Nel paese la vendita di armi non ha limiti, anzi, è una delle fonti con cui i ribelli Houthi che controllano parte del paese riescono ad autofinanziarsi. Un business amplificato grazie ai social network
«In Italia non spedisco, è troppo lontano. Posso arrivare fino in Arabia Saudita», scrive il mercante d’armi Mahmoud (nome di fantasia per motivi di sicurezza). «Ho tutto quello che cerchi», garantisce. Pistole di diverso calibro, glock, fucili, Ak-47. Illustra il suo armamentario inviando messaggi e foto su Whatsapp come fossero prodotti che si trovano con facilità sugli scaffali di un qualsiasi supermercato.
«Questo costa 4000 real sauditi», scrive dopo aver inviato una foto di un Ak-74 di origine sovietica. Il prezzo equivale a poco meno di mille euro, spedizione inclusa. Mahmoud assicura che per spedire le armi in Arabia Saudita ci vogliono circa 10-15 giorni. E il pagamento avviene attraverso bonifici. Niente criptovalute, money transfer o altri mezzi più difficili da rintracciare.
In Yemen la vendita di armi non ha limiti, anzi, è una delle fonti con cui i ribelli Houthi che controllano parte del paese, dopo la brutale guerra civile scoppiata nel 2014, riescono ad autofinanziarsi. Un business amplificato grazie ai social network.
Il ruolo delle piattaforme
Il numero di Mahmoud, come quello di tanti altri venditori di armi come lui, si trova facilmente su X. La piattaforma di Elon Musk è la loro vetrina virtuale dove esporre fucili e pistole di ogni tipo. Pubblicano tariffari e foto delle merci a tutte le ore del giorno.
A fine agosto un’inchiesta del The Times rivelava come questo traffico di armi arricchiva i ribelli sciiti Houthi, che dal 7 ottobre scorso sono scesi in campo a sostegno di Hamas a Gaza contro Israele. D’altronde, nella capitale Sanaa, dove hanno sede i negozi fisici degli account virtuali, nulla si muove senza il controllo e l’autorizzazione dei ribelli.
A un mese di distanza dalla pubblicazione di quella inchiesta decine di account sono ancora attivi sulla piattaforma e rispondono alle domande degli utenti interessati all’acquisto delle armi. Alcuni venditori chiedono pagamenti in real sauditi, altri in moneta locale. Assicurano prezzi competitivi e soprattutto qualità. «Sono armi russe non cinesi, quindi più resistenti», dice uno dei trafficanti a un possibile acquirente. Un altro ancora propone in vendita un fucile d’assalto M6 a un prezzo di ottomila dollari statunitensi.
Altri, tra un’arma e l’altra, postano video dei discorsi pubblici di Abdul-Malik al-Houthi, leader militare e politico del gruppo ribelle, o di Ismail Haniyeh l’ex capo dell’ufficio politico di Hamas assassinato lo scorso 31 luglio a Teheran.
Gli Houthi sono considerati da alcuni paesi occidentali un’organizzazione terroristica. Ci sono quindi tutti gli estremi per bloccare i loro account, dato che vendere armi riconducibili al gruppo su X viola le regole della piattaforma. Ma i tagli al personale che modera i contenuti e la volontà di Elon Musk di garantire una maggiore libertà di espressione ha favorito la diffusione di un certo tipo di contenuti.
Il mercato interno
La maggior parte delle armi in vendita sono destinate al mercato interno. Lo Yemen è uno dei paesi con il più alto tasso di presenza di armi nel paese per popolazione, questo anche perché nella tradizione yemenita possedere un’arma è considerata una forma di prestigio. Ma i motivi principali sono due: l’instabilità di un paese storicamente dilaniato dai conflitti interni e l’incapacità degli apparati di sicurezza statali di difendere alcune comunità.
Secondo le stime di Small arms survey nel 2018 lo Yemen aveva il più alto numero di armi sul suo territorio dopo gli Stati Uniti, circa 14.9 milioni (52.8 ogni 100 abitanti).
