Servono le Olimpiadi a ricordare all’Italia delle atlete e degli atleti con background migratorio. Dopo i giochi di Parigi è tornato al centro del dibattito pubblico il tema della cittadinanza, che nel nostro paese per molti non è un diritto ma una concessione dello stato.

La legge che la regola ha 32 anni ed è nata già vecchia, senza accogliere le trasformazioni della società italiana. Se negli anni 1992/1993 gli studenti con cittadinanza non italiana erano circa 30.500, nell’anno scolastico 2022/2023 erano 914.860, in base ai dati del ministero dell’Istruzione del 2023. Decine di migliaia di studenti e studentesse in più, ma la legge 91 del 1992 non è cambiata e continua a regolare le modalità e i requisiti per ottenerla.

La legislazione italiana

In Italia vige anzitutto lo ius sanguinis, per cui si acquisisce la cittadinanza se uno dei due genitori ne è titolare. Ben lontano dallo ius soli garantito negli Stati Uniti e in altri paesi di forte immigrazione, come Brasile, Messico e Argentina, dove si è cittadini se si nasce sul territorio dello stato.

Lo ius soli in veste italiana, per chi nasce da genitori stranieri sul territorio dello stato, prevede invece il diritto di chiedere la cittadinanza al compimento dei 18 anni, dimostrando di aver vissuto nel paese senza interruzioni dalla nascita alla maggiore età. La cittadinanza per matrimonio viene poi concessa a chi sposa un cittadino o cittadina, dopo una residenza di due anni dall’unione.

Infine si può acquisire anche per naturalizzazione, se si risiede nel paese da almeno 10 anni, 4 anni per i cittadini comunitari. Nel 2022, il 45 per cento delle acquisizioni erano per residenza. A rendere complicato l’ottenimento sono i requisiti richiesti, soprattutto quello relativo al reddito.

Basti pensare a un ragazzo o una ragazza che, compiuti i 18 anni, entra nel mercato del lavoro e spesso non percepisce un reddito dignitoso. Ma, se anche i requisiti sono soddisfatti, non è comunque automatico ricevere il documento. È una concessione, e si è in balia della discrezionalità del ministero dell’Interno.

Dopo i numerosi progetti di legge naufragati in parlamento negli ultimi anni, l’apertura di Forza Italia ha riacceso la possibilità dello ius scholae. Il leader del partito, Antonio Tajani, ponendosi in aperto contrasto con gli alleati di governo, ha detto a Repubblica che «l’Italia è cambiata» e fa parte della «nostra storia, l’impero romano accoglieva». Tornato sul tema al meeting di Rimini ha affermato che «essere italiano, europeo e patriota non è legato a sette generazioni».

In questo modo, secondo una stima di Repubblica, in cinque anni ci sarebbero mezzo milione gli italiani in più e potrebbero fare richiesta i ragazzi nati o arrivati in Italia prima dei 12 anni, se frequentano un percorso scolastico: alcuni richiedono un ciclo di cinque anni, mentre FI la scuola dell’obbligo, fino a 16 anni. Il nostro paese sarebbe il primo dell’Ue a introdurre questa modalità.

Requisiti stringenti

A distinguere l’Italia dagli altri paesi europei non sono solo le procedure e i requisiti, ma soprattutto il grado di complessità per ottenere il documento. Secondo il Migration Integration Policy Index, nel 2019 l’Italia si posizionava al 14esimo posto tra i 27 paesi europei, al pari della Grecia, per la facilità nella concessione della cittadinanza.

A determinare il dato, il numero di anni di residenza richiesti, i vincoli per i figli, la certificazione linguistica, l’esame di educazione civica, l’assenza di precedenti penali e la possibilità di avere la doppia cittadinanza.

Se si escludono i paesi dell’Europa orientale, però, l’Italia scende al 13 posto su 16 paesi, sottolinea l’Osservatorio conti pubblici italiani dell’università Cattolica, secondo cui una rapida discesa in classifica è stata causata dai requisiti stringenti dei decreti sicurezza di Salvini. Il paese in cui è più semplice ottenerla è il Portogallo. Seguono Svezia, Irlanda, Lussemburgo, Finlandia, Francia.

Norme in Ue

Se lo ius soli non esiste in nessuna delle legislazioni dei paesi Ue, in alcuni vige quello temperato, che permette l’acquisizione della cittadinanza ai ragazzi nati sul territorio dello stato se i genitori stranieri vi risiedono.

In Irlanda, ad esempio, un bambino può ottenerla se almeno uno dei genitori vi risiede legalmente da tre anni. Così in Germania, che dopo la recente riforma ha abbassato a cinque anni il periodo di residenza, lo stesso termine che dal 2015 applica la Grecia. In Portogallo invece occorrono due anni di residenza di almeno un genitore.

C’è poi il doppio ius soli in Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna, se uno dei due genitori è nato nel paese. Sempre in Francia, inoltre, un bambino può richiedere la cittadinanza a partire dai 13 anni, se vive nel paese almeno da cinque.

In Spagna invece è sufficiente un anno di residenza, se si è nati nel paese. Mentre il doppio ius soli temperato – nascita di almeno uno dei genitori nel paese e residenza permanente – lo prevede solo la Grecia.

Sulla richiesta per naturalizzazione molti paesi prevedono un periodo di residenza di molto inferiore rispetto all’Italia. In Francia, Germania, Portogallo, Paesi Bassi e Svezia è di cinque anni. L’Italia è quindi uno dei paesi con i requisiti più severi e tempi molto lunghi per entrare a far parte di una comunità in cui spesso si è arrivati da piccoli. E, anche se si ha in mano il documento, in alcuni casi c’è il rischio che venga revocato. Una novità prevista dai decreti sicurezza.​​​

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