Parla il medico, oggi ufficiale dell’intelligence israeliana, che nel 2004 ha salvato la vita all’ex leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ucciso a ottobre: «Era mio dovere curarlo». «Tra gli israeliani rapiti e uccisi nel kibbutz di Nir Oz c’era anche mio nipote. Non siamo felici di rilasciare chi è responsabile di tutto questo»
«Non sono sicuro che la tregua durerà. Noi con il cessate il fuoco abbiamo accettato le condizioni di Hamas, ma non so se loro faranno altrettanto. Penso che non vogliano rilasciare tutti gli ostaggi perché gli servono per avere la garanzia che non gli venga tolto il controllo della Striscia». Così Yuval Bitton, israeliano, 57 anni, commenta l’accordo in tre fasi per la tregua tra Israele e Hamas, firmato a Doha, in Qatar, a metà gennaio.
«Non siamo felici di rilasciare chi è responsabile di aver ucciso i nostri bambini, donne e civili. Ma è il prezzo, alto, che dobbiamo pagare per riportare a casa gli ostaggi. Perché il 7 ottobre 2023 abbiamo fallito», spiegava Bitton da Roma qualche settimana fa, quando è arrivato in Italia su invito della Jerusalem Foundation.
Oggi è un ufficiale dell’intelligence israeliana, ma nel 2004, quando ha curato Yahya Sinwar, l’ex leader di Hamas a Gaza, ucciso dalle Idf lo scorso ottobre, era un medico nel carcere Beersheba. E Sinwar un detenuto della stessa prigione, condannato a più ergastoli per aver ucciso due soldati israeliani e 12 palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele: «Uno l’ha strangolato con le sue mani. Un altro l’ha ucciso con una kefiah. Ha fatto a pezzi anche due membri della sua stessa organizzazione in prigione».
Si è mai pentito di aver salvato la vita a Sinwar? Lo rifarebbe?
«Come medico era mio dovere curarlo. Quando l’ho incontrato non mi ha riconosciuto, sebbene ci fossimo già visti più volte. Non riusciva a mantenere l’equilibrio e mi ha detto di avere un forte dolore dietro al collo. Ho capito che poteva avere qualcosa alla testa, così ho chiesto di condurlo subito in ospedale dove l’hanno operato d’urgenza per rimuovere un tumore al cervello che l’avrebbe ucciso. Qualche giorno dopo, quando sono andato a fargli visita in ospedale, mi ha ringraziato. Mi ha detto che “mi doveva la vita”. E voleva che capissi bene l’importanza che ha questa frase quando viene detta da un musulmano. Anni dopo, nel 2011, Sinwar è uscito di prigione grazie allo scambio dei 1.027 prigionieri palestinesi scarcerati in cambio della libertà di Gilad Shalit, il soldato sequestrato da Hamas nel 2006. Poco prima di andarsene è venuto da me per ringraziarmi. Mi ha chiesto il numero di telefono dicendo che un giorno mi avrebbe chiamato, il giorno in cui avrebbe pagato il suo debito per avergli salvato la vita. Il 7 ottobre, non appena ho realizzato quello che stava succedendo, ho capito che la mente dietro l’attacco era lui. Anche perché tra i discorsi fatti con lui in prigione, uno mi aveva colpito: Sinwar diceva che Hamas sarebbe stato in grado di aspettare anche per vent’anni un momento di debolezza di Israele per attaccare».
Cosa ha pensato non appena ha saputo dell’attacco del 7 ottobre 2023?
