Molti pensano che Thomas Matthew Crooks, il ventunenne che durante un comizio politico nei pressi di Butler, in Pennsylvania, ha tentato di assassinare l’ex presidente degli Usa, Donald Trump, fosse un pazzo isolato spinto da un impulso irrazionale di vendetta. Forse era un pazzo, ma sicuramente non era isolato: l’uso delle armi per eliminare un avversario politico non è un evento straordinario nella storia degli Usa, è accaduto spesso in passato e accadrà ancora in futuro. E potrebbe capitare anche da noi.

Nell’autunno del 2016, poche settimane prima delle elezioni presidenziali di quell’anno, mi trovavo a Pittsburgh, capitale della Pennsylvania, per assistere a una manifestazione organizzata da gruppi di estrema destra americana in sostegno di Donald Trump. Salirono sul palco molti oratori, e quasi tutti inneggiarono apertamente alla violenza: «Questa è una guerra, e per vincerla dobbiamo usare ogni mezzo necessario!», qualcuno urlò.

Molti degli spettatori, quasi tutti operai o agricoltori, sfoggiavano armi – chi un revolver alla cintola, chi un fucile a tracolla – perché in Pennsylvania, come nella maggior parte degli stati Usa, è in vigore la legge “open carry”, in base alla quale chiunque è autorizzato a portare un’arma in bella vista. Quando chiesi a un tranquillo signore barbuto perché tenesse una Colt alla cintura, lui mi rispose serafico: «Perché il nemico mi può assalire ovunque». Intendeva un nemico politico, cioè un democratico.

Charles Homans, giornalista del New York Times, ha raccontato che nell’agosto del 2022 si trovava a un raduno di militanti di estrema destra che si teneva a Bloomburg, in Pennsylvania, a pochi chilometri da dove hanno cercato di assassinare Trump. Si erano riuniti perché pensavano che Trump avesse vinto le elezioni del 2020 ma che i democratici gliele avessero rubate con l’inganno, e volevano decidere cosa fare.

Guerra permanente

Il primo a parlare fu un pastore evangelico il quale raccontò la storia di un pastore che aveva combattuto a fianco dei membri della sua congregazione durante la Rivoluzione americana. «Ecco un predicatore che insegna ai fedeli che bisogna combattere contro la malvagità e la miscredenza, e contro la dittatura. Dobbiamo imbracciare le armi, se necessario! Sapete bene come me che, con quel che sta accadendo ora, probabilmente ci toccherà farlo! E penso che il secondo emendamento ce lo consenta!». Si riferiva al secondo emendamento della Costituzione, che recita: “Nessuno può limitare il diritto del cittadino a possedere e portare un’arma”. Nella folla, un uomo agitava un cartello con sopra disegnate una bandiera Usa e una croce con in mezzo un fucile, e sopra la scritta “Dio, armi, e coraggio! Manteniamo l’America libera!”

Tra tutte le democrazie mondiali, gli Stati Uniti sono quella più abituata alla violenza politica. Gli Usa sono nati da una guerra civile, e nel corso della loro storia le maggiori rivoluzioni sociali – le lotte per i diritti civili, la fine della segregazione razziale – sono state accompagnate e spesso favorite da scontri violenti in cui era comune l’uso delle armi.

In fondo, sono il paese in cui il presidente Thomas Jefferson ha pronunciato la frase: «L’albero delle libertà deve essere rinfrescato di tanto in tanto con il sangue dei patrioti e dei tiranni», e Malcolm X ha sentenziato che libertà, giustizia e uguaglianza devono essere raggiunte “con ogni mezzo necessario”.

Parole e opere

Il presidente Joe Biden, parlando del tentato assassinio di Trump, ha dichiarato che «non c’è posto per questo tipo di violenza in America». Ma la sua frase è suonata ipocrita e falsa. Il presidente John Fitzgerald Kennedy è stato assassinato, suo fratello Robert è stato assassinato, Ronald Reagan ha rischiato di essere ucciso in un attentato. E la lista continua.

