Mentre si decide l’assegnazione degli ultimi seggi, tra nomine e dimissioni il tycoon avrà una maggioranza esigua in uno dei due rami del Congresso: fino a inizio aprile un solo voto di maggioranza. I precedenti non fanno prevedere una navigazione tranquilla per i primi mesi di presidenza e le continue ingerenze di Elon Musk, sempre più atteggiato a co-presidente, non aiutano
Dopo oltre tre settimane dal voto che ha rieletto presidente Donald Trump, i numeri della nuova Camera dei rappresentanti americana appaiono incerti e non garantiscono affatto la stabilità che il nuovo inquilino della Casa Bianca cerca per i suoi primi mesi di mandato.
L’ultimo risultato ad arrivare, anche se non definitivo, è quello del tredicesimo distretto della California, con la vittoria quasi certa del democratico Adam Gray che sconfigge per poco più di cento voti il deputato repubblicano in carica John Duarte.
Numeri risicati
Quindi il conteggio finale sarebbe di 220 deputati repubblicani e di 215 democratici. Numeri risicati che in realtà sono davvero al limite della parità, se si va a vedere con attenzione. Intanto perché il deputato della Florida Matt Gaetz si è dimesso a metà ottobre dopo la nomina a procuratore generale, poi ritirata per la diffusa opposizione del gruppo repubblicano al Senato. E quindi il pallottoliere scende a 219.
Poi ci sono altre due nomine fatte dal presidente eletto nella sua amministrazione: la deputata di New York Elise Stefanik è stata nominata ambasciatrice presso le Nazioni unite mentre il suo collega della Florida Mike Waltz sarà il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale.
A quel punto i numeri scenderanno a 217. In teoria non sarebbero nemmeno sufficienti per rieleggere Mike Johnson come speaker, dato che gliene occorrono almeno 218.
Siccome però il Congresso si insedierà il prossimo 3 gennaio, Stefanik e Waltz dovrebbero dimettersi dopo il 20, quando Trump entrerà nuovamente alla Casa Bianca. E a quel punto i numeri saranno 217 a 215, almeno fino alle suppletive in Florida del 1° aprile. Basterà quindi un singolo deputato a far fallire le mozioni proposte dalla maggioranza.
E il precedente biennio ha dimostrato come il gruppo repubblicano sia tutt’altro che coeso. Non solo perché rimangono gli ultraliberisti estremi come il texano Chip Roy o Thomas Massie del Kentucky che potrebbero avere da ridire su tagli alla spesa pubblica non incisivi a sufficienza.
Con Donald Trump però pronto a chiamare all’ordine, questi oltranzisti potrebbero essere decisamente ridimensionati. Ciò che invece potrebbe non avvenire con un altro gruppo, quello dei moderati eletti in seggi a maggioranza democratica, come il deputato newyorchese Mike Lawler o Don Bacon del Nebraska, che potrebbero avere qualche problema ad approvare provvedimenti di matrice eccessivamente trumpiana e a farsi rieleggere allo stesso tempo in un territorio politicamente ostile. Evitando di apparire troppo ossequienti nei confronti del prossimo presidente.
Su certi provvedimenti però ci può essere una sorta di “soccorso blu” da parte di deputati moderati dem eletti in distretti a maggioranza repubblicana, come Jared Golden in Maine, che infatti ha messo le mani avanti dicendo che si potrà contare sul suo voto favorevole per ciò che è «utile ai cittadini del Maine». Senza contare che nello scorso biennio ci sono state molte defezioni (deputati deceduti a parte), e anche stavolta potrebbero esserci delle dimissioni a sorpresa per alcuni che mirano ad altri incarichi politici.
Insomma, ci potrebbero essere alcuni esponenti politici come il deputato Kevin Hern dell’Oklahoma o il già citato Mike Lawler che tolgono il disturbo in anticipo, lasciando tutti nell’incertezza con nuove elezioni suppletive dall’incerto risultato.
La situazione al Senato
E anche al Senato i numeri non sono larghissimi: su 53 senatori nel gruppo di maggioranza, le due moderate Lisa Murkowski dell’Alaska e Susan Collins del Maine hanno forgiato la propria fortuna politica negli ultimi anni tenendosi a debita distanza da Trump e dalla sua cerchia, e Collins in particolare si gioca la rielezione in uno stato che ha votato per Kamala Harris alla presidenza.
Insomma, una maggioranza esile in entrambi i rami del Congresso che richiederà un controllo ferreo da parte dello speaker Mike Johnson e del neoleader al Senato John Thune.
Quest’ultimo però ha fatto intendere che, pur sostenendo «pienamente» l’agenda trumpiana, passerà comunque al setaccio le scelte per l’amministrazione più controverse, senza consentire l’uso del «recesso», ovverosia la modalità di nomina che bypassa l’audizione presso il Senato.
I precedenti però non depongono certo a favore della stabilità: nel 2017, quando Trump disponeva di una ventina di deputati di maggioranza, l’iter legislativo era molto lento. Anche in questo secondo mandato almeno sembra che tutto proceda in modo altrettanto caotico come quasi otto anni fa.
E le continue ingerenze di Elon Musk, che continua ad atteggiarsi a copresidente sponsorizzando a gran voce scelte radicali come la cancellazione dell’Ufficio federale per la protezione dei consumatori, fa presagire che questo governo unificato repubblicano sotto la seconda presidenza del tycoon possa essere ancora più instabile di quanto lo fosse nel biennio 2017-18.
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