Che nell’attuale parlamento «la realtà è scadente», come ripete il protagonista dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, è un’evidenza esplicita da tempo. Eppure le reazioni preoccupate della classe politica alla candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica ha reso ancor più manifesto lo sfibramento in cui versa la politica e i partiti, tra pochi giorni chiamati a eleggere il successore di Sergio Mattarella.

Le repliche dei leader alla conferenza prenatalizia nella quale l’ex banchiere ha di fatto dichiarato le ambizioni di assurgere al Colle hanno rimarcato tutti i limiti dei grandi elettori. Non tanto per le legittime incertezze, visto che la pandemia, i miliardi a rischio del Next Generation EU e una maggioranza che ha più teste di un’idra aggiungono complessità a un rebus (la scelta del garante della Costituzione e dell’unità nazionale) già intricato in tempi normali.

Lo sconforto degli osservatori più attenti deriva innanzitutto dal niet secco di alcuni partiti di sinistra e destra, apparsi terrorizzati dall’assunzione di Draghi al Quirinale. E dall’assenza manifesta – a poche settimane dall’inizio delle votazioni - di una pur minima strategia da parte dei vari kingmaker scesi in campo. Prostrazione accresciuta dal fatto che gli strateghi veri o presunti sono stavolta numericamente troppi, assai litigiosi e politicamente deboli. Condizioni che potrebbero portare presto a una confusione che il paese non può permettersi.

«Carlo Azeglio Ciampi è stato eletto grazie alla regia di Walter Veltroni. Giorgio Napolitano con quella di Massimo D’Alema, nel 2013 Pierluigi Bersani ha lanciato il bis del “migliorista”, nel 2015 Matteo Renzi ha incoronato Mattarella. Oggi non esiste nessuno a timone del processo, ed è un rischio enorme se si vuole trovare una soluzione unitaria, necessaria a salvare l’istituzione più importante e la tenuta del governo», spiegano dall’entourage di Mattarella. Dove si dicono preoccupati soprattutto dalla mancanza di una linea di comunicazione diretta tra i leader degli unici due partiti “alfa” della maggioranza, cioè Enrico Letta del Pd e il Matteo Salvini della Lega.

La confusione in Parlamento è tale che nemmeno i bookmaker del sito di scommesse B-win – dove si può puntare anche sulla politica - si sbilanciano: preferiscono quotare le presidenziali francesi di maggio o le elezioni americane del 2024 piuttosto che le chance prossime venture dei vari quirinabili. Per la cronaca, sette anni fa a inizio gennaio erano dati in vantaggio Romani Prodi e Veltroni, mentre Mattarella era in rimonta in terza posizione.

LA SQUADRA DEL BANCHIERE

Nonostante i dubbi e la contrarietà di leader di peso, sono però in molti a credere che Draghi abbia eccellenti possibilità di salire al Colle. E un pezzo della politica e dei palazzi sottotraccia si sta muovendo per centrare l’obiettivo. Il partito che vuole mettere in sicurezza per un settennato il civil servant romano è vasto e trasversale, e si divide in ottimisti («a oggi il professore ha il 60 per cento di possibilità di farcela», azzarda qualcuno) e quelli più accorti. Tra i primi c’è il sottosegretario Roberto Garofoli, mezzo deep state legato alla Banca d’Italia, quella parte dei Consiglieri di Stato che fa riferimento a Filippo Patroni Griffi, il comandante generale dei carabinieri Teo Luzi, che ha da tempo con il premier un rapporto privilegiato. Anche Bruno Tabacci, sottosegretario che comanda una piccola pattuglia del gruppo misto in Parlamento e che fu decisivo per far saltare l’ipotesi del Conte Ter, ripete ai collaboratori che è sicuro che alla fine Draghi vincerà la battaglia.

L’assunto della fazione è semplice: i partiti politici sono oggi deboli e screditati, mentre Draghi, sorta di monumento in vita, è uno degli uomini più potenti d’Europa («il più potente» secondo la classifica annuale dell’autorevole Politico.eu). Improbabile dunque, questo il ragionamento, che le sue ambizioni possano essere davvero frenate. Ancor più da quando Draghi ha fatto intendere indirettamente che per lui questa legislatura deve terminare alla scadenza naturale, e che il governo andrà avanti al di là di chi lo guiderà dopo di lui: un modo per segnalare ai tanti peones spaventati di perdere un anno di stipendio che lui, diventasse presidente della Repubblica, s’ingegnerà per evitare elezioni anticipate.

