È complicato capire le motivazioni che stanno dietro quelli che ormai sono due tentativi di assassinio dell’ex presidente Donald Trump. Se nel primo caso lo shock è stato assoluto, come se certe cose ormai appartenessero a un remoto passato in bianco e nero, in questo che è stato un progetto sventato prima di essere compiuto sembra quasi un evento potenzialmente prevedibile.

Il potenziale assassino Ryan Wesley Routh è stato fermato mentre scappava. Si era appostato a circa 350 metri dal tycoon dopo aver scavalcato la recinzione del campo da golf di West Palm Beach in Florida, a qualche chilometro di distanza dalla sua residenza di Mar-a-Lago, mentre aveva con sé un fucile d’assalto Ak-47 e una telecamera Go Pro applicata su un elmetto. Inizialmente il tono utilizzato da Trump per descrivere l’accaduto è stato insolitamente piano e anodino. Poi è riaffiorata la retorica trumpiana nella sua forma più incendiaria, affidata a una cronista di Fox News: «Ha creduto nella retorica di Biden e Harris», ha detto del presunto attentatore. «La loro retorica è la ragione per cui mi sparano addosso, ma io sono quello che salverà il paese, mentre loro lo distruggeranno».

Così il tycoon si è allineato alle uscite più temerarie dei suoi sostenitori, come Elon Musk, che ha solleticato gli istinti complottisti della destra americana dicendo che «nessuno tenta di sparare a Kamala Harris o a Joe Biden», senza offrire spiegazioni di sorta. E nemmeno mancheranno le interpellanze e le indagini da parte della maggioranza repubblicana alla Camera, già dubbiosa sul lavoro del corpo di protezione dell’ex presidente in occasione della prima debacle a Butler, Pennsylvania, lo scorso 13 luglio, quando un proiettile sparato dal ventenne Thomas Matthew Crooks ha graffiato l’orecchio del tycoon. Per un breve periodo alcuni commentatori progressisti hanno sollevato dubbi sull’accaduto, data l’ondata di solidarietà ricevuta dall’ex inquilino della Casa Bianca in quell’occasione. Adesso, invece, i toni sembrano smorzati, anche se il deputato Mike Waltz ha detto che una certa retorica che dipinge «Trump come il prossimo dittatore o un possibile Hitler» deve cessare.

Il precedente di Reagan

Se sui motivi di Crooks, ucciso sul luogo dell’evento a luglio, ancora oggi c’è il mistero più assoluto, sul movente della persona fermata a West Palm Beach c’è qualche vago indizio. Si tratta di un cinquantottenne residente a Julien, in North Carolina, e registrato come democratico: sui social si esprime in favore dello sforzo bellico dell’Ucraina a tal punto da chiedere che gli ex militari americani vengano autorizzati a combattere come volontari. Non mancano nemmeno però post in sostegno di alcuni repubblicani, incluso Trump. Il mix ideologico di Routh risulta dunque difficilmente comprensibile. E del resto è ormai difficile distinguere la violenza politica dalle tristemente ordinarie sparatorie in luoghi pubblici come scuole o centri commerciali. In passato la violenza politica era ben connotata e spesso opera di gruppi organizzati: il Ku Klux Klan nelle sue varie incarnazioni successive alla Guerra civile americana o gruppi anarchici o di estrema sinistra operativi fino agli anni Settanta. Si può individuare un momento a partire dal quale la violenza contro i politici ha iniziato ad assumere un altro significato. Bisogna tornare al 30 marzo 1981, quando Ronald Reagan viene colpito da un proiettile sparato dal ventiseienne John Hinckley. Nelle prime ore giravano ipotesi di qualunque tipo sulle ragioni del gesto, compreso il coinvolgimento del Kgb sovietico, ma niente era più lontano dal vero.

Il diario di Hinckley, ritrovato qualche ora dopo, conteneva una frase inequivocabile: avrebbe assassinato il presidente per impressionare l’attrice Jodie Foster, in modo simile a quanto fatto dal personaggio di Robert De Niro nel film Taxi Driver. L’impoliticità del gesto era emersa in modo ancora più evidente quando si è poi scoperto che la stessa persona aveva tentato di colpire anche il predecessore di Reagan, Jimmy Carter, durante un comizio a Nashville, in Tennessee, nell’ottobre 1980. E forse da quell’istante si può tracciare un collegamento che può legare quell’azione ad altre più recenti, compreso il grave ferimento della deputata dem Gabby Giffords avvenuto l’8 gennaio 2011, a una sostanziale insensatezza alimentata da un isolamento sociale e alla solitudine degli autori, che abbiano idee politiche o meno.

Violenza ovunque

È un brodo di coltura simile anche quello dietro ad attacchi con armi da fuoco fatti per ragioni ideologiche più esplicite, come nella sparatoria avvenuta il 14 giugno 2017 a una partita di baseball dove partecipava Steve Scalise, l’allora vice leader del gruppo repubblicano alla Camera, che venne ferito gravemente, così come nell’attacco a una sinagoga di Pittsburgh nell’ottobre 2018 da parte di un cospirazionista di estrema destra che credeva a teorie disturbanti sul «genocidio dei bianchi». Esistono ancora organizzazioni estremiste attive sul territorio nazionale, ma le azioni più eclatanti vengono concepite da individui singoli che a volte non chiariscono neppure le proprie ragioni, né lasciano proclami. Si avverte dunque la volontà di queste persone di lasciare un proprio segno sulla storia in qualsiasi modo, cambiando il corso degli eventi. Un paradigma nuovo per gli atti di terrore che rende sempre più difficile il compito per le agenzie federali di pubblica sicurezza come il Secret Service e l’Fbi, che nei decenni passati monitoravano le organizzazioni sospette per evitare che potessero attuare attentati o altri attacchi all’autorità costituita. Ora anche individui come Routh, che hanno votato per Nikki Haley alle primarie repubblicane, possono costituire una minaccia che difficilmente può essere prevista, ma soltanto contenuta.

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