Sulla «madre di tutte le riforme» il governo ha tirato un prudente freno a mano. La riforma costituzionale del premierato – che ha preso il posto del presidenzialismo previsto nel programma del centrodestra – è stata faticosamente portata in parlamento dalla ministra Elisabetta Casellati. E, altrettanto faticosamente, è poi arrivata al sì in prima lettura in Senato. Ora, però, è arenata in commissione Affari costituzionali alla Camera dal 4 luglio scorso e non sembra sbloccarsi.

L’auspicio di Casellati, che sta presidiando i lavori in commissione, è che l’esame attualmente interrotto riprenda a inizio 2025 e possa concludersi in aula «in primavera», ma la strada appare lunga e in salita. Anche perché, come hanno fatto notare molti costituzionalisti e anche voci parlamentari bipartisan, la riforma per funzionare ha necessariamente bisogno di una nuova legge elettorale: un buco nero in cui si sono persi molti governi.

Nel corso di un question time, è stata proprio la ministra Casellati a far capire come il governo abbia deciso di aspettare ad addentrarsi in questo abisso. «Riteniamo corretto introdurre l’esame della legge elettorale solo a seguito del consolidamento della riforma costituzionale, quindi al termine della prima lettura da parte delle camere, perché la legge elettorale rappresenta lo sviluppo della disciplina costituzionale», ha detto Casellati, rispondendo ad Avs.

Tradotto, di legge elettorale si parlerà solo a metà del 2025, se davvero entro quella data Montecitorio sarà stato in grado di licenziare il testo di riforma. Un termine che, però, potrebbe ulteriormente allungarsi nel caso in cui la Camera approvasse la riforma con modifiche, visto che anche nel centrodestra si sono alzate voci critiche sui rischi dell’attuale formulazione. Se così fosse, il testo dovrebbe ricominciare da capo, tornando al Senato per una nuova approvazione in prima lettura e solo dopo questo ulteriore passaggio si potrebbe discutere di legge elettorale.

La motivazione fornita da Casellati è chiara: «È la legge elettorale, infatti, a doversi conformare al superiore ordine normativo costituzionale, sagomandosi perfettamente su ogni sua piega e ricevendone indirizzi e limiti, non il contrario. Solo allora il governo potrà aprire il cantiere della legge elettorale. Sarò io stessa ad avviare questo percorso, ispirandomi al metodo che ho fin qui seguito, di prioritario confronto con tutti i partiti».

La considerazione è di buon senso: il rischio è di cominciare a lavorare su un testo di legge ordinaria quando quello di riforma costituzionale è ancora aleatorio, e di trovarsi poi con potenziali rischi di incostituzionalità dovendo buttare tutto il lavoro.

L’articolo 92

A condizionare la formulazione della nuova legge elettorale è l’articolo 7 della riforma Casellati, che riscrive in modo sostanziale l’articolo 92 della Costituzione. La formulazione iniziale prevedeva addirittura il premio di maggioranza, ma su questo sono stati sollevati forti dubbi dai costituzionalisti e anche dal senatore di FdI, Marcello Pera, dunque una modifica ha espunto la percentuale.

Il risultato è un testo che – approvato in prima lettura al Senato – prevede che le elezioni delle camere e del presidente del Consiglio (dunque del vertice dell’esecutivo) avvengano «contestualmente», con una legge che assegna «un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche».

Sostanzialmente, dunque, in Costituzione sarà previsto un sistema di tipo maggioritario. A partire da questo Casellati dovrà trovare un accordo tra i partiti di maggioranza e poi un’auspicabile intesa con le opposizioni su come riscrivere le regole del gioco elettorale.

Le scelte politiche

Nonostante i suoi sforzi, dunque, la ministra non ha potuto fare altro che prendere atto delle tempistiche sempre più dilatate della riforma costituzionale e di come queste faranno slittare anche la legge elettorale, che sarà almeno altrettanto complicata da scrivere. Se non è stato facile – e ancora la sfida non è vinta – far convergere tutti i partiti di maggioranza su un testo costituzionale condiviso, ancora meno semplice sarà farlo sulle regole con cui verranno eletti i futuri parlamentari.

Proprio questa constatazione, secondo fonti di Forza Italia, ha spinto al prudente rallentamento che è quasi uno stop a data da destinarsi. Anche perché, è la considerazione, poche cose sono respingenti per l’elettorato quanto gli inevitabili litigi interni su percentuali e premi di maggioranza.

Il governo, per questo, ha invertito in modo esplicito l’elenco delle sue priorità: il fanalino di coda, la riforma costituzionale della Giustizia con la separazione delle carriere, è improvvisamente schizzato in testa, superando sia il premierato sia l’autonomia ora stoppata dalla Corte costituzionale.

La riforma Nordio – alla prima lettura – ha preso il posto del premierato nel calendario dei lavori della Camera e l’indicazione di palazzo Chigi è stata quella di farla proseguire anche in pieno periodo di manovra di Bilancio, come ha dimostrato il suo approdo in aula il 9 dicembre.

Eppure, dentro Fratelli d’Italia si assicura che la premier Giorgia Meloni non ha affatto accantonato il premierato e che, anzi, dovrebbe essergli riservato un passaggio nel suo intervento di chiusura di domenica ad Atreju.

Per portarlo avanti, però, ha capito che la strada più sicura è anche quella meno diretta. Anche perché ha subodorato il vero rischio sottostante: il referendum confermativo che le opposizioni sicuramente chiederanno di celebrare. Con un’arma in mano per spingere la campagna per il no: l’altissima fiducia di cui gode l’attuale capo dello stato, i cui poteri verrebbero irrimediabilmente compressi dalla riforma.

Di qui la scelta di dilazionare i tempi. Se la riforma venisse definitivamente approvata, con entrambe le letture, a fine 2026, il referendum potrebbe arrivare addirittura dopo le prossime elezioni politiche, fissate a scadenza naturale di governo nel 2027, e che quindi si celebrerebbero con tutta probabilità con l’attuale legge elettorale, che favorisce coalizioni unite come quella di centrodestra.

Un calendario, quindi, per disinnescare qualsiasi rischio connesso a quella che doveva essere la «madre di tutte le riforme» e che non deve diventare matrigna.

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