I supporter ottimisti sono così fiduciosi che già disegnano la squadra che l’ex capo della Bce ha in animo di portare con lui nel grande studio con la celebre scrivania Luigi XV. Il ruolo chiave, è noto, è quello di segretario generale. In pole c’è lo stesso Garofoli, che vanta legami con politici di ogni schieramento, con la potente casta dei consiglieri di stato e con dirigenti apicali dei ministeri più importanti.

Poi Franco Gabrielli, uomo di fiducia del premier che oggi detiene l’autorità delegata ma che molti nel reparto sicurezza sperano resti al suo posto. Infine Elisabetta Belloni, promossa da poco capo del Dis, il dipartimento di Palazzo Chigi che coordina i nostri servizi segreti, è data per favorita alla successione di Ugo Zampetti, attuale braccio destro di Mattarella.

BELLONI IN POLE

La Belloni non è solo una dei pochi collaboratori stretti che dà del “tu” a “Mario”. Entrambi appartenenti al club degli ex allievi del Liceo Massimo (hanno avuto gli stessi professori), l’ambasciatrice ha già avuto per un lustro l’identico ruolo al ministero degli Esteri, dove ha creato una formidabile rete diplomatica con propaggini in mezzo mondo, compresi paesi decisivi del Mediterraneo come Egitto, Libia, Turchia.

«Al di là dei ministri che si sono succeduti negli ultimi cinque anni, è stata lei il vero capo della Farnesina», dice un ambasciatore che è convinto che Luigi Di Maio ancora oggi non tocchi palla senza confrontarsi anche con lei. Atlantista doc, conoscitrice profonda della macchina dello stato, ha ottimi rapporti con gli attuali capi dell’intelligence, cioè Giovanni Caravelli (i due si conoscono da quasi vent’anni, dai tempi della guerra in Afghanistan) e il direttore dell’Aisi Mario Parente, che Draghi ha deciso di prorogare per un altro anno, norma che permetterà anche al comandante generale della Finanza Giuseppe Zafarana - in scadenza a maggio - di proseguire il suo lavoro.

«Qualcuno dice che la Belloni non può fare il segretario generale perché proviene dalla carriera diplomatica», sostengono dall’entourage di Gianni Letta, che stima la diplomatica e che pare preferire la candidatura Draghi a quella del suo capo politico, Silvio Berlusconi. In realtà non c’è alcuna legge che impedisce alla Belloni di seguire il premier in un eventuale passaggio al Colle. «In più c’è il precedente storico di Sergio Berlinguer. Il cugino di Enrico era un diplomatico di ruolo, e nel 1987 fu promosso segretario dal neo presidente Francesco Cossiga».

Vada come vada, una cosa è certa: fosse eletto presidente Draghi non manterrebbe in carica Zampetti. I rapporti sono inesistenti (circostanza dove pesa anche un’antica rivalità con Garofoli), mentre la sintonia tra lui e Draghi non è mai sbocciata.

Nei palazzi del potere presumono parimenti che l’ex numero uno della Bce, fosse eletto, porterebbe con se alcuni dei suoi consiglieri più stretti. Come l’economista Francesco Giavazzi, che a Palazzo Chigi ha grande influenza sulle società partecipate e su alcune scelte economiche. Poi la portavoce Paola Ansuini, che prenderebbe il posto di Giovanni Grasso. Mentre il capo di gabinetto Antonio Funiciello (l’ex discepolo di Paolo Gentiloni ha avuto di recente importante voce in capitolo anche sulle nomine in Rai: in pratica il nuovo ad Carlo Fuortes parla solo con lui e il premier) potrebbe rimanere al suo posto in caso di un nuovo premier “tecnico” che regga l’attuale maggioranza (o una nuova compagine) fino alle elezioni politiche. I nomi dei tecnocrati sono sempre gli stessi: i più citati sono i ministri Vittorio Colao, Daniele Franco e Marta Cartabia.

GIUDICI E PRETI

La partita per il Colle viene osservata con attenzione anche dai santuari della magistratura. Non solamente perché il capo dello Stato ricopre anche quella di presidente del Consiglio superiore della magistratura, contingenza per la quale l’eventuale investitura di un candidato-pregiudicato come Silvio Berlusconi fa rabbrividire il potere giudiziario.

