Netanyahu insiste con la politica del fatto compiuto e ridisegna i confini. Ma la mossa siriana potrebbe indispettire i sunniti e cambiare gli equilibri
La campagna israeliana nella Siria senza più Hezbollah e Pasdaran (quanto ai russi, si vedrà) prosegue sotto lo sguardo impotente, e in qualche caso interessato, della ormai “fu” comunità internazionale, completamente fuori gioco nell’incandescente era del ritorno in auge della guerra come “normale” strumento della risoluzione dei conflitti.
La campagna più strettamente militare si concretizza in centinaia di attacchi aerei - da ultimi quelli, molto pesanti, sulle aree di Tartus e Lakatia dove vi sono le basi russe ma anche gli arsenali di Assad - in territorio siriano, mirati a distruggere gli armamenti che, secondo Tel Aviv, potrebbero essere usati, magari più in là nel tempo, dalle forze che hanno preso il potere a Damasco.
Gli attacchi preventivi
Così, Israele colpisce “preventivamente” uno stato sovrano in nome della propria sicurezza nazionale. Non per come agisce ma per come potrebbe agire. Un precedente preoccupante, tanto più in un terreno del sospetto come la politica internazionale: se lo facessero proprio schiere di imitatori, il mondo diverrebbe una sorta di infinito “OK Corral”, in cui lo sceriffo legittimato a mettere ordine è paralizzato e le sfide infernali non hanno fine.
Perché Israele agisca così è evidente. Al di là delle rassicurazioni fornite dai nuovi signori di Damasco, ovvie e di circostanza in simili frangenti, Tel Aviv teme che un nuovo regime ostile, questa volta di matrice sunnita, si stabilizzi ai suoi confini.
Del resto, la Turchia di Erdogan, nuovo dominus in quella parte della Mezzaluna fertile, sostiene politicamente Hamas; il nucleo più strutturato ideologicamente del nuovo potere, quello islamista di matrice ex-qaedista che fa capo a Ahmad -al- Sharaa, ormai ex-alias Al Jolani, e alla radicata Fratellanza musulmana siriana, non può certo avere una posizione diversa; così come le meno numerose, ma più incontrollabili, schegge, più o meno impazzite, costituite da transnazionali militanti dell’Isis.
Difficile che questo ribollente coacervo di forze sunnite, ispirate dalla realpolitik e dai non troppo miti consigli di antichi e nuovi protettori, decida di attaccare Israele: Gaza e il Libano, Hamas e Hezbollah, duramente colpiti dall’Idf, sono l’inconfutabile prova della forza dello stato ebraico, di colpi molto duri che, per essere riassorbiti, necessitano di tempi lunghi e tregue, poco importa se convinte o meno.
Il nuovo uomo forte del paese lo ha ammesso senza perifrasi. Scenario che conosce bene anche Israele, tanto che per convivere con il rischio connesso a un simile vicino esige che almeno non possa infliggere seri danni.
Bibi ridisegna i confini
Al contempo, Israele sposta in avanti i suoi confini, in nome di quella dottrina della sicurezza cara alla destra nazionalista Likud, il partito del redivivo Bibi, ma non solo. Approfittando del tracollo di Assad, Netanyahu invia truppe nella zona smilitarizzata al confine tra Siria e Israele per impedire agli insorti fattisi stato di entrarvi, occupa il versante siriano del Monte Hermon e dichiara decaduti gli accordi del 1974 con Damasco.
E per far capire ai nuovi governanti damasceni che, in futuro, sul punto non ci sarà alcun contenzioso, approva, e finanzia, un piano di reinsediamento nel Golan occupato - solo gli Usa di Trump ne hanno riconosciuto l’annessione del 2019 - che prevede il raddoppio della popolazione israeliana nelle alture. Situazione che “obbligherà” a una più estesa protezione dell’area, dunque allo schieramento di nuove truppe, sino a rendere impossibile ogni ritorno ai confini del 1967. Qui come altrove.
Tutti episodi della saga della politica del fatto compiuto divenuta la costituzione materiale della politica estera e militare di Israele da decenni a questa parte. Saga che delegittima ogni residua parvenza di diritto internazionale, mostrando come sovrana sia la nuda forza.
Un benvenuto, che non piacerà ai nuovi governanti di Damasco. E che, nonostante Trump, renderà assai più complicato siglare gli invocati Accordi di Abramo. Nemmeno lo spregiudicato Bin Salman potrebbe firmarli ora: tanto più mentre gli odiati iraniani non costituiscono più una minaccia calda. Come spesso accade a Israele, però, le “sbornie” militari provocate dalla relativa “facilità” con cui si vincono le guerre, fanno dimenticare i problemi che quelle stesse vittorie generano sul lungo periodo.
La finta calma di al Jolani
Messi fuori gioco gli islamisti sciiti, ora Israele si trova in Siria di fronte a quelli sunniti in veste nazionale e statuale. Per di più protetti da un paese Nato come la Turchia neottomana del “sultano” Erdogan, che punta a rinsaldare un asse sunnita che va da Ankara a Damasco via Aleppo, ormai crocevia strategico dell’influenza turca nel paese.
Per quanto l’ex-qaedista Sharaa non pensi più al jihad globale, difficile che, una vota rafforzatosi e pagato i suoi “pegni” alle potenze che lo hanno appoggiato (Turchia versus curdi in primis), accetti che Israele possa fare ciò che vuole oltre confine. È la contraddizione su cui punta l’Iran, decisa a ritagliarsi un ruolo nel paese, agendo questa volta più come potenza farsi, persiana, che sciita, contando sull’ostilità antisraeliana e il neoisolazionismo a stelle e strisce.
La celere riapertura dell’ambasciata a Damasco è un preciso segnale in questo senso. Mira a impedire la definitiva estromissione dell’Iran dalla Siria, reclamata a gran voce, insieme a quella della Russia, da Europa e Usa.
Nel frattempo, si alza il vento sunnita del Golfo: Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, chiedono a Israele di rinunciare a insediare le nuove colonie nel Golan. Trasformare una vittoria militare in vittoria politica non è automatico. Nemmeno per Israele.
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