La (presunta) seconda copia, cioè quella integrata con gli atti da cui si desumerebbe il coinvolgimento nella illecita gestione degli appalti da parte di noti esponenti politici, e arricchita dalle dichiarazioni del sedicente collaborante Li Pera e dalle indagini che ne erano seguite, devierebbe, rispetto all’impostazione iniziale, nel ricostruire il ruolo ascrivibile a Cosa nostra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La tesi dell’esistenza di una seconda versione del rapporto mafia/appalti, molto più completa e approfondita soprattutto nella parte concernente gli approfondimenti o quanto meno i materiali raccolti (id est, trascrizioni di intercettazioni telefoniche) sul versante delle collusioni politico-affaristiche-mafiose e del coinvolgimento nelle indagini, se non in specifici fatti illeciti inerenti alla gestione degli appalti pubblici, era caldeggiata dalla pubblica accusa, per la rilevanza che si riteneva di potervi annettere, sotto un duplice profilo.
Anzitutto, ne uscirebbe comprovato il legame di solidarietà tra alti ufficiali del Ros e alcuni esponenti politici tra i quali, in particolare l’on. Calogero Mannino il cui coinvolgimento nelle vicende oggetto d’indagine sarebbe stato deliberatamente occultato, escludendo dalla copia del rapporto consegnato ai magistrati della Procura di Palermo titolari del procedimento mafia/appalti gli atti e segnatamente le intercettazioni in cui si parlava di noti esponenti politici siciliani e nazionali, tra i quali appunto il predetto Mannino: con la conseguenza che potrebbe inferirsene un ulteriore, ancorché indiretto riscontro all’ipotesi accusatoria che prefigura la trattativa intrapresa con Ciancimino come frutto di un disegno mirato non già a favorire la cattura dei boss latitanti e neppure a porre fine alle stragi, bensì più prosaicamente a salvare la vita al Mannino, ovvero a sventare la minaccia — fondata e incombente — di essere l’ex ministro dell’ultimo governo Andreotti la prossima vittima, dopo Lima, propiziando uno scambio tra la concessione di favori e vantaggi a Cosa Nostra e la revoca della sentenza di condanna a morte già emessa dal “tribunale” mafioso.
Ma sotto questo aspetto, ha buon gioco la difesa a replicare che, anche volendo dare credito ad una tesi che in realtà si è rivelata infondata o comunque non supportata da idonei elementi di prova (con il suggello, adesso del giudicato assolutorio nei riguardi dell’illustre coimputato), l’on. Mannino non era l’unico esponente politico di cui sarebbe stato omesso il nome o nascosto il possibile coinvolgimento nell’indagine mafia/appalti.
E di contro, la sentenza qui appellata — che sulla questione della doppia refertazione sembra piuttosto sospendere il giudizio, reputandola ininfluente ai fini della decisione - replica che quei legami sono aliunde provati, come è provato che l’on. Mannino fu realmente fatto segno ad un progetto di attentato che all’epoca dei fatti era già in fase avanzata di esecuzione; così come sarebbe provato che, attinto da minacce specifiche e concrete — ancorché dissimulate da amichevoli consigli - e venuto a conoscenza dell’esistenza di un progetto di attentato ai suoi danni, lo stesso Mannino aveva mobilitato le conoscenze ed entrature di cui disponeva all’interno degli apparati di polizia, non solo per verificare la fondatezza delle minacce e la gravità del pericolo cui si sentiva — ed era — esposto, ma per trovare una via d’uscita al problema della sua sicurezza personale, al di fuori di canali ufficiali e istituzionali: fino ad esplorare anche la possibilità di aprire un negoziato con i vertici mafiosi che avevano decretato la sua morte.
Nella ricostruzione sposata dalla sentenza di primo grado, piuttosto nebulosa sul punto, si conferma che fu Mannino a innescare l’iniziativa intrapresa dagli ufficiali del Ros e si propende per l’ipotesi che ne sia stato altresì l’ispiratore; ma non si esclude la possibilità che egli si sia limitato a prospettare, al generale Subranni come al generale Tavormina, i termini del problema che lo assillava e a rivolgere una sollecitazione (non meglio definita) anche solo implicita, premendo per una soluzione che sarebbe stata poi ideata o sviluppata da Subranni e da questi concertata con gli ufficiali del Ros alle sue immediate dipendenze, che a loro volta vi diedero concreta attuazione.
