I segni del pestaggio? «Tanto questo è nero e non si vede niente». «Al detenuto gli si devono dare legnate». E poi: «Facciamoli coricare. Poi quando sono sul letto prendiamoli a secchiate». Non di acqua, ma di «pisciazza mischiata con acqua». E ancora: «Ammazzalo di bastonate, ‘sto pezzo di merda». Così parlavano gli agenti penitenziari della casa circondariale di Trapani nel nuovo capitolo degli ormai tanti casi di violenze e torture nei penitenziari italiani. Sono 46 in totale gli indagati, quasi un quarto di quelli in servizio nella struttura. 11 di loro sono finiti ai domiciliari, sono stati sospesi in 14, mentre per gli altri 21 il gip non ha emesso misure cautelari.

I pestaggi ricostruiti in tre anni di indagini erano sistematici e pianificati: veniva organizzata, come si legge negli atti dell’inchiesta, «la formazione di una squadretta punitiva di poliziotti penitenziari favorevoli all’utilizzo di metodi risolutivi e violenti per la repressione di forme di dissenso da parte dei detenuti». Fuori dagli occhi ingombranti delle telecamere, in sezioni ad hoc del carcere: il Reparto blu, chiamato anche la «palazzina delle torture». Un modus operandi che, secondo il procuratore Gabriele Paci, «non era episodico, bensì una sorta di metodo per garantire ordine». Il tutto con «un intento persecutorio».

C’è un filo rosso che lega i fatti di Trapani con molti altri venuti a galla negli ultimi mesi e negli ultimi anni. Le carceri italiane, spesso veri e propri buchi neri del sistema-giustizia – con un indice di sovraffollamento del 130 per cento, con circa 10 mila detenuti in più, e con 81 suicidi solo nel 2024, l’ultimo il 21 novembre a Poggioreale – diventano in alcune occasioni veri e proprio luoghi di tortura. Dove la «rieducazione del condannato» rimane spesso molto fuori dalle celle.

Santa Maria Capua Vetere

È stata definita un’«orribile mattanza» dallo stesso gip. Pugni, calci, schiaffi, persone nude picchiate con i manganelli, testate con caschi. Quella avvenuta il 6 aprile del 2020 in pieno lockdown, al carcere «Francesco Uccella» di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) è stata una violenza in stile sudamericano raccontata in esclusiva da Domani.

«Li abbattiamo come vitelli», «domate il bestiame», «chiave e piccone». Così parlavano gli agenti penitenziari che quel giorno – erano 283 – hanno partecipato a quel pestaggio di massa. «Premeditato», precisano le carte dell’inchiesta. Il giorno prima, come in altre carceri italiane in quei giorni concitati, c’erano state alcune proteste per chiedere dispositivi di protezione per una pandemia, il Covid, che iniziava a correre velocemente e di cui si sapeva ancora molto poco.

Una caccia al detenuto – quella del giorno dopo – durata 4 ore in cui una trentina di carcerati vengono portati nella sala socialità, fatti inginocchiare e picchiati. Ma anche fatti sfilare in un corridoio e presi a schiaffi. In un frammento di un video c’è un detenuto in sedia a rotelle che viene colpito dal manganello di un agente. Alla fine della mattanza sono state chiuse in isolamento 14 persone. Tra queste c’era Hakimi Lamine, che è morto ingerendo un mix letale di stupefacenti, è morto. Secondo la procura, la vittima non doveva andare in isolamento, e in quei giorni non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia di cui soffriva.

Gli indagati in totale erano 111 (poi diventati 105), le misure cautelari 57. Ad alcuni imputati è stato contestato il reato di «tortura», introdotto nel nostro ordinamento nel 2017 dopo una serie di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo dopo «macelleria messicana» della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, durante il G8 di Genova del 2001. La prima condanna in Italia per questo delitto c’è stata il 15 dicembre del 2021, inflitta per la prima volta un tribunale italiano, quello di Ferrara, nei confronti di un agente.

Il processo per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, iniziato il 7 novembre 2022, è ancora in corso, ma intanto lo scorso luglio è stata revocata la sospensione ad altri sei membri della polizia penitenziaria – ora tornati in servizio – dopo che ad agosto 2023 erano stati reintegrati 22 agenti.

