Quando inizio a ripensare a Genova, alla fine del 2019, la prima cosa che annoto sul quaderno è un nome. È il nome che associo a un ricordo vecchio di vent’anni: il volto di un ragazzo, circondato da altri ragazze e ragazzi, mentre si avvicina all’entrata della mia facoltà. Non ricordo se fosse fine luglio o settembre. Solo che era “dopo Genova” e che a quel nome ne associo un altro: Bolzaneto.
Inizia così il diario che non scrissi vent’anni fa, quando a Genova, in quelle giornate di luglio che segnarono il "movimento dei movimenti" e la vita di migliaia di persone, io, all’ultimo minuto, scelsi di non andare. Scriverlo ora è provare a rispondere a domande rimaste appese per tanto tempo. Che è successo dopo? Che memoria è rimasta? E avrò il diritto di parlarne vent’anni dopo, io che a Genova non c’ero? E di farlo in prima persona, cosa che ho sempre evitato nel mio lavoro?
La mappa interattiva: dentro la zona rossa di Genova
Cercare di dare un senso a quel frammento di ricordo riempirà il diario di nomi propri, al di là dei volti noti delle cronache di quei giorni, quando mentre gli 8 Grandi, come si diceva allora, si riunivano a Palazzo Ducale, le strade, le caserme e una scuola diventarono lo scenario di quella che Amnesty International definì «la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale». È un diario che raccoglie le storie di chi a Genova c’era, di chi era troppo piccolo per esserci e di chi non era nemmeno nato.
Ilaria
Quel ragazzo che io ricordo si chiamava Valerio. Ho cercato il suo nome nei verbali dei processi, tra gli amici degli amici della facoltà... E cercando Valerio ho conosciuto Ilaria Bracaglia, un’antropologa che da anni studia quello che è successo a Genova, la trasmissione della memoria e dell’esperienza di chi ha lavorato e lottato per portare luce e avere giustizia su quello che successe in quel luglio del 2001.
La prima volta che ci siamo incontrate mi colpì la precisione con cui, su un foglietto stropicciato, disegnava mappe e tracciava percorsi. Quando ho deciso di tornare dove non ero voluta andare vent’anni fa, non ho avuto dubbi: Ilaria doveva venire con me. Ilaria che nel 2001 aveva 12 anni e, come me, a Genova non c’era.
Perché una ragazzina di seconda media passò tutta l’estate del 2001 pensando a Genova? In quell’anno scolastico nella classe di Ilaria avevano realizzato un programma extracurriculare sul commercio equo e solidale, concluso con la visita a una bottega, dove poi lei chiese di fare volontariato. «Lì gli altri parlavano di questo luglio. Chiaramente non mi coinvolgevano perché erano tutti parecchio adulti però c’era questo vociare su Genova».
Per quell’estate la professoressa di italiano aveva assegnato come compito alla classe di Ilaria la stesura di un giornale da consegnare a settembre e lei aveva scelto di parlare del G8. Il 20 luglio andó controvoglia al mare con i suoi. «Quando siamo tornati, i miei si sono messi a preparare la cena e io ho acceso subito la tv per aggiornarmi su quello che avrei dovuto scrivere: la prima immagine che ho visto era il corpo di un ragazzo coperto da un lenzuolo bianco. È stato sconvolgente. È stato un confronto con tutta una serie di aspetti che non mi erano stati presentati.
Chi ci faceva le presentazioni in classe, Amnesty, il commercio equo, le faceva a misure di scuola media, era tutto molto giocato, creativo, bello. Pensare che tutto quello che per me era luminoso potesse essere luttuoso, violento ha acceso tanti perché...». Sono vent’anni che Ilaria cerca le risposte a quei perché. Nel farlo, insieme a tante altre persone, ha incontrato anche Valerio.
Escalation
Vado con Ilaria a Genova a metà maggio, appena la pandemia lo permette. In treno sfoglio Il libro bianco di Genova, la rivista che il Genoa Social Forum fece uscire un anno dopo. In una foto piccola, nelle prime pagine, ci sono dei ragazzi che chiacchierano. Uno lo riconosco. È Roberto, l’amico con cui sarei dovuta andare a Genova: «Mi ricordo che andai alla stazione a prendere i biglietti e che tu eri indecisa e poi mi dicesti: non prenderlo per me, non vengo». Mi era pesata quella decisione. Ne avevamo parlato per mesi di Genova. Io non facevo parte di nessun gruppo ma li attraversavo un po’ tutti, con gli amici sparsi in tutta la nebulosa di realtà che confluirono nel Genoa Social Forum.
