Il 16 marzo del 1974 arrivai a Roma da Cambridge, dove studiavo e insegnavo, per il solito mese di vacanze italiane. Come sempre, pochi giorni dopo il rientro, andai a compiere la visita di rito alla Libreria Tombolini, una delle pochissime a Roma che allora tenesse un vasto retrobottega pieno di libri ormai fuori stampa da anni. In vetrina, in bella mostra, e poi sul primo banco d’ingresso, dominava un volume rilegato dalla sopraccoperta verde chiaro, sulla quale campeggiava un ritratto di Aristotele dal Portale Ovest della Cattedrale di Chartres. Era la Poetica di Aristotele, curata da Carlo Gallavotti, il principe dei grecisti della Sapienza. Non un libro enorme: contava poco meno di trecento pagine, ma comprendeva introduzione, testo greco, traduzione, apparato critico al piede, e ben centocinquanta pagine di commento.

Carta spessa, rilegatura, sotto la sopraccoperta, blu: sobria, elegante, solida, fatta per durare.

Resto, a dir poco, stupito, e domando subito di cosa si tratti. «Mah», mi rispondono, «è una “cosa” di Citati…». La mia attenzione raddoppia. Avevo letto il suo Goethe, qualche anno prima, ed ero rimasto fulminato dal nuovo modo di far critica letteraria che vi veniva praticato: assertivo, capillare, creativo, informatissimo.

Gallavotti lo conoscevo invece per aver sostenuto con lui l’esame di letteratura greca una decina d’anni prima. Ma la cosa più sorprendente era trovare una Poetica dotata di commento, che aveva tutta l’aria di appartenere a una iniziativa nuova: infatti, in fondo al volume si spiegava che «con questa collana, la Fondazione Lorenzo Valla e l’editore Mondadori intendono fornire al pubblico italiano – quello degli studiosi e quello, più vasto, dei semplici lettori colti – l’autorevole raccolta di classici che esso non ha mai posseduto».

Le altre collane

Il pubblico italiano? Forse, con soltanto lievissima presunzione, si sarebbe dovuto dire “europeo” od “occidentale”! Perché c’erano, sì, all’estero, nobilissime, blasonate collane di classici, che tutti gli accademici rispettavano e alle quali tutti facevano deferente, e giusto, riferimento, talune vecchie di un secolo o più. L’austera Teubner tedesca aveva iniziato le sue pubblicazioni nel 1849. Gli Oxford Classical Texts, più eleganti ma non meno severi, risalivano al 1916. Nessuna delle due faceva alcuna concessione al “pubblico colto”: niente traduzione, nessun commento critico. Erano strumenti puramente filologici, confezionati per chi già conosceva il greco e il latino alla perfezione, provenendo dal severo Gymnasium germanico o dalle scuole britanniche d’élite, quali Eton e Ampleforth, con destinazione Oxford o Cambridge, nelle quali la conoscenza delle lingue classiche era ancora richiesta per l’ammissione. In Francia, già nell’Ottocento, l’editore parigino Firmin Didot aveva pubblicato tutta una serie di grossi tomi di classici greci e latini accompagnati dalla traduzione francese (che talvolta sovrastava il testo originale per dimensione).

Ma nel 1920 usciva il primo volume della Collection Budé, nota come Les Belles Lettres: testi originali, traduzioni, commento, per quanto allora alquanto ridotto. Giungeva sino al VI secolo della nostra era, includendo anche opere cristiane. Compare poi sulla scena, a Londra nel 1912, la Loeb Classical Library, pubblicata dall’editore Heinemann, con i testi greci e latini affiancati da traduzione inglese. Dal 1934 si associa all’editore inglese la Harvard University Press, con tutta la potenza di fuoco della quale è capace. I volumi non contengono commento di alcun tipo e, sebbene tutti li usino, vengono considerati i più “democratici” – forse un eufemismo per “plebei”? – della gamma.

