«Sono stata molto contenta che Salvini abbia chiarito, era importante farlo. Soprattutto nella giornata del 2 giugno bisogna evitare il più possibile le polemiche». Con le canoniche 24 ore di attesa, Giorgia Meloni è intervenuta a Quarta Repubblica sullo scontro tra la Lega e il capo dello Stato, con l’obiettivo di ridimensionare la polemica. O meglio di deviarla, visto che successivamente ha accusato la sinistra di «mancare di rispetto al Colle», «con un tentativo di tirarlo nell’agone della politica, di raccontare di presunte divergenze con il governo».

Eppure, nel giorno della festa della Repubblica sono state le dichiarazioni del senatore leghista Claudio Borghi – attacco frontale al Quirinale con richiesta di dimissioni dopo le sue parole sulla sovranità europea – rafforzate dalla chiosa del segretario Matteo Salvini, a guastare il clima. L’intenzione della Lega è sembrata quella di voler sancire il principio che nei giorni che precedono le europee tutto vale. Tanto è vero che il redde rationem di Salvini applaudito da Meloni («Mattarella ha il rispetto mio e della Lega») è suonato così poco convincente da non aver zittito nemmeno lo stesso Borghi, che ieri ha «straconfermato» ciò che ha detto, soddisfatto di aver «riportato al centro dell’attenzione il vero tema della campagna elettorale: chi vuole più e chi vuole meno Europa».

Del resto, è la narrazione interna al partito, Borghi è abituato all’etichetta di “Pierino” della Lega e gli piace molto vestire i panni di chi dice quello che «tutti pensano»: dal no all’euro, al Mes come «operazione mirata contro l’Italia», all’idea di fare una moneta per il sud Italia, fino al fastidio per il capo dello stato che perora la causa europeista.

Nessuno dimentica che lo stesso Borghi è candidato all’Europarlamento nella circoscrizione Centro e la sua attitudine per le dichiarazioni pirotecniche si amplifica ogni qualvolta venga preso dall’agonismo elettorale.

Candidata però è anche Meloni che, come sempre quando una questione la mette in difficoltà, ha scelto una giornata di silenzio, poi ha mandato avanti gli sherpa Ignazio La Russa e Raffaele Fitto e, solo alla fine, è intervenuta in prima persona. Tempismo a parte e con l’accortezza nell’evitare polemiche dirette con la Lega, Meloni ha così confermato una delle convinzioni in passato manifestate da fonti vicine al Colle: che, nel caso in cui qualcuno decidesse per uno scontro diretto con Mattarella, Meloni interverrebbe per fermarlo, in modo aperto oppure con una telefonata.

Salvini ha smentito qualsiasi contatto, ma una tesi accreditata è che sia stata la premier con una dura telefonata a chiedere all’alleato di fare un passo indietro.

La guerra sotterranea

Tuttavia dietro la polemica emerge un dato di fondo: il fastidio di FdI e Lega nei confronti del Quirinale è ben oltre la soglia di guardia e sta tracimando in qualcosa che sembra assumere il carattere dello scontro personale, almeno da parte di una quota della maggioranza. Forza Italia, infatti, è stata l’unico partito che, con Antonio Tajani, ha assunto una posizione «distinta e distante» rispetto a quella della Lega.

Queste frizioni a bassa intensità si sono susseguite a ritmo continuo, soprattutto a partire dall’inizio dell’anno. Allora a tenere banco era stata la proroga delle concessioni dei commercianti ambulanti: Mattarella aveva promulgato la legge sulla concorrenza, ma inviando una lettera ai presidenti di Camera e Senato come già aveva fatto sul tema analogo delle concessioni balneari. Anche in quel caso la Lega aveva contestato Mattarella con gli stessi argomenti di oggi, parlando di chi «nel nome dell’Europa, prova a svendere il lavoro degli italiani».

I momenti di frizione da quel momento non si sono contati: Mattarella ha redarguito il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi dopo le cariche degli studenti a Pisa; poi c’è stato il monito contro la decretazione d’urgenza utilizzata in modo eccessivo; nei suoi discorsi si sono ripetuti i richiami antifascisti, amplificati dalle continue omissioni del governo sul punto.

L’impatto, per come è stato vissuto dentro la maggioranza di FdI e Lega, è stato quello di un capo dello stato sempre pronto a puntualizzare, correggere e stigmatizzare, in un continuo contraltare al governo mascherato da discorsi istituzionali. Non a caso, l’accenno preferito del centrodestra in riferimento al Quirinale è alle sue «funzioni di garanzia», intese non tanto nei confronti dei principi costituzionali, ma come sinonimo di arbitro silenzioso.

Dal canto suo Mattarella ha scelto di non ingaggiare alcuno scontro, rimanendo in silenzio. «Lavora come sempre sereno e tranquillo», è quanto trapela dal suo entourage. La volontà, dunque, è quella di non dare spazio a una polemica che sembra creata ad arte.

Tuttavia nelle scorse settimane è emersa più volte la sua irritazione per come il governo sta gestendo le riforme costituzionali. Con il premierato, che per Meloni e la ministra Casellati «non tocca i poteri del presidente della Repubblica», anche se è chiaro che le sue funzioni ne escono fortemente alterate. Con la giustizia, dopo la divulgazione ad arte del colloquio riservato tra il ministro Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano, vista come un tentativo di forzare una sorta di placet preventivo.

Ora si è palesata la volontà della Lega di forzare la mano, alzando i toni in una polemica che ha il sapore di una ripicca e utile a solleticare gli spiriti più antieuropeisti in una campagna elettorale in cui, soprattutto Salvini, si sta giocando la sopravvivenza politica.

© Riproduzione riservata