Gli Usa sono un paese dove il linguaggio della violenza sta sempre più permeando la politica. Uno dei partecipanti al comizio di Trump a Butler subito dopo la sparatoria ha dichiarato a un giornalista della Bbc: «Hanno sparato loro per primi! Questa è una fottuta guerra!». E qualche giorno dopo, il capo ufficio stampa del deputato democratico Bennie Thompson è stato licenziato perché aveva scritto su Facebook: «Io non condanno la violenza, ma la prossima volta per favore prima prendi qualche lezione di tiro così non manchi il bersaglio».

Nathan Kalmoe – professore di scienze sociali all’Università di Madison in Wisconsin – e Lilliana Mason – professoressa di scienze politiche alla Johns Hopkins University di Washington DC – hanno condotto un ampio studio per esplorare l’atteggiamento dei cittadini Usa verso la violenza politica. Hanno trovato che il 20 per cento dei cittadini – cioè circa 40 milioni di americani – pensa che la violenza politica sia in qualche modo giustificata. A giugno, hanno ricontattato molti dei partecipanti, gli hanno rifatto le stesse domande, e così hanno scoperto che il 60 per cento di loro ritiene che la violenza politica sia giustificata se qualcuno dell’altro partito politico commette per primo un atto di violenza, mentre un anno fa era solo il 40 per cento, cifre quasi identiche tra democratici e repubblicani.

Nel 2022, Kalmoe e Mason hanno scritto un libro intitolato Militanza politica radicale in America, in cui giungono a conclusioni sconfortanti: «Piuttosto che chiedersi se gli americani siano a favore della violenza politica sarebbe meglio chiedersi quando sono a favore di essa».

Perché ciò accade? E di chi è la colpa? Dopo il tentato assassinio di Trump, i repubblicani danno la colpa del clima di violenza a Biden, che in un comizio di pochi giorni prima aveva dichiarato: «È giunto il momento di mettere Trump al centro del bersaglio». I democratici la danno a Trump, che definisce Biden «un fascista», ripete ossessivamente che le elezioni del 2020 sono state un furto, e accusa il presidente di “guidare una cospirazione per rovesciare la democrazia”.

Nel febbraio del 2021, Kalmoe e Mason hanno chiesto ad un campione di americani se per il membro di un partito fosse giustificabile uccidere il leader del partito avversario al fine di perseguire i propri obiettivi politici. Il 12 per cento dei repubblicani e l’11 per cento dei democratici ha risposto di sì.

«Generalizzando questi risultati per l’intera popolazione americana» – hanno scritto – «significa che circa 20 milioni di americani approvano l’idea di assassinare un leader politico».

Molte ricerche dimostrano che, a partire dagli anni Novanta, gli americani hanno cominciato a identificarsi in due campi ideologici e sociali ben distinti – ricchi contro poveri, bianchi contro neri, cittadini contro immigrati, cristiani contro non cristiani – divisi da precise linee di appartenenza politica.

Chi sta da una parte pensa che chi sta dall’altra non sia più un essere umano, ma solo un nemico. Nel 2017, Kalmoe e Mason hanno scoperto che il 60 per cento dei repubblicani e dei democratici pensava che l’altro partito fosse “una minaccia”, il 40 per cento che fosse “il male”, il 20 cento che fosse composto da “non umani”. Tutte queste percentuali sono aumentate di molto sotto la presidenza Trump, più tra i repubblicani che tra i democratici.

Disimpegno morale

Il risultato di tutto questo è un clima che Kalmoe e Mason definiscono di “disimpegno morale”. Se pensi che il tuo avversario politico sia un subumano, qualcuno inferiore a te, allora è più facile pensare che sia giusto annientarlo in ogni modo. Il disimpegno morale non è violenza, ma è un precursore essenziale per la violenza politica. Ha modificato in profondità il linguaggio e il comportamento della politica negli Usa, e sta cominciando a farlo anche negli altri paesi del mondo.

Molte ricerche sociologiche e sociali dimostrano che la violenza politica è in enorme aumento in tutto il mondo.

Soprattutto i leader politici dovrebbero stare attenti a come usano le parole perché poi alle parole seguono i fatti, cioè le pallottole.

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