La cultura italiana, prima al mondo, sta dunque tentando un esperimento nuovo: una collana di “Scrittori greci e latini” che va dal X secolo a.C. sino a tutto il Medioevo, che punta alle vette impiegando i migliori studiosi italiani e stranieri e che fornisce con l’introduzione e il commento un’analisi filologica, storica, critica, estetica. Sono previsti testi classici, patristici, bizantini.

È una novità sensazionale, che batte di diverse leghe i pur eccellenti Classici Utet e la collana latina di Zanichelli. Se ne accorgono studiosi, biblioteche e librerie fuori della penisola. Anche se l’italiano è lingua ormai poco praticata, quando Citati impianta la costruzione di sei volumi di Odissea e di nove di Erodoto, la Oxford University Press compra i commenti a occhi chiusi. Gli accademici di tutto il mondo sono prontissimi a collaborare, perché la Valla, al contrario delle antiche dame della classicistica, paga bene.

Storia del blurb

Poi – e finalmente arrivo al mio argomento specifico – ci sono i blurb, quelli che noi chiamiamo bandelle, risvolti di copertina, alette. Originariamente, gli editori li stampano sul retro della copertina, quindi vengono spostati nei risvolti.

Li chiamo blurb perché uso quel nome da cinquant’anni e perché la loro storia, il loro significato, il suono stesso della parola hanno un che di divertente che per un attimo fa dimenticare la paludata solennità dei corrispettivi italiani. La parola blurb fu inventata dall’umorista americano Gelett Burgess quando, nel 1907, il suo libro Are You a Bromide? (Sei un bromuro?) fu presentato in prima edizione alla cena annuale dell’American Booksellers Association.

Era tradizione che autori e editori accompagnassero al volume una frase, e magari un’immagine, spiritose di promozione. Burgess collocò sulla copertina del suo libro una giovane donna «languida e civettuola», che aveva ripreso da una pubblicità dentistica con la dicitura: “Miss Belinda Blurb in the act of blurbing”: atto che consisteva nel dire qualcosa ad alta voce usando una mano sulla bocca a mo’ di megafono. Il ritratto era sovrastato dalla scritta: «YES, this is a ‘BLURB’!».

Il nome attecchì, e tutti nel mondo anglo-sassone lo usano sempre. È un nome che sa di “chiacchiera”, sia pure colta, di conversazione informata e invitante.

Deve descrivere il libro con precisione in un massimo di duemila battute circa, mentre il secondo blurb, il risvolto posteriore, reca nel minor spazio possibile le informazioni essenziali sul curatore o curatrice dell’opera, i suoi lavori principali, il luogo dove insegna.

Il Demiurgo

I blurb della Valla sono compito esclusivo del direttore della collana: li compone lui e nessuno può sindacare sulle sue scelte, anche se in passato, per tradizione, esse venivano sottoposte all’attenzione di Aurelio Privitera, il grecista siciliano con cattedra a Perugia cui si dovrà la traduzione dell’Odissea. Insomma, i blurb della Valla escono dalla penna di Pietro Citati per più di trent’anni, dal 1974 al 2005: quando, per sua imperiale elezione, subentro nella direzione, prima con Francesco Sisti poi da solo. Nel trapasso di poteri, però, i blurb furono affidati esclusivamente a me come primissimo dei miei compiti. Citati, prudentemente, si fece inviare per fax i primi quattro che composi: poi, dato l’imprimatur senza apportare alcuna modifica, decise che potevo proseguire sulle mie proprie gambe. E confesso che ce ne sono alcuni dove faccio fatica a distinguere i suoi dai miei.

I blurb citatiani della Valla, così come quelli di Roberto Calasso per i volumi della Adelphi, hanno caratteristiche tutte loro e trasmissibili solo in spiritu. Sono i blurb del Demiurgo che ha inventato la collana titolo per titolo, spaziando per ogni dove e curandosi di ogni particolare. Implicano conoscenza approfondita del libro in questione, ma anche dominio totale del contesto storico, culturale e letterario in cui quell’opera si colloca.

