L’attuale conflitto in Medio Oriente è già diventato il più lungo di tutti quelli affrontati dallo stato ebraico. Bisogna provare a negoziare: tentare di eliminare tutti i nemici in una volta non porterà a una pace duratura
Israele è dentro la più lunga guerra combattuta dalla nascita dello stato. La prima guerra arabo-israeliana durò 10 mesi (dal 15 maggio 1948 al 10 marzo 1949). Quella in corso già 12 mesi. E non accenna a terminare. Forse diverrà anche regionale perché si sta allargando, come dimostra la rappresaglia contro Teheran. Nella strategia del caos nessuno pare voler negoziare la sua fine, né Hamas priva di Yahya Sinwar, né Hezbollah senza Hassan Nasrallah.
È tipico dei movimenti terroristi contemporanei non dichiararsi mai sconfitti, cambiando strategia e alternando periodi di forti combattimenti con altri di stasi, per poi ricominciare. Le altre guerre finirono prima: cinque mesi quella del 1956; nel 1967 la più famosa quella dei sei giorni; nel 1973 la guerra del Kippur durò 19 giorni. Soltanto l’operazione pace in Galilea in Libano si è prolungata per 3 anni circa, ma la fase acuta proseguì dal giugno all’agosto 1982, quando l’Olp lasciò Beirut.
Poi ci fu quella contro Hezbollah del 2006 che durò 34 giorni. Questa lista serve a rendersi conto quanto oggi si stia andando ad un conflitto permanente che nessuno vuole o può arrestare. In tutti gli altri casi la comunità internazionale si attivò subito, Stati Uniti in primis, per fermare i combattimenti, in particolare facendo pressione su Israele, ad esempio arrestando la sua controffensiva nel 1973 o obbligandolo al ritiro dal Sinai nel 1956.
Anche nelle guerre in Libano si cercò di limitare i danni, chiedendo a Israele di indietreggiare. Occorre rammentare la storia per non incorrere in errori di giudizio politici, come quelli di considerare l’azione dell’Unifil alla luce solo della visione di una parte o degli accadimenti delle ultime settimane o poco più.
Oltre il presente
Un po’ di profondità storica evita di schiacciarsi sull’attimo presente: ciò non solo rende il quadro più chiaro ma fa capire dove e come si potrebbe intervenire. La non applicazione della risoluzione 1701 dell’Onu rese da subito le cose molto complicate in Libano sud: l’allora premier libanese Fuad Siniora ricorda che appena dopo il voto della risoluzione il 28 agosto 2006, Israele sparse cluster bombs sulla regione che stava sgombrando, segno che non si fidava fin dal principio. Hezbollah non fu da meno.
Così come la non applicazione degli accordi di Minsk II è stata una delle cause politiche della guerra attuale in Ucraina, anche la non applicazione della 1701 in Libano è una delle cause per la non-soluzione della contesa tra Hezbollah e Israele. Prima lezione da trarre: la comunità internazionale deve seguire i processi di pacificazione concentrandosi perché siano applicati, costringendo le parti senza perdere la concentrazione come spesso avviene.
Gli accordi vanno applicati fino in fondo: l’assenza di accordo o la sua non-applicazione è sempre motivo di ripresa della guerra. Si possono fare tanti esempi, il cui più lampante è forse quello tra Armenia e Azerbaijan: dopo 25 anni di stasi senza soluzione politica, la guerra è riesplosa facendo tornare indietro la storia. In Libano si deve ricominciare da tale consapevolezza prima che sia troppo tardi: smilitarizzare davvero l’area, cosa che i contendenti finora non hanno voluto fare.
Hezbollah lancia missili sulla Galilea e Israele non sa immaginare altra soluzione se non quella svuotare il Libano sud dalla sua popolazione (almeno la parte sciita) come se potesse decidere su un paese sovrano. Ma nessun libanese sparirà da un giorno all’altro per volere di Israele.
La trattativa che non c’è
Senza trattativa si produrrà soltanto una serie infinita di guerre. Secondo la mentalità occidentale non si può mettere sullo stesso piano uno stato sovrano con un movimento miliziano e terrorista, che oltretutto si rifornisce a Teheran.
Purtroppo però la geopolitica non si realizza con i pii desideri. La dura realtà è che dal punto di vista libanese, arabo o iraniano (ma anche del sud globale), Hezbollah è un attore legittimo che sta in guerra per difendere la propria nazione. Non ti puoi scegliere il nemico che vuoi: nemmeno Israele può farlo.
Bisogna abbandonare l’illusione che sia l’Occidente a decidere chi siano i contendenti, quali qualità abbiano o quale sia la loro legittimità. Per questo c’è da considerare il coinvolgimento dell’Iran nella partita della pace in Libano e finché ciò non accade la guerra continua.
Ha ragione Alessia Melcangi quando punta il dito sulle contraddizioni degli occidentali i quali da una parte difendono i principi incarnati dall’Onu in Ucraina e dall’altra sembrano permettere ad Israele di attenuarli in Libano sud: «L’abbandono del territorio da parte dell’Unifil (…) vorrebbe dire mettere in discussione tutto l’impianto valoriale dell’Onu…significherebbe accertare il fallimento definitivo dell’idea di Nazioni Unite contro la guerra. La pace si sa è un lavoro difficile ma non si realizza con le minacce e le bombe».
Il pericolo del doppio standard
Mi permetto di aggiungere che porterebbe alla vittoria dei nemici dell’Occidente che considerano l’Onu una costruzione basata sui valori occidentali (vedi ciò che dice Vladimir Putin): sarebbe il suicidio del modello multilaterale occidentale. Utilizzare la tattica del doppio standard non paga: l’Occidente dovrebbe ormai averlo capito. Qui va detto che nemmeno l’attuale governo di Israele crede in questi valori ma solo nella forza. La tattica israeliana è quella di distruggere tutti i suoi nemici in un colpo solo: un abbaglio assoluto (sostenuto dalla hybris tecnologica oltre che dall’estremismo politico-religioso) anche perché una tale vittoria, se pure accadesse, preparerebbe soltanto la rivincita di domani.
La fine della guerra invece avverrebbe con la soluzione della questione palestinese e la nascita dei due stati: molto difficile da immaginare oggi se non paradossalmente proprio a Gaza distrutta. In ogni caso la politica del governo Netanyahu è solo apparentemente filo-occidentale: si tratta di un “falso amico” perché non crede negli stessi valori, almeno non in tutti. Lo si è visto con la polemica sulla giustizia e sul ruolo della corte suprema nella fase precedente al 7 ottobre.
Lo stato di diritto
La guerra inquina tutto facendo impallidire lo stato di diritto come scrive Agostino Giovagnoli, che ci consegna una seconda lezione: «È importante che la classe politica torni ad imparare dalla storia del XX secolo una lezione valida anche oggi: pace e democrazia sono inseparabili».
Governi sovranisti e autoritari puntano alla contrapposizione e al conflitto, come dimostra il fastidio per ogni critica e il desiderio di trasformare ogni elezione in plebiscito allo scopo di andare oltre lo stato di diritto. La pace è una fragile costruzione così come la democrazia: entrambe sorgono da un negoziato permanente, dove nessuno ha tutto il potere né decide al posto di altri ma cerca sempre il compromesso che permetta a tutti di vivere. Un altro modo per dire: vivi e lascia vivere.
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