In un report dell’Unodc (l’ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) si legge infatti che il paese «ha un mercato interno attivo e in gran parte non regolamentato per le armi leggere e di piccolo calibro» che favorisce quindi il business attraverso «sia negozi presenti nella maggior parte delle città principali, sia vendite da parte di commercianti di armi privati su piattaforme di social media come Facebook e Telegram».
Il traffico di armi dall’Iran
Gran parte di ciò che entra ed esce dallo Yemen è controllato dagli Houthi che dopo la violenta guerra civile scoppiata sono riusciti a prendere il controllo di diverse città (circa il 25 per cento del territorio) tra cui la capitale Sanaa e il porto strategico di Hodeidah – bombardato lo scorso 20 luglio – da dove passa circa il 70 per cento dell’import/export del paese.
Lo Yemen, per via della sua vicinanza al corno d’Africa, è sempre stato un territorio armato ma il conflitto civile iniziato nel 2014 ha alimentato il contrabbando per aggirare l’embargo imposto dai paesi occidentali ai ribelli.
Secondi i servizi di sicurezza statunitensi, e non solo, gran parte dell’arsenale in mano agli Houthi proviene dall’Iran. A testimoniarlo ci sono anche una serie di sequestri eseguiti all’interno di imbarcazioni dirette verso il porto di Hodeidah provenienti dall’Iran.
Al loro interno sono stati trovati missili anticarro guidati, fucili d’assalto, mitragliatrici e lanciarazzi. Secondo i dati dell’Unodc dal 2015 al 2023 sono state sequestrate almeno 29.253 armi leggere, 365 missili anticarro guidati e quasi 2.4 milioni di munizioni.
Le armi contrabbandate invece dal Corno d’Africa viaggiano soprattutto in piccoli carichi a bordo delle cosiddette dau, ovvero barche a vela tradizionali arabe lunghe massimo 35 metri. Meno battuta è invece la rotta terrestre che proviene dall’Oman, per via dei controlli delle forze governative.
Tuttavia, uno dei carichi più imponenti è stato sequestrato il 1° dicembre del 2022 quando la marina statunitense ha eseguito un’ispezione all’interno della nave Marwan-1. Hanno trovato oltre 1 milione di munizioni. I marchi e l’imballaggio coincidevano con quelli di manifattura iraniana e secondo alcuni documenti sequestrati a bordo, l’imbarcazione era originaria della città di Bandar Abbas nel sud dell’Iran.
I pasdaran, infatti, hanno sostenuto fin dal primo momento gli sciiti Houthi fornendo finanziamenti, informazioni d’intelligence e armi. Il tutto con un obiettivo ben preciso: avere un alleato militare nella regione in opposizione all’Arabia Saudita e Israele. E così in pochi anni gli Houthi sono entrati a far parte del cosiddetto asse della Resistenza, di cui fanno parte anche Hamas ed Hezbollah e stanno sostenendo le guardie rivoluzionarie nella loro guerra per procura contro Israele.
Il ruolo nel Mar Rosso
In risposta all’operazione militare israeliana su Gaza, dal 7 ottobre scorso gli Houthi hanno attaccato con droni e missili lo stato ebraico. L’ultimo attacco è avvenuto il 15 settembre con un missile ipersonico lanciato in direzione di Tel Aviv e intercettato dai sistemi di difesa aerea. Benché i loro droni e missili non hanno causato danni rilevanti, gli Houthi sono stati invece capaci di incidere nel Mar Rosso dove hanno preso di mira le navi mercantili occidentali.
Questo ha spinto i paesi dell’Unione europea a organizzare la missione militare Aspides, per difendere le navi che transitano nel tratto marittimo che si affaccia poi nel Canale di Suez.
Si tratta di una missione di natura difensiva, in cui le navi militari europee possono attaccare solo per legittima difesa, diversamente dall’altra missione, quella chiamata Prosperity Guardian guidata da Washington e Londra con il favore di diversi paesi occidentali e anche qualcuno arabo. Ciò nonostante gli Houthi continuano ad attaccare i mercantili. L’ultima nave a farne le spese è stata la petroliera greca Sounion che le marine hanno scortato in salvo evitando un disastro ecologico nel cuore del Mar Rosso.
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