Luciano Violante, ex magistrato già presidente della Camera e parlamentare per molte legislature prima con il Pci e fino all’Ulivo, oggi è presidente della Fondazione Leonardo. Il suo sguardo sul presente politico è chiaro: Meloni sta portando FdI a essere un «grande partito conservatore» e la sua maggioranza «intende costruire il riequilibrio tra il potere politico e quello giurisdizionale».

Presidente, uno dei simboli del governo Meloni è stato il premierato, che ora sembra arenato. Pericolo scampato?

Il premierato, prima di essere dannoso, è inutile. Se c’è una maggioranza sostanzialmente solida e un presidente del Consiglio determinato, il sistema funziona. Questo è il caso del governo in carica. Con il premierato, invece, l’azione del governo sarebbe stata più difficile. Diverso, naturalmente, è il giudizio sulla qualità e i frutti dell’azione di governo.

Ma la sua critica al premierato è che non serve oppure che è nocivo?
Non è solo inutile. È una riforma monca. Manca la legge elettorale. Non sappiamo come sarà eletto il presidente del Consiglio né come saranno eletti i parlamentari. Se si eleggesse direttamente il presidente del Consiglio, a maggior ragione i cittadini dovrebbero poter scegliere liberamente, con il voto di preferenza, i propri rappresentanti. Ma su questo punto la nebbia è fitta. Uno dei difetti principali, oltre all’assenza di una legge elettorale è la dipendenza del parlamento dal governo, come i Consigli comunali dal sindaco. Ma il parlamento, a differenza dei Consigli comunali, degni di tutto rispetto per l’entità della funzioni, è una istituzione suprema: può riformare la Costituzione, eleggere un terzo dei giudici costituzionali, ratificare i trattati internazionali, approvare leggi che riguardano tutti coloro che vivono in Italia. Per questa ragione non può essere un’appendice del presidente del Consiglio, come è nella legge sul premierato. Il parlamento non può avere lo stesso statuto dei Consigli comunali.

Gli altri principali difetti?

L’elenco sarebbe troppo lungo. Aggiungo che le riforme costituzionali si fanno non per sé stessi, ma per quelli che verranno dopo. Perciò è bene essere prudenti. Oggi abbiamo Mattarella e Meloni, ma domani?

Questo governo usa l’argomento della sovranità popolare, attraverso il voto, per giustificare ogni sua decisione, a partire dai duri attacchi ai magistrati.

Il conflitto è tra la sovranità popolare e lo stato di diritto. Chi governa deve sapere che non può fare tutto quello che vorrebbe fare. In democrazia, la sovranità popolare si esprime attraverso il voto, ma la vita quotidiana delle istituzioni è regolata dallo stato di diritto. Nessun governo può appellarsi alla sovranità del popolo per superare lo stato di diritto.

Con il governo Meloni la destra ha fatto passi avanti nella concezione dello stato e delle istituzioni?

É normale che un partito come Fratelli d’Italia, che viene da una lunga storia di opposizione con le radici nel mussolinismo, stia ora acquisendo, almeno in gran parte, i caratteri di un importante partito conservatore. È una sfida necessaria per il paese, che va guardata con rispetto.

Lei considera sbagliato parlare di pericolo fascista. Eppure si sta discutendo della fiamma: non proprio un simbolo da destra moderna.

Fratelli d’Italia è una destra che al governo si comporta da destra, ma non è fascista. Invece lo appaiono alcuni suoi esponenti minori e anche, a volte, qualche esponente della maggioranza. Detto questo, il simbolo rappresenta e comunica una identità. Noi, quando cambiammo nome e simbolo del partito, forse in ritardo rispetto alla storia, attraversammo un travaglio simile, che si concluse con una scissione. Una ragione in più per rispettare i problemi degli altri.

L’ultimo caso in cui l’aplomb istituzionale non è sembrato maturo, però, ha riguardato il voto per il giudice costituzionale ancora mancante.

Al di là di ogni ipocrisia, l’elezione di un solo giudice costituzionale è complessa, a meno che non sia candidata una personalità talmente superiore da mettere d’accordo tutte le parti. Mi sembra sia stato un errore dire: “Abbiamo vinto noi, quindi facciamo noi”. Mancavano i numeri e la minoranza andava ascoltata perché ha la stessa legittimazione politica della maggioranza. Sarebbe ora opportuno giungere a un’intesa sui nomi prima di votare in Aula.

