Diventato presidente per il fato infausto che colpì J.F. Kennedy, non si fece trovare impreparato o incerto. Con una spiccata sensibilità verso le condizioni sociali ed economiche, portò avanti i progetti del suo predecessore su riduzione delle tasse e diritti civili. L’escalation in Vietnam e il fallimento dei negoziati lo convinsero a non ricandidarsi
Il cappello da cowboy che appare spavaldo è quello del 36esimo presidente degli Stati Uniti d’America. È un texano e in Texas ha appena giurato, sull’aereo presidenziale, di fianco alla (ex) first lady Jacqueline Kennedy che indossa un elegante tailleur rosa ancora macchiato del sangue raffermo del marito ucciso da poche ore.
Lyndon B. Johnson diventò presidente per il fato infausto che colpì JFK il 22 novembre del 1963. Ma non lo trovò impreparato né incerto. Anche perché LBJ aveva iniziato la ventennale carriera parlamentare dividendosi equamente prima quale deputato e poi da senatore fino a diventarne capo delegazione, mostrando grandi abilità negoziali e tattiche.
E nel 1960 aveva anche pensato di correre alla primarie salvo rinunciare a favore di JFK sebbene avesse una buona base popolare nel partito.
A Great Society
“A Great Society” il suo orizzonte politico con cui riuscì a far approvare uno dei più estesi programmi legislative della storia americana, certamente dai tempi del New Deal. Aiuti all'istruzione, attacco alle malattie, assistenza sanitaria statale, rinnovamento urbano, abbellimento, conservazione, sviluppo delle regioni depresse, lotta su larga scala contro la povertà, controllo e prevenzione della criminalità e della delinquenza, rimozione degli ostacoli al diritto di voto (Voting Right Acts). Il Congresso, a volte ampliandolo o modificandolo, ha rapidamente adottato le raccomandazioni di Johnson. Milioni di anziani hanno trovato aiuto grazie all’emendamento Medicare del 1965 alla legge sulla previdenza sociale.
Una sorta di paradosso perché LBJ, scelto da JfK quale vicepresidente per pararsi sul lato destro e sudista, divenne il principale riformatore dalla fine della Seconda Guerra mondiale.
La transizione tra i due non fu solo politica e istituzionale e dunque di potere, ma anche simbolica e valoriale. La mondanità ostentata, le riviste, le donne e il jet-set kennediani opposti e speculari alla sobrietà, la ruvidezza, le umili origini, il sud di Johnson.
La Guerra alla povertà
Proprio l’esperienza con la durezza delle condizioni di vita della classe operaia e la partecipazione alla fase riformatrice del New Deal, diedero a LBJ una maggiore sensibilità politica verso le condizioni sociali ed economiche che negli anni Sessanta rimanevano assai complesse. Di povertà crescente aveva parlato in due occasioni importanti: durante “lo stato dell’Unione” del 1964 e poi all’università del Michigan in cui riprese i dati di alcuni sociologi che riportavano allarmanti condizioni di povertà per circa un americano su cinque, cui faceva da contraltare e contrasto il lancio in orbita attorno alla Luna di tre astronauti americani in linea con l’agenda kennediana di conquista del satellite terrestre.
Entrato a meno di trent’anni alla Camera e avendo scalato rapidamente le gerarchie del rigido partito democratico al Senato tanto da diventarne leader per quasi un ventennio, LBJ mostrò grandi doti diplomatiche, tattiche e di negoziato con i parlamentari, gli esponenti repubblicani e in generale con i vari portatori di interessi.
Riuscendo con talento a far passare diverse azioni politiche dell’agenda Eisenhower. Rare qualità politiche utilissime nella fase di insediamento e di lancio del proprio programma elettorale. Che richiamava chiaramente, da sempre, l’impianto del New Deal e le riforme sociali e politiche nonché economiche senza mai cedere alle tentazioni radicali, al simbolismo, alle battaglie identitarie e velleitarie, ma non discostandosi dalla ricerca di cambiamenti profondi e persistenti che incidessero sulle condizioni di vita dei meno agiati. Dei poveri.
Un mandato soltanto
«Let us continue», disse LBJ durante una sessione congiunta del Congresso cinque giorni dopo l’assassinio di Kennedy. Quel “continuiamo” aveva il duplice significato di non arrendersi, ma anche di proseguire il cammino indicato dal presidente delle “nuove frontiere” e che nel suo discorso inaugurale aveva indicato un ambizioso «let us begin». In particolare, Johnson ottenne l'attuazione delle misure kennediane quali la riduzione delle tasse e la nuova norma sui diritti civili.
