Irrompe nel Medio Oriente un rompicapo avvolto in un enigma, e in tre giorni, tre straordinari giorni, all’improvviso cambia tutto. Le prossime settimane ci diranno quale amalgama emergerà della caotica alleanza di milizie che dopo 53 anni ha smantellato l’interminabile dittatura degli Assad; e soprattutto se il crollo del regime dia inizio a un percorso verso la democrazia, inevitabilmente tortuoso, oppure conduca a una furibonda mischia etnica che risucchierebbe tutti i confinanti.

Ma intanto prendiamo atto che in 72 ore la storia ha voltato pagina. Lo scontro tra Israele e l’Iran non è più il motore degli eventi, Usa e Russia all’improvviso si scoprono attori marginali, riconquista il centro della scena l’antico signore dei deserti arabi, la Turchia neo-ottomana; e gli europei che con l’accordo Sikes-Piqot spartirono il Medio Oriente in zone d’influenza a distanza di un secolo risultano completamente, desolatamente estranei al futuro assetto della regione.

È abbastanza per inverare la promessa del governo Netanyahu, «cambieremo il Medio Oriente», però non nei termini immaginati dalla geniale destra israeliana. Netanyahu adesso celebra la caduta di Assad come una propria vittoria ma il suo governo in realtà è così preoccupato che per evitare sorprese ieri ha mandato l’esercito a occupare la “zona-cuscinetto” al confine con la Siria, in violazione degli accordi che cinquant’anni fa chiusero la guerra del 1974.

L’origine degli inespressi timori israeliani è la consapevolezza tardiva di aver prodotto un imprevisto effetto-boomerang. Smantellando gli asset militari di Hezbollah anche in Siria, Israele ha privato il regime di Bashar al-Assad delle truppe di terra che gli sarebbero state necessarie per fermare l’avanzata dei ribelli. Al regime rimanevano la spietata aviazione russa, in grado di radere al suolo intere città ma inefficace contro un nemico tanto più mobile quanto poveramente attrezzato; e i “lealisti” fedeli ad Assad, però poca cosa a giudicare dalla velocità con la quale sono scappati con il gruzzolo in Libano e in Giordania.

Il boomerang per Israele

L’avanzata dei ribelli è stata travolgente. Risultato: adesso il governo israeliano si trova ai confini un vicino imprevedibile, una presenza agitata da misteriosi spiriti laddove prima c’era la debolezza rassicurante di un regime sfibrato col quale bene o male era stata raggiunta una modalità di convivenza - Damasco non tentava ritorsioni quando Israele colpiva Hezbollah in territorio siriano e Israele non sfiorava gli uomini e gli asset di Assad.

La fine della dittatura è solo un problema per Israele. Ma il governo Netanyahu potrebbe leggerla come un’opportunità nel caso che la Siria si disfacesse in uno scontro tra sunniti, alawiti, drusi, curdi, cristiani. Il disastro aizzerebbe a Gerusalemme bulimie bibliche. Dopotutto parte della Siria è compresa nella terra «dal fiume dell'Egitto (il Nilo) al grande fiume, il fiume Eufrate» che il dio della Genesi assegna alle tribù ebraiche.

Inoltre, Isaia 17: «Damasco è tolta dal numero delle città e non sarà più che un ammasso di rovine». Nella destra israeliana non manca chi prende sul serio queste profezie.

Se invece la Siria scampasse al tribalismo etnico e riuscisse a trovare un suo percorso verso una qualche democrazia, l’evento entrerebbe nella storia come il primo vero successo, sia pure posticipato, di una “primavera araba”: motivo per il quale tutti i regimi dell’area cercheranno di sabotare quell’esito.

Tredici anni fa, quando la ribellione incendiò Damasco, sovrani e tirannie laiche del Medio Oriente temettero che il cattivo esempio contagiasse i loro sudditi e si rallegrarono quando Assad riuscì a riprendere il controllo estremizzando il sistema col quale anch’essi governano: camere di tortura, omicidi extra-giudiziali, piccoli o grandi massacri pedagogici. Ai soliti metodi Assad aggiunse una strategia efficace: affinché il nemico interno risultasse odioso alla società e agli occidentali, mentre si accaniva sui detenuti “laici” liberò stuoli di prigionieri ultra-fondamentalisti in seguito confluiti nell’Isis (e spesso rimasti in contatto con i servizi segreti siriani).

Come gli apparati di Assad disponevano di pedine all’interno dell’Isis, così altri servizi segreti dell’area certamente dispongono di affiliati dentro la babele dei ribelli che ora sono a Damasco, e cercheranno di usarli per tutt’altri interessi che quelli della Siria.

La questione profughi

Ma anche se parte della rivolta potrebbe risultare eterodiretta, molti altri insorti, quali che siano stati in precedenza i loro percorsi, negli anni della resistenza probabilmente hanno introiettato un patriottismo autentico. Il loro successo sarebbe decisivo per richiamare in patria tanti tra i cinque milioni di siriani che in questi anni sono riparati all’estero (un milione solo in Germania). Si tratta della popolazione araba più istruita della regione e in teoria della più amichevole verso i Paesi Ue, almeno laddove non avesse subito soperchierie eccessive nelle terre d’esilio.

Potrebbero diventare la colonna vertebrale della futura democrazia siriana, il propulsore di una vera “rivoluzione araba”, il ponte tra Medio Oriente ed Europa. Dipenderà anche dal sostegno che i siriani democratici riusciranno a trovare in Occidente, dove al momento regna la diffidenza verso i ribelli: ma prima di inorridire (“sono islamisti!”) varrebbe la pena di tentare di capire di quale “islam” stiamo parlando.

Lascia ben sperare il fatto che le milizie insorte, tutte sunnite, finora abbiano ribadito che le minoranze non devono temere. Cristiani e, a quanto risulta, alawiti finora non hanno subito aggressioni di sorta. Più problematico potrebbe risultare la relazione tra guerriglieri arabi e guerriglieri curdi, soprattutto dove i primi sono controllati da Ankara.

La Turchia è stata l’alleato decisivo della resistenza siriana ma se incitasse i “suoi” miliziani ad attaccare i territori controllati dal Pkk curdo, rovinerebbe la propria vittoria precipitando il nord-est nella guerra e sabotando la futura stabilità del Paese - un esito tragico di cui Erdogan porterebbe per intero la responsabilità.

Se stiamo a quanto detto ieri dal ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, Ankara è consapevole che è nell’interesse turco aiutare la “post-primavera” siriana a diventare una storia di successo. Fidan parlava a margine di un incontro in Qatar cui hanno partecipato i due sconfitti, Iran e Russia.

I timori russi

Per bocca del suo ministro degli Esteri, Lavrov, Mosca ora strilla contro i vincitori («Terroristi!», accusa bizzarra da parte di un regime che con i suoi bombardieri ha sterminato migliaia di siriani inermi) e chiede una «soluzione politica» che tuteli i propri interessi. In particolare la Russia teme per Tartus, l’unica sua base navale nel Mediterraneo, e per Khmeimim, l’aeroporto militare dal quale ieri Assad sarebbe volato a Mosca Assad.

Suona come un’ammissione di debolezza da parte di quella Russia “imperiale” che tra le gravi difficoltà dell’economia e il colpo incassato in Siria pare assai più malmessa di quanto la raccontino anche in Italia gli odiatori dell’Ucraina. Ma se l’idea della “soluzione politica” è la proposta di una conferenza internazionale che riattivi la diplomazia multipolare e provi a placare con un sistema di regole le crisi in atto (Ucraina, Gaza, Siria) sarebbe sciocco perdere questa occasione.

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