Il presunto obiettivo del Ros
In realtà non sarebbe poi così ininfluente la prova che gli ufficiali del Ros odierni imputati si fossero a suo tempo adoperati per preservare l’on. Mannino dal rischio di un coinvolgimento nelle indagini mirate ad approfondire il nodo degli intrecci collusivi tra mondo della politica e delle istituzioni, ambienti imprenditoriali e criminalità mafiosa, con specifico riguardo alla creazione di un inedito network criminale tra grossi gruppi imprenditoriali e organizzazioni mafiose.
Se ciò fosse provato, ne uscirebbe infatti corroborata, sia pure indirettamente, l’ipotesi che gli stessi ufficiali dell’Arma, già adusi a condotte contrarie ai propri doveri d’ufficio, o di aperto favoreggiamento, possano avere concepito e concertato un’iniziativa non meno contraria a quei doveri per venire incontro a pressanti esigenze di un influente esponente politico della cui sorte già in un recente passato si erano fatti carico e con cui intrattenevano, in ipotesi, relazioni di mutuo interesse.
Ma questa Corte non si nasconde che l’assunto di una doppia informativa nella prospettazione accusatoria potrebbe anche avere ben altra rilevanza.
La (presunta) seconda copia, cioè quella integrata con gli atti da cui si desumerebbe il coinvolgimento nella illecita gestione degli appalti da parte di noti esponenti politici, e arricchita dagli ulteriori elementi scaturiti dalle propalazioni del sedicente collaborante Li Pera (geometra e già capo area per la Sicilia di una delle più grosse imprese, di rilievo nazionale, investite dall’investigazione del Ros) e dalle indagini che ne erano seguite, devierebbe, rispetto all’impostazione iniziale, nel ricostruire il ruolo ascrivibile all’organizzazione mafiosa.
Un ruolo che, alla luce delle propalazioni del Li Pera, tornava ad essere ancillare o secondaria sullo sfondo di una vicenda di corruttela politico-amministrativa non dissimile da quella che su scala nazionale era stata portata alla ribalta dall’indagine Mani Pulite del pool di magistrati della procura di Milano, e dalle analoghe indagini svolte da tanti altri uffici requirenti.
E questo dichiarato ridimensionamento del ruolo di Cosa nostra, e conseguente affievolimento dell’attenzione sul coinvolgimento dei capi dell’organizzazione criminale, sarebbe stato funzionale al disegno in quel momento in corso di esecuzione della “trattativa” intrapresa con gli stessi vertici mafiosi attraverso l’intermediazione di Vito Ciancimino.
Insomma, si spegnevano i riflettori, o si abbassava la luce sul coinvolgimento dei capi di Cosa Nostra nella creazione e nella gestione unitaria e verticistica di un sistema di spartizione degli appalti, per favorire la trattativa in corso o per creare un clima favorevole al suo svolgimento.
In tale prospettiva, non rileverebbe tanto stabilire se all’epoca della consegna della prima informativa sull’indagine mafia/appalti (20 febbraio ‘91) ne esistesse già una seconda versione, più completa e con i nomi dei maggiori esponenti politici coinvolti (il presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi,. l’on. Lima e l’on. Mannino, ma anche l’on. Carlo Vizzini) e per quale ragione si omise di segnalare già nel primo rapporto quei nominativi che invece figureranno poi nel corpo o negli allegati delle informative depositate successivamente (quella del 5 settembre; l’informativa “Caronte” depositata alla procura di Catania il 1° ottobre 1992; e ancora, l’informativa trasmessa alla Procura di Palermo nel novembre 1992).
Piuttosto la vicenda assumerebbe una certa rilevanza, nella prospettiva accusatoria, perché disvelerebbe un tentativo surrettiziamente perpetrato dai carabinieri del Rosdi valorizzare le propalazioni del Li Pera — sollecitato a rendere dinanzi all’A.g. di Catania dichiarazioni sulle stesse vicende già oggetto del procedimento principale nr. 2789/90 R.G.N.R. a carico di Siino Angelo e altri e dei procedimenti ad esso connessi come: il proc. 11. 2811/89 a carico di Pinello Giuseppe, scaturito dalle rivelazioni in ordine ai metodi di manipolazione degli appalti pubblici dell’ex sindaco di Baucina, Giaccone Giuseppe, a sua volta imputato del reato di cui all’art. 416 bis C.P.; il proc. N. 198 1/89 a carico di Modesto Giuseppe e altri, imputati del reato di cui all’art. 416 bis c.p., sempre in ordine ai metodi di illecita manipolazione degli appalti pubblici da parte di esponenti mafiosi tra i quali proprio il Siino; e il proc. N. 1155/90 N.C. originato dalle dichiarazioni rese alla Commissione Antimafia da vari sindaci di Comuni delle Madonie sul fenomeno del racket delle progettazioni nel settore degli appalti— e di svolgere ulteriori indagini sui medesimi temi, all’insaputa della procura di Palermo e dei magistrati titolari dell’inchiesta cui gli stessi carabinieri avevano lavorato, condensandone le prime risultanze nel rapporto mafia/appalti depositato il 20 febbraio 1991.