Ma anche per alcune opportunità che potrebbero aprirsi: a Domani, per esempio, risulta che i vertici del Csm, oggi guidato dal vicepresidente David Ermini, sperano che il nuovo presidente della Repubblica possa chiamare come consigliere giuridico Michele Prestipino, ex procuratore capo di Roma silurato a fine dicembre a causa di un ricorso (accolto) del collega Francesco Lo Voi, che prenderà servizio entro fine mese.

«Prestipino è un galantuomo vittima dei pasticci dell’organo di autogoverno della magistratura», dicono i suoi amici. Il giudice è “demansionato” a semplice aggiunto e potrebbe presto concorrere per la guida delle procure di Palermo o Napoli, ma fosse chiamato al Quirinale avrebbe un ruolo istituzionale di alto profilo, che forse lo ripagherebbe dalle amarezze causategli dalle ripercussioni dell’affaire Palamara.

All’estero e in Europa, Draghi ha già spiegato ai suoi pari grado preoccupati dalle sorti del suo governo che al Colle avrebbe un’agibilità politica di garanzia di sette anni, mentre il premierato è certezza solo per pochi mesi. Anche alcune fonti del Vaticano che riferiscono a Domani che la soluzione migliore, per un pezzo della curia, è che il banchiere cambi lavoro: un eventuale endorsement della Cei e della Santa Sede conta poco o nulla rispetto al passato, ma la benevolenza delle alte sfere curiali per il premier è accertata.

Molto stimato dal segretario di Stato Pietro Parolin, Draghi è allievo dei gesuiti, e papa Francesco - primo pontefice gesuita della storia - nel novembre 2020 ha chiamato il banchiere come membro della Pontificia accademia di scienze sociali. Anche un consigliere privilegiato del papa come Antonio Spataro, direttore della rivista dei gesuiti “Civiltà Cattolica”, è tra i draghiani più sfegatati. «Anche perché – ricordano dal Massimo – ha insegnato per anni da noi: il senso di appartenenza alla nostra comunità è molto forte».

LA LOBBY DI MARIO

Nella lobby pro Draghi, però, ci sono esponenti autorevoli che temono che la maggioranza dei grandi elettori possa preferirgli alla fine personalità alternative. Non tanto – come fanno trapelare gli spin dei comunicatori - perché spaventati che nessuno altro premier possa garantire l’unità della maggioranza multicolore. Ma perché in appena un anno di comando Draghi ha reso palese ai partiti (condannati prima a una convivenza forzata, poi a una sostanziale irrilevanza davanti a molte decisioni prese in autonomia da Palazzo Chigi) come l’ex banchiere sia un uomo di potere accorto, decisionista. E assai refrattario alle mediazioni.

Educazione individualista e libertaria tipica dei dettami del fondatore della Compagnia di Gesù Ignazio di Loyola, i leader di destra e sinistra temono dunque che Draghi possa limitare la loro azione anche dal Colle. Dove prima Giorgio Napolitano poi Sergio Mattarella hanno dimostrato – con stili diversi - come il potere di supplenza dell’alto incarico può andare ben oltre una banale moral suasion.

Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, è nel centrodestra l’uomo su cui il premier conta di più. Per convincere il “partito del Pil” del lombardo-veneto che auspica che Draghi resti premier, il ministro dello Sviluppo economico s’è spinto incautamente a dichiarare che un trasloco del banchiere al Quirinale non cambierebbe nulla, visto che l’amico «guiderebbe da lì il convoglio», e che si instaurerebbe «un semi-presidenzialismo» de facto.

Giorgetti non è l’unico a pensare che Draghi al Quirinale sia l’unica soluzione (nonostante le grida dall’allarme di autorevoli costituzionalisti preoccupati dal corretto bilanciamento dei poteri) per preservare contemporaneamente una delle poche riserve della Repubblica rimaste in giro sia la stabilità del paese. Anche il grillino Luigi Di Maio – che ha il controllo di una parte consistente del gruppo del Movimento Cinque Stelle alla Camera, assai meno al Senato - crede che la soluzione Draghi sia la migliore tra quelle ad oggi sul tavolo. Sul punto, lui e Giorgetti hanno un’asse di ferro segreto.