«Mi ha svegliato all’alba mia figlia che vive in Giappone per chiedermi cosa stesse succedendo. Perché aveva visto la notizia in tv. Appena ho realizzato, sono rimasto scioccato. Ma ho subito capito che era iniziata una guerra. Proprio quella di cui Sinwar aveva parlato vent’anni prima in prigione. Tra gli israeliani rapiti e uccisi durante l’attacco al kibbutz di Nir Oz, a circa un chilometro dalla Striscia di Gaza, c’era anche mio nipote Tamir Adar. Si è ferito mentre lottava contro i terroristi che poi l’hanno rapito e portato a Gaza dove è stato ucciso. Sua moglie e i suoi due figli sono stati salvati dall’esercito israeliano arrivato solo 7 ore dopo. Stavano per soffocare: nonostante la loro casa stesse andando a fuoco, erano ancora rinchiusi nel rifugio di cui sono dotate tutte le abitazioni di chi risiede a pochi passi dalla Striscia. Non è semplice la vita lì: 50 secondi di tempo ogni volta che suona l’allarme per correre al riparo, non è vita questa».
Non solo Sinwar. Lei nelle carceri israeliane ha avuto modo di conoscere anche altri uomini che hanno scelto di unirsi ad Hamas. Che ha pensato incontrandoli?
«La maggior parte dei leader di Hamas sono istruiti, professori, dottori, avvocati. Studiano nelle università islamiche la Sharia. In prigione si mettono a studiare la storia dello stato di Israele e l’ebraico. E usano quello che apprendono contro di noi. Non è facile avere a che fare con delinquenti come Sinwar, mandanti di attacchi terroristici in Israele. Hanno come obiettivo quello di rapire civili e soldati israeliani per ottenere in cambio la libertà dei loro prigionieri. Così approfittano della nostra debolezza, del fatto che vogliamo riportare i nostri cari a casa. I membri di Hamas che governano la Striscia sono molto più estremisti degli altri, non hanno niente a che fare con Al Fatah, non dialogano. Dal 2007 (da quando Hamas governa la Striscia di Gaza, ndr) non esiste più un unico popolo palestinese, non c’è più un leader che li rappresenti entrambi. Hamas non accetta compromessi, per questo è molto difficile farci accordi. Così a pagare il prezzo del tempo che passa è la popolazione: nessuno di noi è felice per la situazione a Gaza. Ma cosa dobbiamo fare se i terroristi per combattere usano infrastrutture civili, sparano dagli ospedali, costruiscono i tunnel sotto le scuole? Hamas non ha cura della popolazione, ma solo di chi li supporta».
Cosa dice delle condizioni dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane?
«Sono stato responsabile delle condizioni dei prigionieri nelle carceri israeliane, senza distinzioni per i crimini commessi. Non so cosa avete sentito dire sulle loro condizioni, ma sono quelle di un qualsiasi stato normale. Abbiamo avuto ispezioni che possono confermarlo. Hanno accesso alle cure, possono stare all’aperto. Hanno il cibo di cui hanno bisogno, possono guardare la tv. Rispettiamo la loro religione. Possono vedere i loro avvocati e incontrare i loro familiari, ma usano questi momenti per contrabbandare i telefoni e far uscire i messaggi, inviare aggiornamenti alla leadership di Hamas, usano i corpi delle donne, i pannolini dei bambini. Gli stessi bambini. Dopo il 7 ottobre le loro condizioni sono cambiate, perché anche noi vogliamo sapere in che modo vengono trattati i nostri cittadini presi in ostaggio, come stanno, dove sono, cosa mangiano se hanno accesso alle cure. Ma non abbiamo potuto sapere niente».
Alla luce di quello che ha spiegato, come pensa si evolverà l’accordo per la tregua?
«Penso anche che l’evolversi della situazione dipenda molto dal presidente statunitense Donald Trump, solo lui può fare pressioni sia sul governo di Benjamin Netanyahu, sia su chi governa Gaza. Abbiamo indebolito molto Hamas, soprattutto dal punto di vista militare, ma il controllo dei civili è ancora nelle sue mani, per questo l’accordo è arrivato tardi. Un accordo per cui paghiamo un prezzo molto alto, il prezzo del fallimento del 7 ottobre: rilasciare chi è responsabile di aver ucciso i nostri cittadini».
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