Autonomia differenziata, premierato e separazione delle carriere sono temi politici della destra delle ultime decadi. Ma chi propone sempre le stesse cose con gli stessi slogan ha un problema
Prima ancora che essere una questione tecnica (i Lep ecc.) o giuridica, l’autonomia differenziata è un tema simbolico e di conseguenza estremamente politico.
Se passa – come sta passando – il messaggio che la riforma stabilisce che «non siamo tutti uguali», diviene un veleno a lento rilascio o una palla di neve che alla fine schiaccerà chi l’ha voluta assieme a tutti.
Il fatto che la presidente Giorgia Meloni lasci la narrazione della nuova legge sull’autonomia completamente nelle mani della Lega di Matteo Salvini, è un pericolo: non aiuta a farla digerire agli italiani, non chiarisce nulla se non con i vecchi slogan leghisti, non aumenta la consapevolezza dell’intero sistema che dovrebbe gestirla.
Il risultato sarà una guerriglia permanente tra poteri (amministrazioni, regioni e città ecc.) che frammenterà ancor di più il paese, anche al di là della stessa lettera della legge. Inutile dire ora che anche alcune parti del Pd erano favorevoli all’autonomia (come l’Emilia e il Pd veneto). È vero (e fu un tragico errore), ma si tratta di un’arma spuntata proprio perché la narrazione simbolica della legge va da un’altra parte, cioè verso posizioni estreme della Lega di ieri e di oggi. Un leghismo fatto apposta per dividere e separare in un tempo in cui sarebbe urgente unire.
Idee vecchie
L’assenza di una “narrazione alta”, nuova e più consona ai tempi presenti, mette in luce un problema più ampio. Le tre riforme proposte dalla destra di governo sono com’è noto l’autonomia, il premierato e la separazione delle carriere della magistratura.
Ogni italiano le ha nelle orecchie perché si tratta di idee vecchie. Se il governo – e in particolare la presidente – non innova il proprio linguaggio e la propria visione, resta impigliato in un quadro invecchiato che odora di stantio e risulta alla fin fine immangiabile per tutto l’elettorato.
Infatti si tratta di riforme delle quali andava bene discutere decenni fa: è lecito chiedersi se oggi non serva dell’altro. Tornare su idee avvizzite da tempo, di cui si è dibattuto per anni senza soluzione e che vengono riproposte pari pari, contiene un rischio: mostrare che si governa con lo specchietto retrovisore senza aggiungere nulla a ciò che è stato pensato anni fa. Soprattutto senza guardare avanti. Si tratta cioè sempre la stessa cosa, anche se proposta con un piglio diverso. Siamo sicuri che sia il metodo migliore?
In cerca di vendetta?
Peggio ancora potrebbe sembrare che la destra di governo voglia “vendicarsi” di qualcosa, piena di risentimenti per ciò che doveva essere fatto e che le fu impedito di fare. Non è mai buono sembrare rancorosi. Ricordiamoci il perché: non c’è mai stata unanimità nemmeno a destra su tali delicate questioni.
Affinché la mossa di oggi possa risultare credibile o convincente non basta dunque soddisfarsi del senso di rivincita: occorre una decifrazione più ampia, più profonda, più vasta, al passo coi tempi, che spieghi perché le vecchie idee rinnovate sono utili anche nel futuro.
Sembra invece che la destra si accontenti di ciò che fu pensato ieri, riproponendo modelli immaginati in altri tempi. Fin dagli anni Novanta la Lega corre dietro a uno strumento che separi il nord dal resto. Ora ha ridotto le sue ambizioni a qualche regione soltanto (Veneto, Friuli, Lombardia…).
Non è interessata all’intera nazione e vuole uno sganciamento che chiama libertà: roba di trent’anni fa. Il problema è che non le riuscirà perché l’Europa non è disposta a pensare (e a gestire) un’Italia a pezzi in un tempo in cui sta riflettendo su difesa comune, bilancio comune, strumenti di debito comuni e così via.
Effetto paradosso
Separando alcune regioni, la Lega otterrà un effetto-paradosso: invece che avere a che fare con Roma dovranno vedersela direttamente con Bruxelles. Sai che vantaggio!
Paradosso nel paradosso: i primi a contrastare tale deriva saranno proprio i Fratelli d’Italia che non ammetterebbero due status diversi nella capitale dell’Europa. Ciò avviene perché si tratta di “vino vecchio” che stiamo mettendo in “otri nuovi”: molto probabile uno sfracello.
La contrarietà dei vescovi della Cei nasce anche da tale constatazione. In ogni caso è bene porre ascolto alla posizione di chi sta quotidianamente a contatto con le persone, in ogni caso più dei politici. Uno sconquasso può accadere anche per le altre due riforme: idee altrettanto vecchie che non appaiono per nulla rinnovate nell’approccio e nell’illustrazione.
La riforma della giustizia sembra una “vendetta” di Forza Italia per i trascorsi giudiziari di Silvio Berlusconi. La domanda è: visto che siamo fuori tempo massimo, quale sarebbe il vantaggio di presentarsi con spirito revanscista?
Il premierato anche è una vecchia idea della destra, ultimo avatar del presidenzialismo di una volta ma anche della governabilità di cui si parla dai tempi di Bettino Craxi. Siamo certi che si tratti di una buona idea? Non sarebbe meglio apprendere dai sistemi rigidi, bipolari e verticistici oggi in crisi (come in Francia o in Gran Bretagna), che in un mondo talmente flessibile e in società così fluide, la rigidità del potere centrale non paga? Non sarebbe come strappare un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio?
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