Inoltre, Citati vi compie salti intuitivi improvvisi, sorprendenti e illuminanti, fa affermazioni dettate dal buon senso oppure del tutto apodittiche, come volendo dare una zampata potente delle sue, ma con l’intento di incuriosire e irretire il lettore, tentando in una parola di fargli capire come la presenza di quel libro sia assolutamente necessaria nella sua biblioteca, anzi indispensabile alla sua sopravvivenza culturale. Chi, prima di acquistare il libro, legge i suoi blurb è irrimediabilmente colpito dall’apparente onniscienza dell’estensore, che richiede la sua complicità, la sua fede, il suo amore.

Sono gli atti di una guida che, prendendoti per mano, intende condurti verso il buono, il vero, il bello e il giusto. Sarà quindi comprensibile se ne fornisco qui soltanto un’idea, saltando, per esempio, opere capitali come le commedie di Aristofane, le Confessioni di Agostino o i volumi della Letteratura francescana. La collana conta ormai più di cento titoli, dei quali molti in più volumi, e del resto il lettore troverà nel presente volume tutti quelli attribuibili con filologica certezza a Pietro Citati. Offrirli al pubblico tutti insieme vuol dire fargli un dono inestimabile: che gli permette di entrare nell’animo di questo Grande Lettore e nello stesso tempo nella sua creatura più amata, la collana degli “Scrittori greci e latini” della Fondazione Lorenzo Valla.

La Poetica

Prendiamo, per esempio, il fatidico blurb della Poetica che lessi nel marzo del 1974. Citati inizia paragonando la Poetica alla Bibbia: «Come la Bibbia, la Poetica di Aristotele è uno dei libri che gli uomini, nei secoli, hanno interrogato più intensamente».

Un azzardo? Sì e no. Sì, perché la Bibbia, dall’epoca dei midrashim antichi sino a oggi, gode di una invidiabile continuità d’interesse, mentre la Poetica conosce un lungo periodo di assenza nel Medioevo, quando soltanto Averroè, poi Ermanno Alemanno, che ne traduce il commento “medio” col nome di Poetria nel 1256, e infine Guglielmo di Moerbeke, che nel 1278 verte in latino, dal greco, il testo stesso, la rendono accessibile. Infatti, nel disegnare a volo d’uccello il panorama storico, Citati salta il Medioevo a piè pari, dicendo «dall’antichità classica al Rinascimento, dal Romanticismo al nostro tempo». Ma anche no, perché – ecco che arriva il primo affondo – gli uomini «hanno chiesto (alla Poetica) cosa fosse la poesia: come purificasse l’animo, da quali passioni ci liberasse: cosa l’epica e la tragedia, quali i caratteri tragici, cosa il linguaggio e la metafora; quale lo spazio in cui deve muoversi la parola poetica». Mirabile sommario della Poetica: e soprattutto centrato appieno sull’interrogativo fondamentale, vitale cosa fosse la poesia, che riprende quasi verbatim l’apertura stessa del trattato aristotelico – Perì poietikès autès te kai ton eidòn autès, dell’arte poetica in sé e delle sue forme – accenna alla catarsi, alle passioni, ai generi e ai modi di espressione. Si provi un po’ a compiere un’operazione simile per la Bibbia in nove righe!

Tuttavia, quando ha inizio il secondo paragrafo, tutto, o quasi, viene sovvertito. Ora Citati segnala che leggere la Poetica significa incontrare un «enigma di densità quasi indecifrabile»; accenna al fatto che potrebbe trattarsi di un testo redatto per gli adepti, i discepoli che già conoscevano “ogni piega” del pensiero del Maestro; sottolinea che essa è oggi attuale quanto per gli studiosi del Rinascimento: «La descrizione fenomenologica, che Aristotele compie delle forme, delle strutture e della tecnica della poesia, può trovare una rinnovata attenzione in un tempo come il nostro che tanto interesse dedica alle forme della poesia». Siamo infatti alla metà degli anni settanta del Novecento, il Formalismo prima e lo Strutturalismo poi si dedicano proprio a quegli scavi, e tra la fine dei sessanta e il 1980 ecco uscire in Francia gli studi di Victor Goldschmidt e l’edizione Seuil della Poétique curata da Dupont-Roc e Lallot, che apre spazi davvero nuovi all’esegesi. Eppure, conclude Citati, «alcune analisi restano insuperate. La spiegazione dell’eccellenza dell’Iliade e dell’Odissea è, probabilmente, la più grande pagina di critica letteraria che sia mai stata scritta».