«L’arco di Genova per me comincia a marzo con le occupazioni delle università – dice Roberto – Quelli più politicizzati facevano vedere i video, che c’era stato Göteborg, poi Napoli e c’era stata tutta una escalation del movimento no global e una escalation di risposta delle forze di polizia, dell’apparato repressivo, che era stato sempre più duro contro le proteste, che a loro volta a dire la verità erano diventate anche più dure». L’escalation non era solo nella piazza. Sorridevamo leggendo i titoli dei giornali. Per me sorridere serviva a esorcizzare la paura e anche la rabbia mentre vedevo che si montava un circo. Con le informative dei servizi che parlavano dei rischi di armi non convenzionali, i palloncini di sangue infetto, i lanci di lamette nascoste nella frutta.
E poi la notizia che il governo italiano aveva comprato 200 body bag, i sacchi di plastica per i morti. Fu una specie di delirio, come dice Roberto: «Questa cosa montó, non so se una previsione creatrice o ad arte, non lo so, pero per mesi fu bububum bububum...». Nella mia testa pure risuonava quel bububum. Ne parlai con un professore di un corso di geopolitica, che ai miei dubbi rispose più o meno così: «Vai e partecipi al teatro. Vi massacreranno di botte, la vostra testa di ragazzi egotici imploderà e perderai la capacità di analizzare le cose lucidamente».
Non so dire se avesse ragione lui, se non andare mi abbia permesso poi di vedere le cose con più chiarezza. So che un certo periodo è stato consolatorio pensarlo. E so che il giorno dopo chiamai Roberto e dissi che a Genova non andavo più, portandomi addosso per molto tempo un senso di inadeguatezza che è lo stesso con cui scrivo oggi.
Valerio
Il giorno dopo essere arrivate a Genova ripercorro con Ilaria gli scenari di quelle giornate. Attraversiamo via Tolemaide, imbocchiamo via Caffa e arriviamo a piazza Alimonda. Sul cippo nel triangolo di giardino che c’è al centro della piazza la scritta è sempre la stessa: Carlo Giuliani Ragazzo, il nome con cui, come scriveva anni fa Lorenzo Guadagnucci, molti di noi hanno conosciuto piazza Alimonda. Mi fermo insieme a Ilaria che mi spiega i dettagli di una piazza che non riconosco.
Una piazza che ho visto mille volte, in fotografie e filmati... Quello che nella mia testa era un muro è l’angolo tra via Caffa e piazza Alimonda. È qui che vent’anni fa si fermò il defender dei carabinieri da dove partirono i colpi che uccisero Carlo Giuliani. L’effetto di schiacciamento che mi fa ricordare un muro è quello del teleobiettivo con cui fu scattata la famosa foto di Reuters in cui Carlo Giuliani sostiene un estintore e sembra attaccato al veicolo.
Io che ricordo quasi tutto con ossessivo dettaglio, di quel 20 di luglio conservo immagini sbiadite però so che quando arrivò la notizia della morte di un ragazzo, immediatamente pensai a Roberto. «Perché dovevo essere io?», mi chiede lui ora? Perché per come andarono le cose a Genova in quei giorni a morire poteva essere stato uno qualsiasi di noi, come uno qualsiasi di noi sarebbe potuto finire alla Diaz o a Bolzaneto, come successe a Valerio.
Finire a Bolzaneto
Il Valerio che io ricordavo, e che ho ritrovato grazie a Ilaria che lo aveva intervistato per la sua tesi, si chiama Valerio Callieri ed è uno scrittore al suo secondo romanzo. L’immagine che mi era rimasta in testa era quella di una mattina di settembre, quando Valerio tornò nella facoltà di Sociologia, a Roma, in via Salaria, 113. Il luogo che associavo al suo nome è il posto in cui Valerio finì il 21 luglio di vent’anni fa: Bolzaneto.