In questa fase il governo sembra avere trovato nella magistratura il suo nemico naturale. Siamo tornati ai tempi di Silvio Berlusconi?

Negli anni di Tangentopoli, nel 1993, scrissi un articolo sostenendo che nessuna società può restare troppo a lungo ingessata dallo strapotere della giurisdizione e che prima o poi arriva un potere regolatore, naturalmente politico. Forse fu una previsione.

È quel che sta succedendo con gli attacchi verbali ai giudici?

Lasciamo perdere le intemperanze verbali, alcune davvero inaccettabili. La maggioranza intende costruire il riequilibrio tra il potere politico e quello giurisdizionale, che non è la prevalenza del politico. La giustizia non deve mai eseguire i desiderata della politica, se contra legem. Ma in alcuni casi, sarebbe più opportuno che la magistratura, fissato il punto, scegliesse il silenzio invece che la replica.

Quindi la magistratura, per lo meno quella associata, sbaglia nel suo approccio al governo?

Chi replica diventa controparte del governo, minando così la propria imparzialità. Ho l’impressione che una parte minoritaria della magistratura, 150 magistrati circa su circa 8.000, nutra effettivamente l’idea di dover essere una controparte e rivendichi questo ruolo. Ma così il conflitto si esaspera, non si risolve.

Eppure il governo sta mettendo in campo un impianto riformatore che tocca nel profondo il potere giudiziario.

Ha detto bene, il potere giudiziario. Le riforme proposte riguardano la magistratura come potere della Repubblica non la magistratura come servizio per i cittadini; tendono a mortificare la magistratura come potere, per far guadagnare peso alla politica. Ma nulla che serva ai cittadini. Pare ad esempio che il governo voglia stabilire l’obbligo di astensione per ragioni di “convenienza”. Forse ho capito male. Ma la norma c’è già, nell’articolo 52 del codice di procedura penale per i pm e nella lettera h) dell’articolo 36 per i giudici.

Meloni preferisce la separazione delle carriere. È una soluzione che condivide?

Le carriere di giudici e pm sono già separate. Separare dai giudici i magistrati requirenti, con l’indipendenza attuale e in più con un loro Csm, avrebbe solo l’effetto di creare un supercorpo di polizia indipendente e privo di qualsiasi forma di controllo. Un rischio per la democrazia. Potremmo precipitare dalla padella alla brace.

È possibile che si arrivi anche a sottoporre dei pm all’esecutivo?

Sarebbe la logica conclusione di un corpo di pm separato dai giudici. Non è per nulla auspicabile. Molto dipenderà dall’atteggiamento che terrà la magistratura. Se la discussione sarà pacata, rigorosa e ispirata ai valori della Costituzione non si arriverà a quell’obbiettivo. Si può dire che in quasi tutte le democrazie il pm dipende dall’esecutivo, ma ci sono forme molto diverse di dipendenza. E storie politiche diverse da stato a stato. In Italia mancano le condizioni politiche e costituzionali per un passo di quel genere.

Lo scontro ruota intorno al tema dell’immigrazione, lei concorda con l’interpretazione dei giudici o con le rimostranze del governo?

Il governo ha proposto misure che sembrano incompatibili con l’ordinamento europeo, al quale siamo vincolati. I giudici non potevano applicarle. È dovere della maggioranza approvare norme compatibili con l’ordinamento nazionale ed europeo. In democrazia, come ho già detto, la volontà popolare non può prevalere sullo stato di diritto.

Sono ormai più di due anni che Meloni governa a colpi di riforme annunciate. Si può fare un bilancio?

Ci sono aspetti contraddittori, è presto per giudicare. Sul piano europeo e internazionale l’azione e l’immagine sono essenzialmente positive, come dimostra la vicenda Fitto. Mi sembra invece che non sia stata affrontata la semplificazione del processo decisionale amministrativo, che è ingolfato, come dimostra la difficoltà di attuare il Pnrr.

FdI non registra forti crisi di consensi. Se lo aspettava?

Ogni elezione è diversa dalle altre. Non trarrei considerazioni politiche generali dai risultati di Umbria ed Emilia-Romagna. Mi pare piuttosto che in politica anche in queste due occasioni sia prevalsa la tendenza a somigliare all’elettorato, non a rappresentarlo. La somiglianza prevale sulla rappresentanza. Ma così la politica diventa statica, non organizza le speranze dei cittadini che è la sua funzione prevalente.

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