Oltre al canone liceale

Pietro Citati era spesso incline ad affermazioni assolute come questa, che gli accademici (i “professori universitari”, come li chiamava lui con chiaro senso di spregio) consideravano incaute, imprudenti, roboanti, eccessive. Però si dà il caso che quanto Aristotele dice dei poemi omerici non ha eguali nel mondo antico almeno sino al trattato Sul Sublime. E che poi abbia tenuto banco per secoli quando la Poetica è stata riscoperta dall’Umanesimo e studiata, approfondita, sviluppata sino a tutto il Settecento. Né Corneille né, a maggior ragione, Racine e Boileau sono concepibili senza di essa, tanto per fare tre esempi non proprio minori.

Leggere i blurb che Citati stila per gli “Scrittori greci e latini” della Valla vuol dire attraversare le sue passioni principali, percorrere l’immensa latitudine dei suoi interessi, e insieme comprendere che “scrittori greci e latini” non significa soltanto pensare al canone consacrato dai licei classici e dalle facoltà umanistiche, ma anche rivolgersi agli Arcana Mundi, alle Religioni dei misteri, e poi al Manicheismo, alla Rivelazione segreta di Ermete Trismegisto, ai Trattati d’amore cristiani del XII secolo, e a cinque testi fondamentali per l’esegesi cristiana del mondo e della Scrittura: i Testi gnostici in lingua greca e latina, la Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, Sulla Genesi di Basilio di Cesarea, l’Istruzione cristiana di Agostino e il Prologo di Giovanni di Giovanni Scoto Eriugena. C’è, nella Valla di Citati, una corrente esoterica e mistica, o che va alla ricerca del poco noto, del dimenticato, del soppresso e dell’eretico, che ha un’importanza fondamentale.

Ma c’è anche, e proprio dall’inizio, dal 1974, un progetto del tutto nuovo, la serie delle Vite dei Santi diretta da Christine Mohrmann che, come dichiara il blurb della prima, la Vita di Antonio, “non ha precedenti nel mondo”. Nella quale «il lettore moderno non (…) troverà soltanto fughe dal mondo, esempi religiosi, drammatiche tentazioni diaboliche, ascese verso il cuore dell’anima; ma il più vasto, ricco e pittoresco quadro dell’esistenza quotidiana nei secoli che videro la decadenza dell’impero romano, l’invasione dei barbari e la formazione della cultura bizantina.

Tutta la ruvida vitalità popolaresca, che la letteratura classica aveva tenuta lontana, prorompe in questi racconti, come in pochi altri testi cristiani». Insomma, la Valla sin dai primordi esalta il sermo humilis del quale parla Agostino a proposito della Scrittura e che Erich Auerbach assume a cifra stilistica generale del Medioevo.

Il mito

Questo, naturalmente, non significa che la classicità venga trascurata. L’Eneide viene pubblicata in sei volumi, Pindaro in quattro, soprattutto l’Odissea è il fiore all’occhiello anche a livello internazionale. I blurb di Citati ai sei volumi dell’Odissea sono dei veri e propri capolavori, a cominciare dal primo, nel quale definisce il secondo poema omerico «il libro che ha più influito sulla psicologia e sulla letteratura europee: il libro senza il quale né Cervantes, né Defoe, né Stevenson, né Kafka, né Joyce avrebbero scritto i loro capolavori; il libro al quale l’Occidente ha affidato il senso più profondo della ricerca, del viaggio, della fantasia, del sogno, della lucidità, dell’ironia, della maschera, dell’infinita capacità di metamorfosi, che da trenta secoli lo distinguono; il libro al quale l’Occidente non può rinunciare senza uccidere sé stesso».