Il Beccaria di Milano

Scene simili al carcere minorile «Cesare Beccaria» di Milano, dove lo scorso 23 aprile sono stati arrestati 13 agenti della penitenziaria su 25 indagati in totale (la metà di quelli in servizio), indagati per lesioni, maltrattamenti e tortura. Anche qui è venuto a galla un «sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazioni», per usare le parole del gip, «un sistema per educare i minori detenuti».

Da carcere modello a esempio di abbandono, il Beccaria è finito negli ultimi mesi al centro delle cronache per le numerose evasioni e per i tanti tentativi di rivolta al proprio interno. Qui per oltre 20 anni non c’è stato un direttore stabile. Lo scorso dicembre Claudio Ferrari aveva interrotto la girandola di nomi, ma a breve l’istituto diventerà sorvegliato speciale, insieme al Nisida di Napoli «sede di incarico superiore», e per guidarlo serviranno almeno dieci anni di anzianità. Quindi ci sarà un ulteriore cambio al vertice.

«Sono arrivati sette agenti, mi hanno messo le manette e hanno cominciato a colpirmi». «Vedevo tutto nero. L’ultima cosa che mi ricordo è che mi sputavano addosso». Le testimonianze delle vittime hanno fatto ricostruire agli inquirenti quello che il gip definisce senza mezzi termini un «sistema per educare i minori detenuti». In un caso, «la più grave» tra le violenze, una spedizione punitiva contro un ragazzo che aveva reagito alle molestie sessuali di una delle guardie penitenziarie.

Il riferimento ai fatti di Ivrea

Tra i passaggi al centro dell’inchiesta sui pestaggi di Trapani c’è un agente che fa uno specifico riferimento a un altro carcere finito negli scorsi anni al centro delle cronache, quello di Ivrea: «Gli si devono dare legnate. I colleghi non si toccano. A Ivrea noi facevano così, appena toccavano un collega… a sminchiarli proprio».

Per le violenze nell’istituto piemontese il processo è ancora in corso. Quattro imputati, nel frattempo, sono usciti dal procedimento penale, e il reato di tortura è stato derubricato a lesioni, ma non c’è ancora una verità giudiziaria di quanto successo tra il 2015 e il 2016.

Le violenze nel carcere «Lo Russo e Cutugno» di Torino

Anche il carcere «Lo Russo e Cutugno» di Torino è finito al centro di episodi di pestaggi contro una quindicina detenuti avvenuti tra il 2017 e il 2019. Il 14 novembre scorso la Corte d’appello del capoluogo piemontese ha assolto tre imputati (l’ex direttore, l’ex comandante della penitenziaria e un agente), ma il processo per gli altri 22 indagati va avanti.

Foggia, Bari, San Gimignano

Qualche mese fa, il 18 marzo del 2024, dieci agenti della polizia penitenziaria sono stati arrestati ai domiciliari con l’accusa di aver partecipato a un violento pestaggio contro due detenuti. Tra i vari reati contestati anche quello di tortura.

Due giorni dopo, il 20 marzo, a Bari cinque agenti Bari sono stati condannati per aver picchiato e umiliato un detenuto psichiatrico dopo che aveva dato fuoco a un materasso. Il 17 febbraio del 2021, invece, dieci membri della penitenziaria del carcere di San Gimignano sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate in concorso.

Le rivolte durante il Covid a Modena

Tra procedimenti conclusi e molti altri ancora in corso (l’associazione Antigone è attualmente parte civile in 5 diversi processi) un grande punto interrogativo avvolge quanto avvenuto durante il Covid, dove le proteste dei detenuti – a partire da quelle a Santa Maria Capua Vetere – hanno infiammato le carceri della penisola.

In quei giorni concitati del marzo del 2020, quando tutta Italia era appena entrata in lockdown, una grande rivolta nel carcere «Sant’Anna» di Modena si è conclusa con nove detenuti morti. Ufficialmente per aver ingerito metadone e altri farmaci rubati dall’infermeria.

Lo scorso settembre il gip, Carolina Clò, non ha accolto la richiesta della procura di archiviare il fascicolo per tortura a carico di 120 agenti della penitenziaria. Le indagini dureranno altri sei mesi e serviranno per chiarire il mancato funzionamento, in quei momenti, di alcuni sistemi di videosorveglianza. Ma anche per studiare meglio i motivi di un incontro tra gli agenti prima della loro convocazione in questura e acquisire ulteriori cartelle cliniche per approfondire le lesioni subite dai detenuti.

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