazione di essi. Autofiction o no, senza legarsi troppo alle tassonomie, se la scrittura in larga parte è da sempre di matrice personale, seppur traslando e rielaborando, è proprio quella più o meno dichiaratamente biografica ad avere un carattere liberatorio.
Nei Taccuini (Voland) di Marina Cvetaeva, tradotti per la prima volta quest’anno in italiano, la poetessa russa mette a nudo la sua interiorità. Gli elementi tangibili della vita quotidiana si mescolano con le pagine di ricordi: troviamo riflessioni sulla poesia e sull'amore, brevi annotazioni che sembrano quasi aforismi, frammenti dei pensieri della figlia Alja, racconti di sogni, estratti di lettere, ritratti di persone contemporanee, resoconti di incontri, conversazioni e serate poetiche. Nonostante le difficoltà e le tragedie personali, la vitalità e la curiosità intellettuale e umana di Cvetaeva non vengono mai frenate ma trasportate su carta senza sosta e in forme diverse in quella che lei chiama «una fioritura creativa, (un’esplosione!)».
La morte per stenti della figlia Irina in un asilo a due anni trova così spazio nei taccuini. Quella figlia nata nell’anno della rivoluzione e con un ritardo e che lei non riusciva ad amare ma che tra sensi di colpa e dolore diventa una presenza a cui non riesce a sottrarsi: «Irina! Com’è morta? Cosa provava? Si dondolava? Che ricordi le sfilavano davanti?».
Deborah Levy ricostruisce il suo passato con Cose che non voglio sapere, il primo memoir di un trittico Autobiografia in movimento in movimento, tutti in uscita quest’anno per NNE. La scrittrice esplora i suoi taccuini per ricavare un racconto fluido pensato in risposta al famoso saggio di George Orwell del 1946 Perché scrivo. Lo scrittore di 1984 sosteneva che «scrivere un libro è una lotta orribile ed estenuante, come un lungo periodo di qualche malattia dolorosa». Levy ripercorre in tre tappe Maiorca, Sud Africa, Londra e dimostra che la volontà di scrivere potrebbe non essere sempre razionale ma un impulso vitale di chi sa salvarsi solo così. E per confermarlo cita la regista teatrale polacca Zofia Kalinska: «Esitiamo sempre quando desideriamo qualcosa» ma aggiunge poi di suo pugno che è la storia di questa esitazione che giustifica la scrittura.
La scrittura come atto politico
La scrittura serve per rimestare il dolore ma può diventare anche un atto di rivalsa. Lo sa bene Melissa Febos che con Questa mia carne, appena pubblicato in Italia da Nottetempo, tra memoir e saggio di scrittura creativa, racconta e analizza il percorso emotivo, psicologico – e persino fisico – che lo scrivere di sé richiede. Attingendo dalla propria esperienza personale e artistica, prova a rispondere alle domande che assillano chi scrive.
«Per smuovere le persone in termini politici», spiega Melissa Febos, «dobbiamo fare appello a loro in modo umano; spesso sono state le storie di singole persone, di sofferenze individuali, di trionfi e di sopravvivenza a stimolare potenti movimenti politici. Non ho mai condiviso un ricordo o un'esperienza personale dolorosa solo per essere vista o per avere compagnia nel mio dolore; l'ho sempre condivisa con l'obiettivo finale di trasformare la mia società. Ironia della sorte (o almeno deve sembrare a chi mi legge), sono una persona molto riservata. Ho semplicemente scoperto che a volte proteggere la propria "privacy" significa anche proteggere i sistemi dannosi e corrotti che hanno causato tanta sofferenza».
Mettere in parole le storie e le relazioni che ci hanno formato per Febos va fatto, «con grande cura, tempo, considerazione etica e abilità artistica».
Nonostante ciò, abbiamo interiorizzato una certa antipatia verso la nozione di testimonianza personale come forma di arte elevata .