Quel giorno, dopo quello che era successo il 20, Valerio aveva deciso di restare al campeggio e di non andare alla manifestazione. «Al cancello arrivano furgoni e volanti della polizia. Mi avvicino per capire che succede. La polizia entra e tiro fuori subito il cellulare e chiamo Giulio, un mio amico che stava a Radio Gap». Giulio Piantadosi nel 2001 era studente al Dams a Bologna e collaborava con Radio K Centrale, una delle otto emittenti che quell’estate decisero di unirsi per raccontare quelle giornate di Genova con una redazione comune, Radio GAP. Quando Valerio mi parla di Giulio accade una di quelle cose che ti ricordano che le nostre vite sono piene di intrecci.
Giulio oggi fa il giornalista e io, molto prima di sapere di Valerio, l’avevo conosciuto a Madrid, la città in cui entrambi viviamo. Siamo io e Giulio due rappresentanti di quella parte della mia generazione abbagliata dalla Spagna quando mentre Zapatero approvava il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’Italia annaspava nel berlusconismo avanzato. Giulio ricorda bene quella telefonata con Valerio: «Io gli dico di chiamare subito gli avvocati. Poi a un certo punto la conversazione si interrompe e per un giorno e mezzo non so più niente di lui».
Valerio finisce in quella spirale assurda che si ripeterà molte volte in quei giorni, in cui la regola sembra quella di pescare nel mucchio: «Un poliziotto mi vede e si incazza tantissimo perché sto col telefono. E dopo un po’ ci mettono in fila e vanno un po’ a caso, tu tu e tu venite». La prima cosa che Valerio riceve a Bolzaneto è uno schiaffo in faccia per aver guardato un agente che lo porta in una stanza e continua con calci e cazzotti. «In cella siamo costretti a stare con le mani appoggiate al muro sopra la testa, in piedi per tutto il tempo. Ogni tanto qualcuno entra e ci dà qualche cazzotto. Quasi sempre c’è qualcuno da fuori che lancia insulti: sei na zecca, tu madre è na mignotta, io ammazzo tu madre. Poi le canzoncine: 1-2-3, viva Pinochet, 4-5-6 a morte gli ebrei. In altre celle costringevano le persone a gridare “viva il duce”. Arrivavano urla disumane, cose che poi ho scoperto dopo, non sapevo quello che era successo alla Diaz, non sapevo che a una persona avevano divaricato le mani fino all’osso».
Nella caserma di Bolzaneto passarono almeno 240 fermati ma c’è chi dice che furono molti di più, «alcuni finiti lì per sbaglio», come dichiaró giorni dopo un ispettore della polizia penitenziaria in una intervista.
Nel primo romanzo di Valerio, Teorema dell’incompletezza, Genova c’è ma sono dovuti passare vent’anni prima che potesse scrivere quel pezzo della sua storia in quelle giornate. Con il pestaggio a notte fonda di un suo compagno di cella, un signore disabile, con una gamba artificiale, che dopo ore in piedi non ce la fa più e si siede. «Entrano questi individui grossi, che indossavano divise della polizia penitenziaria, in seguito ho capito che erano i Gom, e lo massacrano. Faccio una stima di 2-3 minuti ma è stato un tempo interminabile. Ricordo il silenzio e i colpi, le manganellate, i calci. Lui sta giù per terra sotto i calci, con i colpi dati sulla gamba artificiale, sulla plastica, sul ferro. Io riesco un po’ a girarmi e intravedo questa cosa e tremo e mi tremano le mani, però non faccio un cazzo, non riesco a muovermi...».
Mentre parla penso che lì ci potevo essere io. Pescata nel mucchio, a caso. «C’è qualcosa di innominabile. Non so come chiamare la violenza su una persona ferma, arrestata. È un po’ un abisso. Quando ho provato a parlarne molte persone dicevano che questo è il fascismo. Ma non so, è come se fosse qualcosa che non copre completamente quello che successe là e che succede in maniera addirittura peggiore, immagino, nelle nostre prigioni quando non ci sono testimoni politici o che hanno possibilità di parlare con giornalisti o avere un processo e essere creduti».
