La metamorfosi del ddl Sicurezza in decreto è la nuova frontiera degli strappi istituzionali. Preoccupano il tentato blitz sui ballottaggi, l’attacco alla Corte dei Conti, il Def in versione ridotta
Un disegno di legge controverso, contestato con veemenza dalle opposizioni e dalla società civile, che si trasforma in un decreto mentre l’emergenza vera sarebbe l’introduzione dei dazi.
Un blitz per provare a stravolgere la legge elettorale delle comunali, che è una delle poche ad aver resistito a decine di cambi di maggioranza. E ancora: una modalità anomala di portare avanti il nuovo Def, accorciando i tempi di previsioni diventati biennali e non più triennali.
Benvenuti nell’Italia di Giorgia Meloni in cui le procedure democratiche vengono piegate a piacimento in un processo di trumpizzazione quotidiana. Per informazioni rivolgersi alla magistratura contabile: la proposta di legge – in esame alla Camera – che riduce il margine di azione della Corte dei conti sembra una misura forgiata ad hoc contro chi viene individuato come un nemico della destra. Almeno in questo caso l’iter è quello solito.
E che qualcosa stesse andando in una direzione anomala, era emerso fin dalle prime battute della legislatura quando la maggioranza ha usato uno stratagemma per affossare la proposta del salario minimo, portata avanti dalle opposizioni unite. Al posto di bocciare il testo delle opposizioni, la maggioranza ha inglobato il testo trasformandolo in una legge delega. Che a oltre un anno è ferma nei cassetti.
Forzatura Sicurezza
La differenza con gli Stati Uniti di Donald Trump non è così forte in termini di azione. Ma se il presidente degli Usa è legittimato dal ricorso ai decreti esecutivi e al potere di veto, il governo Meloni si muove sul crinale con sprezzo del bon ton istituzionale.
Fino a rischiare di far crescere le tensioni con il Quirinale. Perché è in corso una riforma della Costituzione di fatto.
La decisione più clamorosa è stata la metamorfosi del ddl Sicurezza, diventato un decreto nel corso del Consiglio dei ministri della scorsa settimana. Un fatto più unico che raro. «Il governo passa sopra il lavoro fatto dalle due camere in due lunghissimi anni. Confidiamo che il presidente della Repubblica indichi all’esecutivo le enormi criticità che questo intervento normativo presenta», dice a Domani Riccardo Magi, segretario e deputato di +Europa, che rilancia la necessità di «un referendum per abrogare questo decreto Schifezza».
Del resto con un gioco di prestigio, le norme dibattute per oltre un anno tra Camera e Senato sono state avvolte da un carattere di urgenza che ha richiesto l’emanazione di un apposito decreto.
Solo che l’unica urgenza era quella comunicativa di Meloni. Ma non giustifica la scelta di abbandonare il ddl come un brutto anatroccolo, facendolo rinascere un cigno nelle fattezze di decreto. E c’è di più nel gorgo bulimico di strappi, si riscrive una parte del codice penale a colpi di decreti.
Era stata fatta un’operazione simile con il decreto Anti-rave, primogenito tra i decreti meloniani. La portata in quel caso è stata ridotta e ricondotta alla ragionevolezza costituzionale, grazie alla mediazione del capo dello stato. Ora il presidente Sergio Mattarella si ritrova di fronte a un provvedimento amplissimo con una marea di materie interessate dal provvedimento. Aveva già fatto moral suasion su alcuni articoli del ddl, quelli più controversi, per espungerli.
È vero che il governo da un lato ha recepito con correttivi minimali, ma dall’altro ha sfidato il Quirinale con una prova di forza. I tempi sono contingentati. Prima dell’estate il testo deve diventare legge, approvata dal parlamento, pena la decadenza e la crisi totale con la Lega di Matteo Salvini che si è intestato il provvedimento.
Blitz elettorale
La trasformazione del disegno di legge è solo la nuova frontiera degli strappi istituzionali. Nell’ultima settimana la destra è scatenata nel mancato rispetto delle procedure istituzionali.
Al Senato c’è stato un altro affronto: il tentativo di riformare la legge elettorale delle elezioni comunali con un singolo emendamento indebolendo l’istituto del ballottaggio. Per la maggioranza basta il 40 per cento al primo turno per evitare il secondo.
Zero discussione, niente confronto in parlamento: la proposta dei capigruppo Lucio Malan (Fratelli d’Italia), Maurizio Gasparri (Forza Italia), Massimiliano Romeo (Lega) e Micaela Biancofiore (Noi moderati) è stata infilata nel decreto elezioni, che dovrebbe fissare le regole minime del prossimo voto, non stravolgere quelle condivise.
L’operazione è stata forse sventata con l’intervento di Ignazio La Russa, secondo cui l’emendamento è inammissibile. Le opposizioni, dopo le garanzie fornite dal presidente del Senato, «danno per scontata l’inammissibilità perché una decisione diversa sarebbe clamorosa», si apprende da fonti del Pd.
La settimana è andata avanti con la vicenda del nuovo Def, che è il contrario della condivisione con il parlamento. Il testo è in dirittura d’arrivo, ma il governo ha deciso di fornire i numeri solo su base biennale. Il motivo? «L’unico è che ci sono delle cose da nascondere sull’anno 2028», è la tesi in voga nelle opposizioni.
La pietra angolare delle forzature è l’abuso delle questioni di fiducia. A oggi se ne contano già 81: in media sono 2,8 al mese che significa una delle più alte di sempre, in scia agli esecutivi tecnici di Mario Monti e Mario Draghi che, però, per la natura eterogenea delle loro maggioranze, erano chiamati a blindare i provvedimenti.
Il ritmo è destinato a salire: altri voti di fiducia sono in arrivo, basti pensare proprio al decreto Sicurezza che, in virtù delle forzature compiute, sarà osteggiato dalle opposizioni. Lo sbocco della fiducia appare scontato. In assenza dei poteri di Trump, una specialità di Meloni trumpizzata.
© Riproduzione riservata