Burocrazia, finanziamenti inadeguati e tempi di attesa troppo lunghi. Le risorse disponibili bastano a soddisfare meno di metà delle richieste
Un diritto, quello al reddito di libertà, di cui non è possibile beneficiare pienamente, data l’impossibilità di accesso a tutte le donne che lo richiedono. E se tutte non possono usufruirne, diventa una concessione parziale, che svilisce la tutela del diritto alla fuoriuscita dalla violenza.
L’ultimo dato a disposizione, in merito alle donne che hanno richiesto il sussidio, è di oltre 6mila richieste: quelle accolte finora sono state solo 2.772, meno del 50 per cento. Si tratta di donne vittime di violenza maschile, in condizione di povertà economica, che si sono rivolte ai centri antiviolenza. Dopo la presa in carico dei Cav (Centri anti violenza) le donne hanno infatti richiesto di attestare il percorso di autonomia intrapreso, da allegare alla domanda per accedere al reddito, unita alla dichiarazione dei servizi sociali comunali sullo stato di bisogno.
Per Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, la rete di 87 organizzazioni sul territorio italiano che gestiscono 106 Cav e più di 60 Case rifugio la possibilità di accedere al reddito «presenta passaggi che confermano l’estrema burocratizzazione della misura che rallenta, nella migliore delle ipotesi, i tempi di erogazione a volte scoraggiando lo stesso avvio. La povertà economica vissuta dalle donne sovente non si riflette nell’Isee».
D.i.Re, dunque, incalza il governo: i dati Istat dicono che sono circa 60mila le donne che ogni anno si rivolgono ai centri antiviolenza: «Di fronte a questi numeri drammatici, i fondi stanziati per il Reddito di libertà sono totalmente insufficienti». La presidente della rete spiega a Domani come sia «davvero fuori misura» la cifra di 400 euro al mese per la durata di un anno. Ancor di più se poi si affianca il termine autonomia.
Il governo fa così propaganda per l’ennesima volta sui percorsi di libertà delle donne, sbandierando una misura che ha soddisfatto circa la metà delle richieste arrivate. Manca una visione di insieme e un approccio integrato che possa favorire l’inserimento lavorativo delle donne in generale, per rendere sostenibile nel tempo il mantenimento. La domanda che ci facciamo è: «E dopo?».
Accesso negato
Ma di cosa si tratta nello specifico? Il reddito di libertà è una misura nazionale che le Regioni possono decidere di integrare con i propri finanziamenti e ha, come obiettivo, quello di accompagnare le donne che hanno subito violenza in un percorso di autonomia per sé, ma anche per le proprie figlie e i propri figli. Istituito nel 2020, il reddito di libertà è diventato operativo tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, dopo la circolare applicativa dell’Inps. La regione che ha il numero più alto di beneficiarie è la Lombardia (469), a seguire Campania (285), Lazio (280), Sicilia (239). Il reddito erogato consiste in 400 euro pro capite su base mensile, per un massimo di 12 mensilità.
In Campania, solo 285 donne su 585 richiedenti hanno avuto effettivamente accesso al reddito. Inoltre, se a livello nazionale sono state accolte il 53 per cento delle domande, il dato campano è al di sotto della media nazionale, attestandosi solo al 45 per cento di richieste accolte. Per farne richiesta, poi, occorre superare una lunga trafila e questo rende i processi dei pagamenti molto lenti, in alcuni centri i fondi del 2022 devono ancora arrivare.
C’è poi il problema dell’accesso al sussidio, ci vogliono infatti tre passaggi perché arrivi ai Cav: governo centrale, regione e poi comune. Il percorso per poter accedere al reddito «presenta passaggi che confermano l’estrema burocratizzazione della misura che rallenta, nella migliore delle ipotesi, i tempi di erogazione» spiega Veltri «a volte scoraggiando lo stesso avvio. La povertà economica vissuta dalle donne sovente non si riflette nell’Isee».
Pochi finanziamenti
La lotta contro la violenza di genere richiede un impegno concreto e una risposta immediata da parte delle istituzioni e della società tutta. Proprio per questo, l’istituzione di questa forma di protezione da parte dello Stato, era stata ben accolta da parte dei centri antiviolenza che però segnalano, oltre il problema dell’accesso ridotto al reddito di sostegno, anche un altro punto centrale: i centri antiviolenza sono costantemente finanziati in misura del tutto insufficiente anche per l’attività ordinaria.
Per Veltri serve una visione che sappia e voglia riconoscere l’enorme lavoro che da oltre trent’anni fanno i centri antiviolenza: «il tema della violenza alle donne oggi è tema pubblico, politico, non più fatto privato». Riconoscere il grande lavoro dei Cav significa «prevedere interventi pubblici adeguati e continuativi» che possano consentire alle oltre 87 organizzazioni di donne che gestiscono oltre 100 Cav con 3mila attiviste, per lo più volontarie, di progettare e programmare non solo l’accoglienza delle oltre 20mila donne l’anno ma soprattutto gli interventi di formazione, di sensibilizzazione ai soggetti sociali e istituzionali avendo chiaro il cambiamento culturale che va perseguito.
Tempi lunghi
I finanziamenti a singhiozzo e non adeguati, con tempi di attesa molto lunghi «mal si coniugano con il grande lavoro che facciamo, soprattutto a fronte di un fenomeno che non accenna a diminuire». Così, racconta ancora, «aumenta minacciosamente la platea dei soggetti che potranno avere accesso ai finanziamenti pubblici, che rimarranno della stessa entità o poco più alti, soggetti che offriranno servizi e politica avendo come obiettivo la mediazione familiare, la ricostituzione della famiglia. Tutto questo nel nome di una società che non va verso l’affermazione del diritto delle donne di vivere una vita in piena libertà. Questa è la cornice europea e nazionale nella quale ci muoviamo e resistiamo».
C’è bisogno di finanziamenti pubblici adeguati e di meno proclami di vittoria, da parte del governo, sulle azioni volte alla tutela delle donne vittime di violenza maschile. Misure che per il momento restano insufficienti, burocratizzate e lacunose.
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