Ci sono persone che di quello che successe a Genova non hanno voluto più parlare e non hanno voluto denunciare. Ci sono le vittime che iniziano a autoincolparsi, perché nel fondo erano in molti a pensare che se stavi a casa non ti succedeva niente... «Algo habrás hecho», si dice in Spagna. Qualcosa avrai fatto. Un paradigma semplice che è consolatorio davanti ai cortocircuiti del monopolio della violenza dello Stato e che per anni è stato usato per intralciare la giustizia. Quella giustizia che è il primo, anche se non unico, filo di sutura per iniziare a chiudere una ferita.
Chabier
In quella stessa spirale cadde in quei giorni Chabier Nogueras. L’ho sentito per la prima volta dieci anni fa, per un pezzo che stavo preparando per il quotidiano spagnolo El País nel decennale del G8 di Genova. Ci sentimmo per telefono.
Quando mi sono messa a scrivere questo diario, ho pensato di andarlo a trovare. Conservavo solo un contatto: il numero di una librería, “La Pantera Rossa” di Saragozza, che Chabier aveva aperto insieme a alcuni amici pochi mesi prima di quella nostra telefonata. «Una parte del risarcimento l’ho investito nella libreria. Abbiamo pensato di trasformare le mazzate che ci avevano dato in qualcosa di socialmente utile». Il risarcimento è quello che ha ricevuto per essere stato, la notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001, una delle persone brutalmente picchiate nell’assalto di centinaia di poliziotti e carabinieri alla Scuola Diaz.
Chabier aveva 35 anni ed era un attivista veterano. Il suo trentesimo compleanno lo aveva passato in carcere per insumisión, insubordinazione. Faceva parte degli Insumisos, un movimento di disobbedienza civile che portò all’abolizione in Spagna del servizio di leva obbligatorio. Dopo essere stato alle proteste a Praga a dicembre del 2000, e a Barcellona a fine giugno del 2001, il G8 a Genova era l’appuntamento successivo. «Quando siamo arrivati è iniziata una via crucis, la situazione si è iniziata a riscaldare. Ma ci sorprese quello che successe lì, perché non pensavamo che si potesse arrivare a quel livello di criminalità».
Il 20 luglio Chabier era a Piazza Manin e vide la carica brutale contro i manifestanti con le mani alzate e dipinte di bianco. In quella piazza si trovavano organizzazioni come Legambiente, la Marcia delle donne e le associazioni della Rete Lilliput, ispirata, tra gli altri, da padre Alex Zanotelli. La polizia arrestò lì due ragazzi spagnoli con l’accusa, che si dimostrò falsa, di aver lanciato una molotov e aver attaccato gli agenti con una sbarra di ferro. Erano amici di Chabier.
Il giorno dopo, la sera del 21, dopo una riunione con il resto del gruppo nel Media Center del Genoa Social Forum, Chabier e un altro ragazzo decisero di restare in attesa di avere notizie dei due arrestati. Era sera e scelsero di rimanere a dormire nell’edificio di fronte al Media Center, nella palestra della Scuola Diaz, uno dei locali che il Comune aveva autorizzato per l’accoglienza. «Ci era sembrato il posto più sicuro, il che si è rivelato un tragico errore». Da quella palestra Chabier uscirà su una barella: «Mentre entravo nell’ambulanza qualcuno del movimento che era lì mi chiese il nome e il cognome e in quel momento pensai a storie che avevo sentito delle dittature sudamericane, quando la gente gridava il proprio nome per far sapere che stava finendo nelle mani della polizia».
Ritorno alla Diaz
Torno alla Diaz che in realtà si chiama e si chiamava già allora Liceo Sandro Pertini ma che nella testa di tutti conserva il nome che è scritto sulla facciata. ”Alcuni mesi dopo ritirarono su il parquet e, mi hanno raccontato, c’erano ancora grumi di sangue sotto”, dice Alessandro Cavanna, preside del liceo dal 2013, mentre mi accompagna nella palestra dove vent’anni fa dormivano le persone che come Chabier pensavano che la Diaz fosse un posto sicuro.
Gli studenti che oggi siedono nelle aule di questo liceo non erano ancora nati nel 2001. Chiedo al preside se è possibile incontrare alcuni di loro. Entriamo in una quinta. Quando domando se qualcuno conosce che cosa è successo in quella scuola vent’anni fa, solo uno lo sa ed è lo stesso che risponderà quando chiederò chi è Carlo Giuliani...