Un’ipotesi importante
L’ipotesi di un potenziale sviamento delle indagini nel 1992, messo in atto (con l’informativa “Sirap” e l’informativa “Caronte”) dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, e per accreditare la tesi di un sistema di manipolazione delle gare e di spartizione degli appalti pubblici gestito mediante un triangolo costituito solo da politici e amministratori corrotti e da imprenditori, senza alcuna significativa presenza della mafia (in palese contrasto con l’assunto investigativo sostenuto dallo stesso Ros nell’originaria informativa depositata il 20 febbraio 1991), era stata formulata dalla Procura della Repubblica di Palermo nella citata relazione del 5 giugno 1998 a firma dei due Aggiunti (Lo Forte e Croce) e dei sostituti titolari di inchieste del filone mafia-appalti, indirizzata al procuratore capo Caselli e da questi consegnata al Csm nel corso di un’audizione tenutasi a Palermo il 3 febbraio 1999. Ivi si richiamavano le considerazioni svolte già nella “Relazione sui procedimenti instaurati a Palermo su mafia e appalti”, depositata presso il Csm in data 7 dicembre 1992, secondo cui tra le anomalie che avrebbero contrassegnato lo svolgimento dell’indagine mafia e appalti istruita dalla Procura di Palermo spiccherebbe il tentativo di sviarne gli sviluppi per accreditare la falsa tesi di un sistema di manipolazione degli appalti operante anche in Sicilia senza alcuna significativa presenza di Cosa Nostra.
E in tal senso avrebbero militato le indagini curate dal cap. De Donno lungo la linea suggerita dalle dichiarazioni rese dal geometra Li Pera all’A.g. catanese, con l’effetto (potenziale) di determinare, a beneficio degli imputati sotto processo in quel momento a Palermo (in data 9 marzo 1992 era stata avanzata richiesta di rinvio a giudizio per Siino Angelo, Farinella Cataldo, Falletta Alfredo, Li Pera Giuseppe, Buscemi Vito e Cascio Rosario, e al 19 ottobre era stata fissata la data di inizio del processo) la sostanziale fuoriuscita di Cosa nostra dall’orizzonte processuale delle vicende di illecita spartizione degli appalti, attribuendosi all’organizzazione mafiosa un ruolo del tutto marginale o episodico; e, come effetto immediato più tangibile, la derubricazione dell’accusa, per tutti gli imputati, da associazione mafiosa. ex art. 416 bis ad associazione a delinquere comune, ex art. 416 c.p.p.. con la conseguente prevedibile scarcerazione di tutti gli imputati”.
Le citate relazioni sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia-appalti (e cioè quella del 7 dicembre 1992 e la relazione del 5 giugno 1998), per la parte concernente il triennio 1989/1992 lasciavano però aperto l’interrogativo circa le reali finalità dell’ipotizzato sviamento delle indagini, limitandosi a segnalare le negative ripercussioni di natura processuale che esso avrebbe avuto nel processo che stava per iniziare a carico di Siino Angelo e gli altri coimputati del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (finalizzata al controllo e alla gestione illecita di appalti pubblici in Sicilia).
Nella ri-lettura della medesima vicenda operata dalla pubblica accusa nel presente processo, il disegno consistito nell’aver ridimensionato il ruolo di Cosa n0ostra, asseverando una rappresentazione del sistema di spartizione degli appalti in Sicilia non dissimile da quello disvelato su scala nazionale dall’inchiesta Mani Pulite, avrebbe mirato ad oscurare le effettive responsabilità dei vertici mafiosi per favorire l’apertura di un dialogo finalizzato a far cessare le stragi. Una sorta di depistaggio, insomma, a beneficio del buon esito di quella trattativa occulta.
