- Domenica 3 aprile gli ungheresi scelgono se mantenere Viktor Orbán alla guida del paese oppure puntare sull’alternativa, e scegliere Péter Márki-Zay. Per la prima volta a sfidare l’attuale premier c’è un fronte di opposizione unito.
- Viktor Orbán è diventato sempre più il grimaldello di Vladimir Putin nell’Unione europea, e ha aperto anche a Pechino, mentre il suo contendente è saldamente ancorato a Washington oltre che a Bruxelles. In queste elezioni c’è in gioco una visione di Europa e del mondo, oltre che dell’Ungheria.
- Dalla sua parte, lo sfidante ha uno stile populista e un passato da elettore di Fidesz che può piacere agli orbaniani delusi. Ma l’attuale premier ha un intero sistema orientato a suo favore. Guida a un voto cruciale.
Domenica 3 aprile gli ungheresi scelgono se mantenere Viktor Orbán alla guida del paese oppure puntare sull’alternativa, e scegliere Péter Márki-Zay. Le urne chiudono alle 19 e bisogna eleggere 199 parlamentari.
Una sfida inedita
Per la prima volta a sfidare l’attuale premier c’è un fronte di opposizione unito. Orbán detiene il potere ininterrottamente dal 2010, e già prima era stato premier dal 1998 al 2002.
Alle precedenti elezioni parlamentari, che si sono tenute nel 2018, il suo partito, Fidesz, alleato con il partito popolare cristiano democratico (KDNP), ha conquistato 133 dei 199 seggi, assicurandosi così una maggioranza di due terzi.
In queste elezioni, sei partiti di opposizione di orientamento composito – Jobbik, Coalizione democratica, Dialogo, Momentum, i verdi di LMP e il partito socialista – hanno deciso di sfidare Orbán compatti. L’idea di una opposizione unita, capace così di contendere a Fidesz il suo strapotere, era stata perorata già anni fa da intellettuali come Agnes Heller.
Finora è stata messa in pratica solo a livello locale, e con successo. Proprio l’attuale sfidante premier, Péter Márki-Zay, nel 2018 ha strappato il governo di Hódmezővásárhely, la sua cittadina natale nel sudest, a Fidesz, di cui era considerata roccaforte, proprio facendo convergere su di sé l’intera opposizione. L’anno seguente, la strategia è stata replicata con successo, e con tanto di primarie cittadine(un altro inedito per l’Ungheria), da Gergely Karácsony, che è diventato così il sindaco di Budapest.
Márki-Zay contro Orbán
Viktor Orbán comincia la sua storia politica da liberale; nel 1989 è in piazza degli Eroi a invocare l’uscita delle truppe sovietiche dal paese. Oggi, è il simbolo conclamato della «democrazia illiberale», che lui stesso teorizza e sistematizza, ad esempio in un celebre discorso del luglio 2014. Anche per questo, il premier ungherese è un simbolo per gli ultraconservatori sia europei – compresa la destra italiana di Lega e Fratelli d’Italia – che statunitensi, che fanno rete e convergono su Budapest.
Péter Márki-Zay ha vinto a ottobre le primarie dell’opposizione con il 57 per cento. Pochi avevano scommesso su di lui, il leader del movimento “Ungheria di tutti".
E invece ha sbaragliato i rivali proprio sfruttando la sua veste di outsider, uno stile populista e a tratti sfrontato: è carismatico, libero dai pesi della vecchia politica e dei suoi politicanti, usa gli argomenti della lotta alla corruzione e della speranza.
Dal punto di vista tattico, il suo punto forte, nel tentativo di attirare elettori orbaniani pentiti, è proprio che Márki-Zay è un ex elettore di Fidesz. Ha una figura di conservatore, di centrodestra, è cattolico e padre di sette figli. Capace di parlare anche all’Ungheria delle cittadine di campagna, e non solo agli elettori della capitale che già guardano all’opposizione con interesse, ha speso non a caso la gran parte della campagna elettorale girando i piccoli centri rurali.
Est contro Ovest
Viktor Orbán è diventato sempre più il grimaldello di Vladimir Putin nell’Unione europea, e ha aperto anche a Pechino, mentre il suo contendente è saldamente ancorato a Washington oltre che a Bruxelles. La sua biografia lo mostra bene: Márki-Zay, che ha studiato economia, marketing, ingegneria, ha un dottorato e parla diverse lingue, a 32 anni parte per il Canada e inizia la carriera vendendo porta a porta; due anni e mezzo dopo, la corporation CarQuest lo ha voluto negli Stati Uniti.
Intraprendente, con una preferenza per il libero mercato, torna dagli Usa raccontando con ammirazione ai connazionali, nel 2009, di come gli americani abbiano reagito alla crisi «tagliando la spesa: non si aspettano aiuti dal governo».
Dal 2019 è chiaro che i legami con gli usa non sono solo di lavoro: a maggio di quell’anno, poco prima che Donald Trump riceva il premier ungherese, lui che all’epoca è sindaco arriva a Washington e rassicura che «l’Ungheria appartiene all’occidente».
L’Europa e la guerra
Lo sfidante del premier è dichiaratamente europeista, e se fosse per lui l’Ungheria dovrebbe entrare anche nell’Eurozona. Il posizionamento filo-occidentale di Márki-Zay era già nitido, e con la guerra è se possibile ancor più netto.
Non vale lo stesso per il premier. Dimenticato il suo passato da giovane liberale che si scagliava contro le truppe sovietiche, Orbán ha stipulato l’alleanza pragmatica con Mosca già prima della sua elezione del 2010. Con l’invasione dell’Ucraina, ha adottato una “strategia doppia”: non si è isolato del tutto dagli alleati europei, e finora non ha messo il veto alle sanzioni; al contempo non consente il transito degli aiuti dall’Ungheria ed evita di attaccare o anche solo di nominare Putin.
In campagna elettorale, Orbán preferisce usare Bruxelles come capro espiatorio; e al suo elettorato, abituato ormai ai suoi rapporti con la Russia, si presenta come «difensore degli interessi nazionali e della pace».
Chi vince in Ue
Anche se i sondaggi recenti registrano un vantaggio dell’attuale premier solo di pochi punti percentuali, la sfida è impari: il partito del premier, Fidesz, può contare su un ecosistema mediatico schiacciato a suo favore e su spese elettorali quasi dieci volte superiori a quelle dei competitor.
Se Márki-Zay dovesse vincere, lo scenario attuale, di un’Ungheria che viola lo stato di diritto e che ammicca a Mosca e Pechino, si potrebbe sparigliare.
Se invece si conferma la situazione attuale, in Europa resta Orbán, che finora ha garantito a Mosca un ruolo destabilizzatore in Ue: il suo sostegno ai piani separatisti di Milorad Dodik in Bosnia ed Erzegovina è uno dei tanti esempi, per non parlare del tentativo orbaniano di fare di Budapest il laboratorio illiberale d’Europa.
C’è di più: questo ruolo di mina vagante può accentuarsi, visto che il premier ungherese è sempre più isolato. Non solo è finita l’era di Angela Merkel, che gli aveva sempre garantito una interlocuzione attenta in Europa, ma negli scorsi mesi e ancor più a guerra iniziata, gli Stati Uniti e la Commissione europea stanno rafforzando i rapporti con la Polonia, mentre marginalizzano l’Ungheria.
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