Nessuno tra i ragazzi di questa quinta del Liceo Pertini risponde quando chiedo se sanno qualcosa del movimento no global, o come io ho sempre preferito chiamarlo, il movimento altermondista. Qualcuno dice che ha sentito parlare dei black block, come di un gruppo vestito di nero che usava la violenza. Nessuno ha sentito quello slogan "un altro mondo è possibile" che risuonò vent’anni fa nelle strade della città prima che la memoria fosse occupata dal ricordo delle violenze e degli abusi.
Dopo Genova
«Io avevo 30 anni. Ne sono uscito psicologicamente segnato, è stato uno shock; politicamente motivato perché poi quando sei attivista comunque pensi che si debba andare avanti. Però se a quei tempi sono rimasto segnato io, posso immaginare tutte le persone che sono andata per la prima volta o hanno portato i figli». Alberto Zoratti era uno dei portavoce del Genoa Social Forum e della Rete Lilliput. Lo incontro a Pisa, di ritorno da Genova. «Quello è stato secondo me un effetto, anche voluto, dell’opportunismo che c’è stato nella gestione di piazza a Genova: spaventare le persone perché un movimento che stava diventando culturalmente egemonico, almeno dal punto di vista degli argomenti di cui trattare, era oggettivamente un rischio.
C’era la necessità di trovare un momento simbolico per dimostrare che l’asimmetria di potere c’era. Probabilmente nelle intenzioni iniziali non c’era la mattanza che c’è stata. Perché poi alla fine non ne sono usciti bene. Che Genova sia una macchia nera della Repubblica italiana e non soltanto lo sanno tutti. Però una parte dell’obiettivo è stato raggiunto.
Poi c’è stata Firenze, che è stata una grandissima cosa...». Io che a Genova non c’ero stata, andai a Firenze, al Forum sociale europeo a novembre del 2002. Mentre sfilava il corteo di chiusura nemmeno si vedevano i poliziotti in strada. Per me era come cercare di rimediare alla mia assenza di un anno prima, cercare un cerotto da mettere su una ferita. C’è però chi a una manifestazione non c’è più tornato e nel frattempo l’11 settembre aveva cambiato la cornice di qualsiasi dibattito.
Quel movimento fu però capace mesi dopo di ritrovarsi nelle immense manifestazioni contro la guerra in Iraq, come ricorda Zoratti: «È vero che il movimento nel 2003 un po’ si arenò ma i movimenti sociali hanno cicli storici: iniziano, hanno un picco, poi un plateau e poi scendono. Quando scendono non scompaiono, diventano carsici, si trasformano. Dopo il 2003 il movimento si trasformò in tante cose. Se siamo arrivati al referendum del 2011 sull’acqua e sul nucleare è perché ci sono delle reti che ci hanno lavorato. Poi c’è un’altra faccia della medaglia che è stata l’incapacità, non al 100 per cento però in buona parte sì, dei movimenti sociali di fare autocritica su quello che è successo a Genova non soltanto dal punto di vista della tenuta della piazza ma anche della capacità di saper tenere in alto gli argomenti».
Nel 2003 Alberto fu tra i fondatori di Fairwatch, un’associazione che da allora si è dedicata all’analisi dei trattati di commercio internazionale e degli accordi sui cambiamenti climatici. Nell’indirizzo di posta elettronica che usavo all’epoca conservo decine di comunicati che portavano la sua firma o quella di Monica di Sisto, la vicepresidente dell’associazione. Per anni nel dopo-Genova ricevere quelle mail o le newsletter sulle campagne per l’acqua pubblica o i beni comuni è stata la traccia di quel fiume carsico. Quando nel 2011 scrissi il pezzo per El País, il titolo fu “Non cambiò il mondo, cambiarono le proteste”. Ne riparlo con Monica: «Qui è mancata una classe politica. Questo è il vero buco. Gli indignados sono raccolti da Podemos, quel pezzo lì da noi non è stato raccolto da nessuno. E quindi siamo stati costretti a una metamorfosi, siamo diventati avvocati, lobbisti, negoziatori, scrittori, divulgatori, abbiamo un po’ assunto questo ruolo vicario della politica».
