- Orgoglio della destra radicale, cancellazione dell’antifascismo della Resistenza, e molti slogan. Il primo discorso della prima premier prova il numero impossibile di rassicurare i suoi elettori e le cancellerie europee.
- Evoca per nome le donne che hanno «rotto il pesante tetto di cristallo», ma poi non spiega con quali soldi terrà gli asili nido aperti «fino all’orario di chiusura degli uffici e dei negozi».
- Gli alleati sono bacchettati come sostenitori di governi «senza mandato popolare». Per questo la stabilità del governo conta più sulla divisione delle opposizioni che sulla coesione della maggioranza. Una parola di Berlusconi, oggi al senato, può fare più danni di un do di petto della minoranza.
È il discorso in cui Giorgia Meloni chiede la fiducia agli alleati, ma in realtà gli alleati, che in serata le votano la fiducia, sono quelli più maltrattati. Esordisce ricordando che negli ultimi «dieci anni» si sono «succeduti governi deboli, senza un chiaro mandato popolare, incapaci di risolvere le carenze strutturali di cui soffrono l’Italia e la sua economia».
Ce l’ha con i governi di larghe intese delle ultime due legislature, ma in particolare ce l’ha con Giuseppe Conte e Mario Draghi. Ma è chiaro che ce l’ha, e soprattutto, con la Lega e Forza Italia che li hanno, a fasi alterne, sostenuti. Nella replica fa di meglio: rivendica la coerenza sua e del suo partito, Fratelli d’Italia, ma nei fatti dà degli incoerenti ai signori vicepresidenti che ha accanto. Alla fine della giornata infatti Lega e Forza Italia, soprattutto quest’ultima, sono ancora alacremente impegnate a rialzare il prezzo sulle vicepresidenze.
Il nuovo «ma anchismo»
Meloni si avventura in un viottolo stretto: prova a rassicurare i suoi elettori che non «tradirà» e non «indietreggerà», snocciola il più radicale orgoglio di destra mai pronunciato in un parlamento, con toni uguali a quelli di un comiziaccio di partito anzi a quelli del famoso comizio alla kermesse del movimento franchista Vox (e «boni», dice ai suoi che la applaudono e che la salutano come allo stadio «Giorgia, Giorgia»); riduce il fascismo alle leggi razziali e l’antifascismo a picchiatori di «ragazzi innocenti» che «venivano uccisi a colpi di chiave inglese»; data la nascita dell’Italia al Risorgimento e “dimentica” la Resistenza contro il nazifascismo.
Fino al teatro dell’assurdo: ricorda il 27 ottobre, la morte di Enrico Mattei, e tace del 28 ottobre, il giorno della marcia su Roma e dell’avvento del fascismo, cent’anni fra due giorni. Poi però prova a rassicurare l’Europa e le sue cancellerie, ma qui deve per forza restare sulle generali, il suo governo si muoverà, dice, «con spirito costruttivo ma senza subalternità» coniugando «l’affermazione del nostro interesse nazionale con la consapevolezza di un destino comune europeo».
Ma come, concretamente, non non può dirlo, altrimenti dovrebbe «tradire» qualcuno: o le roboanti affermazioni della campagna elettorale («la pacchia è finita», per non parlare degli sproloqui filorussi di Salvini e Berlusconi) oppure la continuità con il governo Draghi, che per ora resta l’unica garanzia di autorevolezza per l’Italia.
La presidente, o «il» presidente come si autodefinisce lei - libera di farlo – rivendica con orgoglio il suo essere prima premier italiana, ed è l’unico numero retorico che le funziona: ricorda le donne che prima di lei «hanno costruito con le assi del proprio esempio la scala che oggi consente a me di salire e rompere il pesante tetto di cristallo», chiama per nome le donne di cui parla – fra tanti “fratelli d’Italia” si capisce che abbia bisogno di avere delle sorelle.
Mette insieme Nilde Iotti a Chiara Petrillo, morta per non essersi curata per salvare il figlio che portava in grembo. Nella replica poi ridicolizza il femminismo: «Non faccio battaglie per essere chiamata “capatrena”», e già che c’è dà del tu al deputato nero Aboubakar Soumahoro, poi è costretta a scusarsi.
Sotto gli slogan nulla
Per il resto sotto gli slogan da campagna elettorale non resta nulla: non spiega da dove arriveranno i soldi per «asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura di uffici e negozi». Né sul carobollette, glielo ricorda Giuseppe Conte al suo esordio da parlamentare.
Né sull’immigrazione: chiede «la creazione sui territori africani di hotspot, gestiti da organizzazioni internazionali, dove poter vagliare le richieste di asilo»: era già lo slogan di Salvini da ministro degli interni, ed è già andato a infrangersi contro l’instabilità dei paesi di cui parla, e la realtà concreta che si tratta solo di blocchi da cui ricacciare indietro tutti. Distintivo di destra e chiacchiere.
Come quando dice che proverà «un moto di simpatia» per i ragazzi e le ragazze che scenderanno in piazza contro il suo governo ricordando «le mille manifestazioni a cui ho partecipato con tanta passione»; solo che in quel momento all’Università La Sapienza di Roma la polizia sta manganellando, senza motivo («una carica di alleggerimento»), gli studenti che manifestano contro una conferenza di uno dei suoi.
L’assenza di concretezza del suo discorso di insediamento – – è l’accusa di Enrico Letta, segretario del Pd, «non abbiamo capito nulla sulla legge di bilancio che fra qualche giorno dovrete presentare» – è pari solo dall’assenza di concretezza delle minoranze.
Che promettono «opposizione intransigente», ciascuna con toni diversi, ciascuna con critiche anche dure, ma ciascuna determinata a fare il suo gioco a dispetto del compagno di banco, condannandosi all’inefficacia. È questo che rassicura la presidente e la tenuta del suo governo, più che il sostegno infido delle forze della maggioranza che per ora le votano la fiducia. Oggi al senato è atteso il discorso di Silvio Berlusconi. Se non si «contenesse» sarebbe molto più capace di far vacillare l’esecutivo di qualsiasi impotente do di petto dell’opposizione.
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