Dal raffronto dei verbali delle dichiarazioni del geometra Giuseppe Li Pera (già rappresentante per la Sicilia della RIZZANI-DE ECCHER. impresa di rilievo nazionale, tratto in arresto in esecuzione dell’o.c.c. emessa il 9 luglio 1991 dal GIP di Palermo nel procedimento a carico di Siino Angelo e altri) nel corso della sua sedicente collaborazione con varie autorità giudiziarie (compresa la procura di Milano, come attesta il verbale d’interrogatorio reso dal Li Pera al pm Antonio Di Pietro il 12 novembre 1992) emerge sicuramente il tentativo dello stesso Li Pera di introdurre surrettiziamente, per proprie convenienze difensive, nel procedimento a suo carico per il reato di associazione mafiosa, imputazione per la quale era alle viste la conclusione della fase delle indagini preliminari e poi l’inizio del processo, una rappresentazione del sistema di aggiudicazione degli appalti che, oltre a minimizzare il suo ruolo personale (descrivendosi come una rotella vittima di un ingranaggio molto più grande di lui), oscurasse il ruolo della componente mafiosa, a beneficio, sia pure indirettamente, della sua posizione processuale, essendo il Li Pera imputato appunto del reato di associazione mafiosa in relazione alla sua partecipazione a quel sistema.
Se, infatti, al pm di Catania dott. Lima il dichiarante si sforzava di accreditare quella rappresentazione in relazione alle vicende per cui era indagato presso l’A.g. di Palermo, interrogato, invece, dalla procura di Milano non aveva alcuna remora ad attribuire all’organizzazione mafiosa un ruolo specifico nel sistema di illecita spartizione degli appalti in Sicilia, e tale da farne una componente essenziale di quel sistema.
L’indagine sulla Sirap
Quanto all’impostazione complessiva dell’informativa depositata il 5 settembre 1992, non va dimenticato che essa fu redatta in evasione alla delega d’indagine del 26 luglio 1991, e rispecchiava - e rispettava - una precisa direttiva formulata in quella complessa e articolata delega, con la quale venivano disposte dalla Procura di Palermo approfondite e ampie indagini sulla Sirap Spa (società partecipata dalla regione attraverso l’Espi, con sede a Palermo e incaricata della progettazione e realizzazione di 20 aree attrezzate per attività produttive, per un importo complessivo di mille miliardi di vecchie lire).
Ed invero, come si legge nella citata relazione sulle indagini mafia-appalti, da varie acquisizioni processuali (intercettazioni telefoniche, dichiarazioni testimoniali e interrogatori degli indagati del procedimento a carico di Siino ed altri) «risultava che il centro di interessi dell’organizzazione mafiosa era costituito dalle gare d’appalto bandite per un importo complessivo di mille miliardi dalla predetta Spa, società a capitale pubblico incaricata dalla Regione Siciliana di curare l’espletamento di gare finalizzate alla realizzazione di venti insediamenti industriali-artigianali in vari comuni della Sicilia».
Da qui il conferimento ai carabinieri del Ros di una complessa e articolata delega di indagine per accertare, tra l’altro, la natura dei finanziamenti ottenuti dalla Sirap e le scelte relative alla loro utilizzazione ed i criteri di individuazione logistica delle aree da attrezzare; e per escutere gli amministratori della Sirap, anche con riferimento a quanto emerso dagli interrogatori degli indagati, nonché tutti i pubblici amministratori degli Enti locali ove erano state o si sarebbero realizzare tutte le opere menzionate nell’informativa, con specifico riferimento alle modalità di finanziamento delle stesse ed ai loro eventuali rapporti con gli indagati; e le decine di altre persone già indicate come informate sui fatti; oltre a completare l’acquisizione dei documenti relativi alle
gare d’appalto menzionate nell’informativa e dare esecuzione a decreti di perquisizione negli uffici della Sirap e in altri uffici pubblici e abitazioni private e svolgere tutte le indagini conseguenziali riferendo con ulteriore informativa.
In sostanza, oltre a neutralizzare gli esponenti più pericolosi dell’organizzazione mafiosa, o che tali apparivano sulla base delle risultanze fino a quel momento acquisite e nei confronti dei quali erano stati acquisiti idonei elementi di colpevolezza - obbiettivo che era stato già conseguito con l’emissione (il 9 luglio 1991) di ordinanze di o.c.c. nei riguardi di Siino Angelo, Farinella Cataldo, Faletta Alfredo e Li Pera Giuseppe, capaci di reggere tutte al vaglio del Tribunale del Riesame e confermate in cassazione — la strategia della Procura palermitana mirava ad acquisire ulteriori elementi in ordine ad altri soggetti già indagati in quanto individuati nell’informativa dei carabinieri, senza che però si fossero raggiunti prove sufficienti a supportare la richiesta di provvedimenti cautelari.
Ma soprattutto, con la delega di indagine sulla Sirap e alcune amministrazioni locali, si puntava a individuare i referenti politico-amministrativi dell’organizzazione mafiosa, nella convinzione che il sistema di controllo mafioso si integrava in alcuni casi con fenomeni di corruzione politico—amministrativa.
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