La nuova generazione
Dopo Genova, c’era stata un’altra manifestazione a cui avevo partecipato. Marzo 2002: tre milioni di persone inondarono il centro di Roma contro la modifica dell’articolo 18. Ci ho ripensato dopo l’incontro con i ragazzi della Scuola Diaz. Quando ho chiesto che cosa li preoccupasse alla fine del liceo si è alzato un coro: il lavoro.
Molti di quelli che come me avevano vent’anni andarono a quella manifestazione del 2002 mentre attorno a noi cresceva una selva di contratti precari che sarebbe diventata la realtà del mercato del lavoro per buona parte della mia generazione e per quelle che vennero dopo. E io, che non amo parlare in termini di vinti e vincitori, se penso a una sconfitta di quella stagione penso a questo.
Il riflesso di quella sconfitta mi arriva dalla risposta unanime di quei ragazzi. Ma anche da Adriana, una studentessa liceale di 19 anni che mi spiega che vuole iscriversi a Giurisprudenza. Adriana è nata nel 2002 e la conosco da sempre perché è mia cugina.
Vive a Catanzaro, la città in cui anche io ho fatto il liceo. Mentre riempio le pagine di questo diario mi sembra che se c’è un filo che per me unisce quell’estate di vent’anni fa a oggi è lei. Adriana che sogna di fare l’avvocato del lavoro e che la sua prima esperienza di attivismo la sta facendo nei Fridays for Future, il movimento contro il cambiamento climatico: «Quando ci riuniamo non parliamo solo di clima ma anche di lavoro, di diritto alla salute... Ci siamo resi conto, soprattutto in questo periodo, che tutto è collegato».
Ho iniziato a interessarmi ai Fridays alla fine del 2018 quando proposi allora direttrice de El País di intervistare una ragazza che in Svezia da qualche mese faceva uno sciopero scolastico per il clima tutti i venerdì. L’8 marzo del 2019 andai a Stoccolma per intervistare Greta Thunberg per il giornale.
Non tutti quelli che mi hanno aiutato a scrivere questo diario sarebbero d’accordo, ma mi sembra che il movimento per il clima sia il primo che stia recuperando le caratteristiche che resero importante il “movimento dei movimenti” fino a Genova: essere globale, trasversale e inquadrare problemi diversi in una stessa cornice.
Come vent’anni fa ma senza sentire il peso di quello che accadde vent’anni fa. «Molti di loro non la conoscono quella storia, gliela stiamo raccontando – commenta Monica –. Con grande forza hanno cominciato a porre problemi che preoccupano il loro futuro. In maniera autonoma. Mentre noi abbiamo dato retta ai più grandi, siamo venuti su sull’impronta dei grandi coooperanti, dei più grandi che facevano i pacifisti, loro hanno avuto un buco a un certo punto. E siamo molto rispettosi dei loro percorsi».
Prima di chiudere il diario, chiedo a Adriana di incontrare alcuni ragazzi del suo gruppo dei Fridays. Avrei potuto scegliere i rappresentanti di una grande città, ma mi sembrava significativo parlare con loro, a Catanzaro. L’ultima pagina la lascio scrivere a uno di loro, Andrea. Non è molto diversa da quella che qualcuno di noi avrebbe potuto scrivere vent’anni fa: «La nostra generazione non è così terribile come si dice.
Se una parte, la maggior parte se vogliamo, è disinteressata a certe cose è colpa degli adulti, perché credo che ci sia una totale mancanza di volontà di capire che cosa pensano i giovani e anche una totale mancanza di volontà di fare in modo che si interessino all’attivismo. Poi gli stessi che provocano questo danno se ne lamentano. Per qualcuno andiamo bene così oppure non andiamo bene così va bene lo stesso». Forse come generazione non abbiamo un testimone da lasciare ma siamo ancora in tempo per ascoltare.
Mariangela Paone è una reporter specializzata in informazione internazionale. Questo testo è un adattamento del podcast Io che a Genova non c’ero disponibile fra i podcast Apple, Spotify, Google e tutte le altre principali piattaforme.
© Riproduzione riservata