Finalmente abbiamo l’autentica Agenda Draghi: è il Rapporto sul futuro della competitività europea. Il Rapporto contiene una grande quantità di informazioni, dati e analisi accurate, nonché molte proposte importanti e che andrebbero discusse pubblicamente.

Il focus del Rapporto è la bassa dinamica della produttività in Europa, rispetto a Cina e Stati Uniti, nei settori della frontiera tecnologica, dove innovazioni e investimenti non tengono il passo necessario. Transizione digitale e transizione verde devono accelerare, affrontando in maniera razionale i costi associati nel breve e medio periodo. Si raccomanda, allo scopo, di approfondire l’integrazione europea: per esempio, procedendo a una rapida unificazione della regolamentazione nei settori cruciali dei servizi, che oggi è ancora frammentata tra i paesi membri, con evidente difficoltà per la formazione di un vero mercato unico.

Lo stesso dicasi per il mercato dei capitali, che richiede ulteriori sforzi di maggior integrazione, nel cui ambito si raccomanda di affidare a un debito comune europeo il compito di finanziare gli investimenti pubblici necessari al programma di riforma (su cui già c’è il no dei frugali). Alcuni settori strategici (difesa, farmaceutica, sicurezza informatica) andrebbero portati tout court a livello comunitario. Tutti punti importanti.

La politica industriale è riportata al centro dell’agenda. L’attenzione mediatica si è concentrata sulla stima kolossal di 800 miliardi (una tantum si badi bene) di investimenti pubblici e privati necessari per dare impulso ai settori ritardatari. Ma altrettanto eclatante è l’ingrediente della ricetta che prevede un “ripensamento” anche della politica di tutela della concorrenza e della regolamentazione dei mercati in generale.

Da un lato, si rileva un eccesso del “principio di precauzione” (nel dubbio, vieta) il quale impedirebbe lo sprigionarsi degli animal spirits, la linfa vitale della nuova economia immateriale. Dall’altro, viene sottolineato che le nuove attività imprenditoriali necessitano di tutto lo spazio (potere) di mercato per sfruttare le economie di scala di queste tecnologie (più si produce, meno costa, maggiori sono i profitti). Conclusione: per poter stare al passo col resto del mondo che conta bisogna lasciar crescere dei “campioni europei” e consentire loro di fare "profitti adeguati".

Domande di sinistra

Qui vogliamo immaginare che l’Agenda Draghi venga realizzata (cosa tutt’altro che facile), e ci poniamo qualche domanda di sinistra. Quali conseguenze avrebbe la formazione di GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) europei nel mondo del digitale, delle telecomunicazioni, dei servizi in generale? Cosa garantisce che i benefici previsti siano diffusi e distribuiti a tutta la popolazione? La società europea sarebbe migliore quanto a benessere economico e qualità della vita e del lavoro? È legittimo, per la sinistra, e forse per tutti, porsi queste domande, perché non esiste una relazione automatica e spontanea, tra gigantismo di dimensione, profitti, innovazione tecnologica, produttività, crescita da un lato e diffusione del benessere ed equità dall’altro. E proprio dal divorzio tra questi due lati nasce la crisi del capitalismo democratico che stiamo vivendo.

Lo scrive lo stesso Draghi, «un ambiente economico non gestito, altamente innovativo e dinamico genera vincitori e vinti, aumenta le disuguaglianze, accresce il rischio di disoccupazione, comporta costi di transizione distribuiti in modo non uniforme tra la popolazione». Come contrappeso si raccomanda di salvaguardare il “modello sociale europeo”. Tuttavia, lo spazio dedicato nel Rapporto a questo tema, intrecciato con il welfare, è veramente esiguo. Per mantenere viva l’inclusività del modello sociale europeo, il Rapporto si limita a raccomandare una riduzione coordinata della tassazione sui redditi da lavoro per le fasce medio-basse. Non si fa cenno al possibile e, probabilmente, necessario aumento della tassazione sui redditi più elevati, sui profitti e sui patrimoni per continuare a finanziare il welfare, compensando la perdita di gettito dovuta alle riduzioni di prelievo sui redditi medio bassi. Nulla si dice sulla concorrenza fiscale al ribasso per attirare capitali e ricchezze anche all’interno dell’UE. Nulla sulle politiche per l’immigrazione necessarie a contrastare il declino demografico e il depauperamento del “capitale umano” che pure contribuisce non poco a ridurre il potenziale di crescita. La parola “welfare” compare solo 7 volte nel Rapporto e quasi solo con riferimento alla riduzione dei suoi costi grazie alla digitalizzazione.

Produttività e lavoro

Alla necessità di garantire che gli aumenti di produttività vengano equamente condivisi con i lavoratori viene data un’attenzione marginale, mentre si pone l’accento sulla necessità di garantire alle imprese innovative profitti e condizioni di finanziamento almeno comparabili con quelli ottenibili in USA. Però, come è noto, i salari in America, almeno dal 1980, hanno sempre meno beneficiato della crescita della produttività. Anche in Europa, negli ultimi venticinque anni, si è aperto un gap tra crescita della produttività e crescita dei salari, anche se di entità inferiore a quella degli USA e in misura differenziata tra paesi.

Quanto agli altri anelli della catena virtuosa che dovrebbero giustificare alti margini di profitto quali incentivi a innovazioni e investimenti, è lecito nutrire qualche dubbio. Negli USA, la quota dei profitti sul Pil è passata dal 38 per cento nel 1980 a oltre il 45 per cento nel 2023; nello stesso periodo gli investimenti privati sono passati da oltre il 6 per cento del Pil ad appena il 3 per cento e nell'ultimo decennio la crescita media del prodotto per ora lavorata è stata la metà del decennio precedente. Inoltre, con la dimensione delle imprese, anche laddove l’antitrust riesca a contenerne gli abusi e l’impatto sui prezzi, cresce comunque il potere di che ne controlla le enormi risorse non solo materiali. Dovremmo ignorarlo?

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