Nelle ultime ore, prima del probabile attacco contro Israele da parte dell’Iran e dei suoi alleati, la diplomazia americana si è adoperata in ogni direzione affinché la rappresaglia iraniana avvenisse in forme simili a quella scatenata in aprile. La Repubblica islamica ha promesso “vendetta” per l’uccisione – che attribuisce a Israele – del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, il 31 luglio a Teheran dove si era recato per la cerimonia di insediamento del nuovo presidente iraniano, Massoud Pezeshkian.

Lo stesso giorno, Israele ha ucciso Fuad Shukr, un comandante di alto rango di Hezbollah in un attacco a Beirut. In aprile, Teheran aveva attaccato direttamente Israele con più di 300 missili e droni in risposta all’uccisione di un generale dei pasdaran nel compound dell’ambasciata iraniana a Damasco. Dopo aver usato in passato nelle proprie rappresaglie i suoi vari proxy regionali, l’Iran ha creato così un precedente importante: il primo attacco diretto su suolo israeliano.

Vista l’onta di aver subito l’omicidio di un alleato come Haniyeh nella sua capitale, la risposta del regime degli ayatollah è considerata inevitabile da Israele e i suoi alleati occidentali. A un attacco iraniano, potrebbero aggiungersi i suoi alleati regionali: Hezbollah in primis, ma anche gli Houthi dallo Yemen e le milizie sciite di Siria e Iraq.

In questo contesto, gli sforzi dell’amministrazione Usa si sono concentrati nel far sì che la risposta iraniana si concretizzi in quella forma “coreografata” con cui la rappresaglia di aprile si era svolta: un attacco su obiettivi militari, ampiamente annunciato, che ha dato la possibilità a Israele, con l’aiuto di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Giordania di neutralizzare praticamente ogni missile e drone, limitando al massimo i danni a cose e persone.

«Assisteremo a un attacco come quello di aprile, magari più intenso, ma con le stesse modalità», dice a Domani Kobi Michael, ricercatore senior all’Institute for National Security Studies di Tel Aviv ed ex vicedirettore generale e capo del desk per la Palestina al ministero degli Affari Strategici. Nei giorni scorsi, l’amministrazione Biden ha aggiunto in maniera significativa risorse militari nella zona, incluso portaerei, navi e piloti militari, dopo aver enfatizzato in varie dichiarazioni che l’intento americano è quello di contenere una possibile escalation e proteggere Israele.

Ostaggi e cessate il fuoco

Nel contempo, il governo statunitense ha continuato a insistere con i propri omologhi israeliani sulla necessità di raggiungere un accordo per il cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi, come prima tappa della de-escalation del conflitto in Medio Oriente.

Gli studiosi dell’Inss Eldad Shavit e Chuck Freilich hanno notato in un intervento pubblicato domenica che lo spiegamento di forze nella zona da parte Usa è molto probabilmente dettato dal timore che l’imminente attacco iraniano possa arrecare danni e vittime, tali da costringere Israele a rispondere pesantemente, in una spirale di violenza che può velocemente trasformarsi in una guerra aperta.

In un tale scenario, continuano Shavit e Freilich, anche gli Stati Uniti potrebbero trovarsi a essere coinvolti anche rispondendo militarmente in maniera diretta all’Iran. «Dal punto vista americano, se la risposta iraniana è neutralizzata (in maniera simile all’attacco di metà aprile) Israele si asterrà dal rispondere e lo scontro sarà contenuto», concludono gli studiosi.

Lunedì l’Iran ha fatto sapere che non rinuncerà a un’azione di rappresaglia nei confronti di Israele, ma di voler evitare un’escalation del conflitto. «L’Iran, basandosi sul suo diritto intrinseco fondato sui principi del diritto internazionale di punire l’aggressore, intraprenderà un’azione seria e deterrente con forza, determinazione e fermezza», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Nasser Kanani, aggiungendo che «l’Iran non cerca di aumentare le tensioni nella regione».

I timori elettorali

La situazione potrebbe degenerare velocemente e gli sforzi diplomatici, principalmente degli Stati Uniti, sono concentrati in assicurarsi che i paesi che hanno contenuto l’attacco iraniano di aprile, siano coinvolti anche questa volta. «È molto importante che non ci siano danni a infrastrutture civili o, soprattutto, vittime civili, perché in questo caso Israele risponderà pesantemente e gli Stati Uniti non potranno fermarci», sottolinea Michael.

Inoltre, un attacco pericoloso potrebbe arrivare anche dai proxy iraniani, che sinora hanno usato contro Israele solo una parte limitata del proprio arsenale. Per esempio, Hezbollah, che ha lanciato razzi e droni su Israele dall’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, non ha mai utilizzato i missili a lunga gittata, di cui è fornito e che potrebbero raggiungere il centro dello Stato ebraico, dove la maggior parte degli israeliani vive in zone molto densamente popolate.

Malgrado l’appoggio statunitense di questi giorni, dietro le quinte, la tensione tra Israele e l’amministrazione israeliana è rimasta molto alta. «Smettila di prendermi per i “fondelli”», avrebbe detto il presidente Biden al primo ministro Benjamin Netanyahu in una conversazione di pochi giorni fa.

Il fallimento del piano di pace, perseguito da Biden, e un maggiore coinvolgimento degli Usa nel conflitto in Medio Oriente è ciò che l’amministrazione democratica vuole maggiormente evitare, negli ultimi mesi di campagna elettorale prima delle elezioni presidenziali di novembre. Elezioni sul cui esito incerto peseranno anche gli sviluppi nella regione.

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