Ma a Palazzo Chigi contano anche su un appoggio a sorpresa della sovranista Giorgia Meloni. «Attraverso canali riservati lei ha spiegato a Zampetti che il Mattarella Bis, su cui in molti del Pd sperano ancora, è ipotesi che lei non voterà mai. Giorgia inoltre crede che Berlusconi non abbia i numeri per essere eletto. L’incontro con Letizia Moratti? Non è una sua candidata, è stato solo un diversivo» racconta un autorevole esponente di Fratelli d’italia della corrente capitanata da Francesco Lollobrigida, deputato e cognato della Meloni.

Per l’ex fascista che sogna la premiership nel 2023 avere Draghi al Quirinale avrebbe due vantaggi. In primis terremotare la maggioranza, e provare così ad avvicinarsi alle elezioni anticipate. Poi sfruttare l’appoggio dichiarato al banchiere simbolo dei salotti buoni d’Europa come una nuova “Fiuggi”: se Giancarlo Fini, ex segretario dell’Msi, nella “svolta repubblicana” sancita nel 1995 nella cittadina laziale si propose all’establishment italiano e internazionale come forza politica legittimata a governare, la Meloni votando Draghi presidente spera che la conventio ad excludendum nei confronti del suo movimento di ultra destra decada una volta per tutte. E che il nuovo presidente della Repubblica, in caso di vittoria del centrodestra e di Fdi alle prossime Politiche, gli possa conferire l’incarico che Mattarella non diede mai a Salvini.

Gianni Letta, Giorgetti, Di Maio e Meloni sono sponde politiche che i draghiani considerano agibili. Dentro il Pd invece il premier ha il suo alleato più fidato non in Enrico Letta, ma nel titolare della Difesa Lorenzo Guerini: tra i ministri piddini è quello con cui il presidente del Consiglio ha legato di più, sia per indole personale che valori cattolici comuni.

La stima è ricambiata: l’ex assicuratore di Lodi – anche lui grande amico del carabiniere Luzi - controlla un pacchetto di grandi elettori consistente (la sua Base riformista è maggioranza nel gruppo dei democrat in Senato), e in Italia è uno degli interlocutori preferiti dall’amministrazione americana, che crede che Draghi vada blindato subito al Quirinale. Guerini, dicono i maligni, ha anche ambizioni personali: in caso il suo appoggio fosse determinante l’elezione del nuovo capo dello Stato, punterebbe a diventare presidente della Camera alla prossima legislatura.

PUNTI DEBOLI

I draghiani più accorti sanno che – se pur gli alleati sono tanti - il cammino verso il Colle è comunque irto di ostacoli. Perché le debolezze della campagna sono molte. Alcuni leader preminenti del Pd non sono convinti del progetto, mentre pezzi da novanta come Silvio Berlusconi e Giuseppe Conte sono da tempo al lavoro per farlo definitivamente deragliare.

Altra fragilità indubbia è che l’ex capo della Banca centrale europea è di sicuro un leader accorto, capace di apparecchia le sue mosse con pazienza, ma che – come ha dimostrato nella conferenza stampa in cui si è autocandidato - non è addentro ai riti romani della politica nazionale. Estraneo da sempre ai partiti, non ha sherpa accreditati in Parlamento, il campo dove si gioca l’elezione: Tabacci è un peso piuma, e i capicorrente che tifano per lui si muovono ancora nell’ombra, perché non possono esporsi contro la linea politica dei vari partiti.

«Il nome di Draghi o passa subito entro le prime tre votazioni con una maggioranza molto ampia o la sua partita finisce subito», dicono da Chigi, dove temono che la disorganizzazione in cui versano le forze politiche rischi di bruciare l’ex governatore della Banca d’Italia non solo per la corsa al Quirinale, ma anche per il governo: «Una cosa non deve assolutamente accadere» avvertono fonti vicino al professore di politica monetaria «Se la maggioranza dei leader politici si accordano su Draghi e poi i franchi tiratori dei loro gruppi lo impallinano il Parlamento, il governo cadrebbe all’istante».

Ma il vero scoglio all’elezione per il candidato di gran lunga migliore resta uno soltanto: capire se i partiti sollevandolo al Colle decideranno di ingoiare un calice amaro uscendo nel contempo vivi dalla loro impasse o se – per paura di autocommissariandosi da soli per i prossimi sette anni – sceglieranno una figura meno autorevole del premier, ma che gli permetta di gestire il potere con la maggiore autonomia possibile.

 

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