L’esercito israeliano continua ad attaccare e avanzare nella Striscia di Gaza. Ad un ritmo sempre più serrato. Nei raid condotti nella notte è stato bombardato il quartiere di Deir el-Balah, da dove Hamas domenica sera aveva lanciato almeno 10 razzi. Solo nelle ultime quarant’otto ore sono decine i morti, ben oltre cinquanta, e almeno 140 feriti.

L’obiettivo è chiaro: svuotare la Striscia, in un modo o nell’altro. Secondo l’organizzazione per i diritti umani Breaking the Silence, le Forze di difesa israeliane controllerebbero ormai più della metà del territorio gazawi. L’esercito ha inoltre creato un nuovo corridoio di separazione all’interno dell’enclave palestinese, il “corridoio Morag”. La creazione di questa ulteriore linea di separazione era stata annunciata il 2 aprile dal primo ministro Benjamin Netanyahu, quando aveva dichiarato di aver «cambiato marcia a Gaza».

Il ministero della Salute della Striscia insiste ad aggiornare la conta delle vittime: dalla ripresa dell'offensiva israeliana, il 18 marzo, sono stati uccisi 1.391 palestinesi e 3.434 feriti, mentre all'inizio della guerra, 50.752 palestinesi sono stati uccisi e 115.475 sono rimasti feriti. Non solo: i media arabi riferiscono che sempre secondo l’ufficio stampa del governo di Gaza, nella Striscia negli ultimi 20 giorni sono stati uccisi 490 bambini. Una strage senza fine.

Terra bruciata

È sempre Break the Silence a riferire, con la pubblicazione del report “The Perimeter”, la creazione di una “kill zone” profonda circa un chilometro lungo il perimetro interno della Striscia: l’IdF ha spianato tutto questo lembo di terra per creare uno spazio entro il quale, secondo le testimonianze dei soldati israeliani a Gaza raccolte nel report, ai militari sarebbe stato dato «l'ordine di annientare deliberatamente, metodicamente e sistematicamente tutto ciò che si trovava all'interno del perimetro designato, dove sono compresi interi quartieri residenziali, edifici pubblici, istituti scolastici, moschee e cimiteri, con pochissime eccezioni».

In pratica, chiunque entri nella “kill zone” diventa un bersaglio.

La morte dei cronisti

Uccisi nella notte tra domenica e lunedì anche altri due giornalisti, il fotoreporter di Al Jazeera Mahmoud Awad, e il giornalista di Wuds News Network, Helmi Al-Faqawi, durante un attacco nel quale era stata presa di mira una tenda della stampa nei pressi dell’ospedale Nasser di Khan Younis. Una decina i feriti, tra cui il reporter di Palestine Today, Ahmed Mansour, rimasto bloccato tra i teloni incendiati mentre i suoi colleghi morivano tra le fiamme.

Mansour, conferma anche Palestine Today, si trova al momento ricoverato in condizioni critiche. Anche la reporter Islam Meqdad è stata uccisa il giorno prima durante un attacco nella zona di Khan Younis, insieme al marito e al figlio. Sale così a 235 il numero dei giornalisti o professionisti del settore assassinati dal 7 ottobre, secondo il progetto Costs of War del Think Tank americano Watson Institute for International and Public affairs.

La guerra a Gaza diventa così la più mortale di sempre per i reporter: i dati raccolti dimostrano che il numero di giornalisti uccisi in questo conflitto è superiore a quello delle due guerre mondiali, della guerra del Vietnam, della guerra in Jugoslavia e della guerra degli Stati Uniti in Afghanistan messe insieme.

Intanto la situazione di chi vive all’interno della Striscia diventa sempre più insostenibile. Le voci su un possibile ingresso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza nelle prossime settimane sono state seccamente smentite: i confini non verranno riaperti. A dichiararlo è il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich: «Non entrerà nel territorio neanche un chicco di grano».

Secondo il ministro Israele starebbe «agendo in conformità con le direttive politiche. Israele non ha consegnato e non consegnerà alcun aiuto ad Hamas». I panifici sono chiusi da ormai una settimana a causa della mancanza di farina, da più di cinque settimane i valichi sono chiusi non entra nessun tipo di aiuti. Numerosi gli appelli delle organizzazioni umanitarie internazionali, tra cui Medici Senza Frontiere, secondo cui la condotta del governo israeliano nega le necessità più basilari della popolazione civile.

Il tour del premier

Continua intanto il tour all’estero di Benjamin Netanyahu, nonostante il mandato di arresto della Corte penale internazionale. Partito da Budapest dopo aver ringraziato Orban perché «ci difende nell'Unione europea, ci difende alle Nazioni Unite e, non di meno, alla corrotta Corte penale internazionale», il premier è atterrato domenica negli Usa per discutere con Trump di «dazi, guerra a Gaza e ostaggi».

Poco dopo l’atterraggio a Washington, Netanyahu ha incontrato l'inviato speciale della Casa Bianca per il Medio Oriente, Steve Witkoff, subito prima del bilaterale con il presidente. Secondo alcune fonti, il colloquio ha avuto al suo centro le trattative per la liberazione degli ostaggi. Le discussioni avrebbero anche affrontato anche «il tentativo dei mediatori di arrivare a un nuovo compromesso per un accordo».

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