Dopo la pronuncia della Corte costituzionale la premier ora respira e punta sull’Umbria. Il capo dello stato confessa: «Ho firmato leggi che non condivido. Più volte»
«Ho adottato decisioni che non condivido, è capitato più volte». Sergio Mattarella risponde alle domande che gli arrivano dai ragazzi dei licei di Roma, dal palco dell’evento organizzato per i venticinque anni dell’Osservatorio permanente dei giovani editori, a Roma, al Salone delle Fontane dell’Eur.
Il discorso è generale, e non è neanche la prima volta che il presidente della Repubblica esprime questo concetto. Ma il giorno dopo il colpo mortale inferto dalla Corte costituzionale al ddl Calderoli è difficile, per chi lo ascolta, non metterlo in relazione con il fatto che il Colle quella legge l’ha firmata. La coabitazione con un governo di destra-destra necessita di un attento esercizio di equilibrio.
Mattarella lo spiega bene: «Più volte ho promulgato leggi che non condivido, che ritenevo sbagliate e inopportune, ma erano state votate dal Parlamento e io ho il dovere di promulgare. A meno che non siano di evidente incostituzionalità. In quel caso ho il dovere di non promulgare: ma devono essere evidenti, un solo dubbio non mi autorizza a non promulgare».
La separazione dei poteri
Non è l’unica risposta che fa pensare a un riferimento ai fatti recenti. I ragazzi incalzano. Arriva anche la spiegazione del suo «essere arbitro» degli altri organi costituzionali dello stato: «Significa ricordare a tutti i limiti delle proprie attribuzioni e delle sfere in cui operano.
Vale per il potere esecutivo, legislativo, giudiziario. Ciascun potere e organo dello stato deve sapere che ha limiti che deve rispettare, perché le funzioni di ciascuno non sono fortilizi contrapposti per strappare potere l’uno all’altro, ma elementi della Costituzione chiamati a collaborare, ciascuno con il suo compito e rispettando quello altrui.
È il principio del check and balance». E anche qui è difficile non pensare allo scontro durissimo, tuttora in corso, fra il governo e i magistrati, accusati dalla premier e dai suoi vice – per non parlare del coro della maggioranza – di «non collaborare» e «non rispettare la volontà popolare». Un obbrobrio costituzionale.
Meloni festeggia
Resta che la bocciatura sostanziale dell’autonomia differenziata è un colpo pesante per il governo. Il comunicato della Consulta offre un nuovo esempio del pressapochismo con cui procede. C’è il flop del «modello Albania». Ma anche, ricorda il deputato Riccardo Magi, «la sparizione nelle sabbie mobili di palazzo Chigi del premierato», un’altra delle riforme destinate al fallimento «a causa dell’improvvisazione e della approssimazione costituzionale con cui sono state pensate e scritte».
Eppure per la presidente del Consiglio non tutti i mali vengono per nuocere. Non questo almeno: la bocciatura alla “bandierina politica” di Matteo Salvini e compagni è in realtà un colpo di fortuna. In fin dei conti è un sollievo, per lei, lo stop arrivato dall’esterno su una delle leggi dello scambio a tre siglato nella maggioranza, l’unica fin qui andata in buca: autonomia alla Lega, premierato a FdI, separazione delle carriere dei magistrati a Forza Italia.
Giorgia Meloni sa che ad alzare pubblicamente la voce contro il ddl Calderoli sono stati solo i presidenti di regione forzisti, il calabrese Roberto Occhiuto e – meno – il lucano Vito Bardi. Ma sa altrettanto bene che dal suo partito, al Sud, se in questi mesi non è uscito un fiato è solo per disciplina. Alle scorse europee, in Campania FdI ha perso centinaia di migliaia di voti: per i dirigenti locali è stata tutta colpa del ddl Calderoli.
Nei ragionamenti che circolano intorno alla presidente c’è anche la convinzione dello scampato pericolo: il referendum, secondo i suoi collaboratori più competenti, non si farà. Tutto di guadagnato, per lei. «Chi perde un referendum deve andare a casa», l’ha avvertita Matteo Renzi, che in una situazione così è già passato. E per quanto il quorum fosse considerato inarrivabile, anche una bocciatura senza quorum sarebbe (stata) un rospo difficile da digerire, sempre secondo Renzi: «Se anche non scatta il quorum l’esecutivo offre il primo break point alle opposizioni».
Cosa succederà davvero è ancora da vedere. Il Comitato referendario aspetta che venga pubblicato il testo della sentenza. Ma ha portato già a casa la sua vittoria. «La Consulta ha fatto a fettine la legge Calderoli, non solo smontando l’impianto, ma sembrerebbe, leggendo il comunicato, che anche la parte residua del testo risulterà del tutto inapplicabile», ha spiegato a Repubblica il costituzionalista Gaetano Azzariti.
A insistere sul referendum su una legge così falcidiata, il Comitato si esporrebbe al rischio che sia la Consulta a non ammetterlo; e questo trasformerebbe in una sconfitta, per paradosso, la vittoria schiacciante degli oltre 630mila cittadini che hanno firmato il quesito originario.
Obiettivo Umbria
Insomma, Meloni non può dirlo, ma la decisione della Corte è un punto incassato. Dopo giorni difficili. In cui: i giudici del tribunale della sezione immigrazione di Roma hanno finito per spiaggiare, almeno temporaneamente, il «modello Albania»; Mattarella ha arginato il suo irrefrenabile amico Elon Musk; le forzature di Ursula von der Leyen a Bruxelles hanno messo un mirino (politico) intorno al commissario Raffaele Fitto (in questo caso Mattarella le ha offerto un’ampia sponda); e gli scontri degli antagonisti a Bologna, che lei ha provato a collegare alla sinistra del parlamento (come quelli degli studenti a Torino, ma Elly Schlein ha prontamente solidarizzato con gli agenti feriti) alla fine hanno messo in chiaro la sua benevolenza verso le «camicie nere» di CasaPound, quelli del «boia chi molla» (che lei sostiene di non aver visto).
Ora, per raddrizzare la narrazione, alla premier serve un colpaccio: la vittoria della destra in Umbria, al voto di domenica e lunedì.
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