Il programma Great Society divenne l'agenda di Johnson per il Congresso nel gennaio 1965: il Congresso, a volte ampliandolo o modificandolo, ha rapidamente adottato le raccomandazioni di Johnson. Milioni di anziani ebbero aiuto grazie all’emendamento Medicare del 1965 alla legge sulla previdenza sociale. Per Johnson la “Grande società” doveva rappresentare un luogo in cui «il significato della vita dell’uomo corrispondesse alle meraviglie del lavoro dell’uomo».
L’elezione e la rinuncia
Nel 1964 Johnson vinse la presidenza con il 61 per cento dei voti e ottenne il più ampio margine popolare nella storia americana (oltre quindici milioni di voti). Un risultato storico anche perché ottenuto contro un avversario ostico e difficile, sebbene con le sue rigidità ideologiche allontanò una componente meno ideologica del partito repubblicano. Barry Goldwater era stoicamente anticomunista e anti-sindacalista e ciò nonostante (et pour cause) vinse in tutto il sud inclusa l’Arizona di cui era senatore e di cui tornò a esserlo dopo la parentesi presidenziale, fino al 1987.
LBJ si pose dunque in una cospicua e coerente linea di continuità, dunque, ma manifestò tenacemente anche elementi di rottura, specialmente nella seconda pate della presidenza. Aveva un grande fiuto politico e sapeva districarsi tra le insidie parlamentari, i boss del partito e capiva le dinamiche sociali.
Aveva in mente una chiara agenda riformatrice e legata al New Deal, progressista, ma non cedette mai alle sirene delle battaglie esclusivamente sui diritti civili, sebbene – ad esempio – la previsione normativa delle sanzioni per discriminazioni sessuali sarebbe stato un appiglio per le rivendicazioni femministe successive. Fu molto attivo nel tenere saldo il rapporto del partito democratico con il sindacato, con l’ala moderata (Naacp) del movimento nero, ma meno intensi con la componente più radicale che si batteva per l’applicazione dei Civil Right specialmente nelle aree degli stati del sud.
Il suo creative federalism aveva l’obiettivo di attuare le riforme sociali ed economiche direttamente da Washington nelle aree depresse con il duplice scopo di saltare la mediazione degli stati sia per evitare di aggiungere un livello burocratico, ma anche per limitare il rischio di incorrere in governi locali di estrazione politica avversa.
«Penso che abbiamo consegnato il sud ai repubblicani» disse riservatamente a margine della firma del Civil Rights Act, norma spinta da JFK, ma che lui riuscì a condurre in porto con un compromesso. Una forte dose di realismo per un riformatore puro. Assistenza agli anziani, contributi per la casa, assistenza medica, buoni cibo, qualificazione professionale, sostegno alle madri sole, riduzione della spesa per il warfare e crescita del welfare (una politica burro e cannoni non sempre lineare).
Con attenzione particolare per la comunità nera, sebbene i rapporti con Martin Luther King (ucciso nel 1968) non fossero (più) idilliaci soprattutto in relazione alla guerra in Vietnam, sebbene avesse limitato i bombardamenti proprio per tentare l’apertura di negoziati, e al reclutamento massiccio di giovani neri. Che diedero vita a una epocale rivolta nel ghetto di Los Angeles nel 1965 nonché alla marcia di Selma e alle tensioni per l’omicidio di Malcom X. Johnson aveva altresì attaccato frontalmente il Ku Klux Klan «incappucciati fanatici» e nominato il primo giudice afro-americano alla Corte Suprema, Thurgood Marshall.
Poiché la prima esperienza presidenziale era durata meno di due anni e quindi non fosse considerabile quale “mandato” a norma di legge costituzionale, e pertanto potesse correre per un secondo mandato, LBJ rinunciò alla corsa per la Casa Bianca. Con l’effetto di lasciare i democratici in cattive acque; infatti, si divisero drammaticamente a Chicago nel 1968, ma soprattutto non produssero una leadership in grado di fronteggiare non solo Nixon, ma anche il partito repubblicano per un lungo quarto di secolo, intermezzato soltanto dalla parentesi di Jimmy Carter nel 1976.
Johnson aveva diviso il suo mandato tra la “guerra alla povertà” e quella al Vietnam. Quest’ultima in parte ereditata da JFK, ma che lui porto all’apice dopo l’incidente nel Golfo del Tonchino e alla guerra aperta con tanto di accentramento decisionale nelle mani del presidente fino all’offensiva del Têt a inizio 1968.
Vietnam per sempre
Il Vietnam infiammava non solo la giungla, ma anche le coscienze di migliaia di giovani in America e in Europa; le immagini del massacro di Mỹ Lai fecero scalpore e infangarono l’onore dell’esercito USA; bilanciando anticomunismo e tentativo di negoziato, Johnson non riuscì a giungere alla pace anche perché la diplomazia riunita a Parigi fallì nell’intento. Tutto questo pesò molto su LBJ e sulla sua scelta di rinunciare al secondo mandato. La guerra rimaneva un attore stabile delle presidenziali americane.
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