Sono una docente precaria da sei anni, abilitata con concorso 2020 (concorso le cui prove si sono tenute nel 2022).

Su circa 800 candidati iniziali il concorso l'hanno passato in 60 circa e io sono nella 23esima posizione di una graduatoria regionale bloccata per i nuovi concorsi Pnrr. Ho accettato la situazione e ho svolto anche la prova scritta del concorso che ho passato con 96/100. L'orale per la mia classe di concorso non è ancora in svolgimento poiché non esiste ancora una commissione. Sono toscana e dovrò sostenerlo in Friuli Venezia Giulia. I candidati sono 430 per due posti.

Nel frattempo ho sempre lavorato con entusiasmo dalla prima fascia. Per sei anni, conoscendo diverse scuole e crescendo e formandomi e adattando metodi, facendo lezioni nella mia materia anche in inglese perché i ragazzi, se ricevono impulsi giusti, sono molto più che reattivi.

Negli anni, ho ricevuto messaggi, lettere e belle parole dagli studenti, anche da quelli che avevano l'insufficienza. Sono stata segretario e coordinatore di classe gestendo con attenzione e cura il rapporto con le famiglie e lavorando tanto per prevenire l'abbandono scolastico che nella scuola attuale chissà perché è un fenomeno spaventosamente in crescita. Quest'anno una ragazza bocciata mi ha scritto «la ringrazio perché anche se sono bocciata con i suoi lavori sui testi di storia dell'arte ho imparato a fare i riassunti e a capire meglio le cose».

Quest'anno, dopo sei anni, sarò disoccupata. Il posto che avevo selezionato come prima precedenza, la scuola dove avrei voluto lavorare e dove lavoravo l'anno scorso, è stato assegnato a un docente della seconda fascia, mentre io in prima fascia con 93 punti, sei anni di servizio e continuità didattica sullo stesso istituto, sono stata considerata rinunciataria perché quel posto è risultato disponibile solo al secondo turno di nomine. E l'algoritmo non torna indietro.

Mentre i giornali ci dimenticano e i sindacati ci spiegano che se il ministero dell’Istruzione ci ha fregati «è solo colpa nostra». Dovevamo mettere tutte le preferenze e accettare un lavoro in una scuola a caso nonostante il posto che ci sarebbe spettato era libero. Ma forse ho svolto finora questo lavoro con un atteggiamento troppo idealista.

Come per i nostri ragazzi, anche per noi, prima o poi arriva il momento in cui si diventa grandi. Nel mio caso si chiama “ricorso”. L’elemento decontestualizzato sul mio desktop in mezzo a cartelle fatte di progetti, interessi, vita. C’è di peggio, poteva chiamarsi malattia o morte di qualcuno. Ma resta comunque lì, una cartella che si riempirà di dati raccolti per difendersi da un sistema che adotta l’iperformalismo per supplire a mancanze di risorse e prospettive.

La mia scuola non era mai stata questo. Non mi ero mai sentita così priva di difese, muta, impotente, come di fronte a quello che è successo quest’anno e a seguito delle ultime riforme. Tutte queste cartelle tutti questi progetti sono immobili dal quattro settembre, dopo il primo turno di nomine.       

Quel giorno ho capito che un ingranaggio è saltato per sempre e che il declino della scuola corre su una pista nera come qualcuno che non sa sciare.

Essere muti fa sentire arrabbiati, soli, impotenti contro un golem senza volto. I tecnicismi della scuola non si possono spiegare in poco tempo. Non è possibile spiegare che cosa si prova di fronte all’amputazione improvvisa di un progetto professionale, di vita e di identità.

Dal quattro settembre trascorro le mie giornate non studiando, non scrivendo né analizzando opere di Delacroix, non costruendo presentazioni sulle firme degli artisti nel Medioevo. Non leggo libri d’arte da dieci giorni. Dal quattro settembre sono diventata adulta, a 34 anni. Arrabbiata, leggo codici, decreti, regolamenti. Le mie conversazioni sono «l’avvocato ha detto» e «nella sentenza ho letto che...». Studiare le leggi e vedere la fragilità con cui queste vengono manipolate a vantaggio di chi più sa maneggiarle fa sentire arrabbiati, impotenti.

Vale davvero la pena spendere 2.000 euro di risparmi per un avvocato? È questo l’unico modo per rendersi umani e visibili e far sentire la propria voce?

Sono sempre stata convinta del valore della lotta. Lottare per i propri diritti, lottare per capire come funzionano le cose. Lottare contro l’indifferenza, insegnare la disciplina a se stessi, lottare, soprattutto, contro la propria tendenza a dubitare sempre. E ad avere paura. Ma lottare ha senso se ci si proietta nel futuro.

Che futuro è quello della scuola, oggi?

Dopo sei anni di lavoro continuo in questa scrivania si aggiunge la Cartella Ricorsi. Nell’ultima graduatoria ho perso tre posizioni per i Tfa e i percorsi abilitanti. Dopo sei anni di lavoro continuo, serio, sereno e bello lo Stato mi ha mostrato uno stralcio di futuro: fra due anni non avrò perso tre ma 25 posizioni, superata da titoli di riserva per servizio civile, abilitazioni conseguite a 3.500 euro, inserimenti a pettine. Dovrò comprare ancora molti corsi (l’ultimo, un pacchetto da 850 euro, mi consentirà di aggiungere quattro punti in graduatoria), attendere gli esiti di un ricorso legale che non posso permettermi.

Mi chiedo se sia davvero questa la lotta in cui credo? Vedere ragazzi che abbandonano la scuola, diventano hikikomori, si perdono. Non poter far nulla, ma anche sentirsi nulla. Essere un numero. Sentirsi muti. Ma essere adulti significa scegliere: vale la pena questa lotta? La miseria umana, la rabbia, il vuoto e l'infelicità sono una responsabilità che ognuno ha verso se stesso. Bisogna scegliere e dirsi, poi: «L'ho scelto». Così ho comprato un manuale per istruttore amministrativo.

Farò ricorso. Se lo perderò lascerò questo lavoro. La scuola sta morendo, nell'indifferenza di tutti.


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