«Assolutamente sì. In particolare, vedo che l'arte che include testimonianze personali create da donne e da altri gruppi storicamente emarginati viene bollata come arte inferiore, o addirittura liquidata come semplici annotazioni di diario, anche quando sono state realizzate con grande lavoro estetico e abilità, mentre tali opere di uomini sono spesso lodate come innovative, intime e simpatiche. Questi pregiudizi spesso non vengono esaminati da chi li detiene e, per me, sono chiaramente solo un riflesso grossolano dei pregiudizi di una società. Se prendiamo sul serio questa arte, forse dovremo prendere sul serio questa testimonianza, e questo è minaccioso per le gerarchie sociali dominanti».
La scrittura è terapia
Negli anni Ottanta lo psicologo sociale James W. Pennebaker aveva condotto degli studi oramai celebri sulla catarsi espressa dalla scrittura espressiva. Da allora, le ricerche sono aumentate confermando i suoi risultati, cioè che il tipo di scrittura legata a un trauma rafforza il sistema immunitario, riduce i pensieri ossessivi e contribuisce al benessere complessivo di chi scrive.
Pennebaker aveva spiegato come questo avveniva anche su scala più ampia in comunità che avevano sofferto le atrocità della guerra o altri sconvolgimenti di natura politica.
Per lo scrittore e docente di scrittura Sebastiano Mauri c’è una discriminante: «Dipende da quale ricordo si tratti. Il resoconto del profondo dolore provato alla morte del proprio cane non ha necessariamente una valenza politica. La denuncia di un atto di violenza subita, magari una violenza sessuale, possibilmente taciuta per paura delle ripercussioni, del giudizio altrui o dello scrutinio più o meno carico di pregiudizi che ne potrebbero seguire, possono avere una valenza altamente politica, oltre che liberatoria».
Il bisogno di scrivere e ascoltare storie è legato agli aspetti più ancestrali dell’essere umano e connota fortemente la nostra società.
«Spesso ingigantiamo i nostri problemi, le nostre fobie, i nostri lati oscuri grazie al fatto che li crediamo, appunto, solo nostri. La tendenza a condividere con gli altri unicamente le maschere dietro le quali ognuno di noi si nasconde ci porta a vivere in un mondo dove pensiamo di essere gli unici a dover convivere con una realtà molto più grama, contraddittoria o persino oscura degli altri. Il togliersi pubblicamente la maschera è un atto che può avere ripercussioni profondamente terapeutiche non solo per chi scrive ma anche per chi legge».
Traumi e pregiudizi
Il pregiudizio verso la scrittura biografica è spesso un meccanismo sessista, secondo l’equivalenza intellettuale= maschile, biografico=femminile.
«La letteratura è uno specchio della società», dice Mauri. «Ed è quindi necessariamente vittima di diversi stereotipi maschilisti volti a preservare l’egemonia del maschio, preferibilmente bianco ed eterosessuale. Io penso che il pregiudizio verso la scrittura autobiografica si basi su un’illusione, in quanto è impossibile sfuggire dal sé, anche quando si parla di altri, anche se la parola ‘io’ non è mai utilizzata nel testo. Persino un saggio storico, in qualche modo, è un testo autobiografico. Esiste solo la propria verità, figlia della propria esperienza. Un semplice punto di vista è già autobiografico».
Scrivere di traumi è sempre utile anche se farlo senza lasciarsi condizionare non è facile neppure per chi lo fa di mestiere.
«Non c’è nulla di meno terapeutico della rimozione o del nascondere sotto al tappeto le parti più scomode del proprio vissuto. I traumi non ci abbandonano solo perché non ne parliamo, o scriviamo, anzi vengono rafforzati dal silenzio. Appropriarsi della narrazione, portarla alla luce, persino riviverla, sono un modo per rielaborarla, processandone gli elementi più tossici e permettendoci di poter per lo meno immaginare di andare oltre. Se si ricorre all’ironia, poi, se si ha il coraggio di ridere delle proprie disgrazie, allora sì che si sta spianando la strada verso la propria cura. Ridere di qualcosa ci eleva al di sopra dell’oggetto della nostra ilarità».
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