Sono parole forti, vergate nel 1981, ventuno anni prima che uscisse La mente colorata: Ulisse e l’Odissea, uno dei migliori volumi critici di Citati. Tuttavia, non sono soltanto la narrazione e il meraviglioso dell’Odissea che attirano Citati.

Ciò che davvero l’incatena al mondo – non solo antico e non solo greco – è il mito. Inserisce nella Valla I miti greci (cioè la formidabile Biblioteca falsamente attribuita ad Apollodoro), l’enciclopedia più vasta che l’antichità ci abbia lasciato del proprio sapere mitologico, ma sin dai primi anni di esistenza della Fondazione pubblica gli Inni omerici a cura di Filippo Càssola, che «comprendono alcune tra le pagine più belle della letteratura greca»: il pathos dell’Inno a Demetra, il «sublime slancio lirico» dell’Inno ad Apollo, l’«eleganza ironica» dell’Inno a Ermes. Come mito della storia Citati tratta anche Alessandro Magno, il personaggio che forse lo affascina di più di tutta l’antichità.

Inventa così un’altra serie, che comprende l’Anabasi di Alessandro di Arriano, le Storie di Curzio Rufo, il Romanzo di Alessandro, e persino Alessandro nel Medioevo occidentale. Inoltre, egli dà inizio alla pubblicazione di tutta la Guida della Grecia di Pausania, delle Metamorfosi di Ovidio e di Apuleio, cioè di tutti quei libri che del mito fanno la loro fonte di vita. Altri tre campi sono invenzione esclusiva della Valla di Citati. Il primo riguarda il Cristo, al quale sono dedicati ben cinque volumi che raccolgono “quanto gli uomini hanno sognato, fantasticato, simboleggiato, pensato attorno alla figura del Cristo, dalle origini cristiane sino alla fine del Medioevo”: dalla “freschezza” dei primi documenti a quanto rivela la liturgia, dalla filosofia alla teologia di Anselmo di Canterbury e di Abelardo, alla mistica di Bernardo di Chiaravalle e Riccardo di San Vittore. Di complemento, due tra i volumi più originali e fortunati della Valla: Le parole dimenticate di Gesù e I detti islamici di Gesù.

Si potrebbe riassumere, per il primo, “tutto ciò che non c’è nei Vangeli canonici e nelle Epistole di Paolo”, e sarebbe certo in buona parte vero. Ma c’è di più. Leggiamo l’ultima parte del blurb di Citati: «Da queste bellissime Parole dimenticate, viene alla luce un ritratto di Gesù che ci sorprende e talora ci sconvolge. Spesso egli rivela ad alcuni dei suoi discepoli delle parole segrete, che dovevano restare nascoste, e aggiunge: “Chi troverà l’interpretazione di queste parole non gusterà la morte”. Gesù è dovunque: “Solleva la pietra e là mi troverai, taglia il legno e io sono là”. Annuncia un futuro misterioso: “Essendo stato interrogato da uno su quando venisse il suo regno, disse: ‘Quando i due saranno uno, e il fuori come il dentro e il maschio con la femmina né maschio né femmina’”».

Forse ancora più affascinante il Gesù dei Detti islamici. ‘Īsā Ibn Maryam è infatti uno dei maggiori profeti dell’Islam: «che, fin dal Corano, ne tramanda molte parole. Riletture plurisecolari del Gesù dei Vangeli e degli apocrifi, esse ci restituiscono un Gesù musulmano, o un Gesù che parla all’Islam, e a noi: “Beato colui che guarda con il cuore, ma il suo cuore non è in ciò che vede”».

Di contro, c’è il secondo campo, con tutto il valore militare da dare alla parola: il campo dell’Anticristo, «il più grande mito dell’Occidente antico e medievale». «Da principio», recita il blurb, «l’anticristo è soltanto colui ‘che non crede in Cristo’. Ma presto questa interpretazione viene sconvolta» e l’Anticristo diventa il Nemico, l’Avversario dei tempi ultimi. Già nell’Apocalisse di Giovanni – che non per nulla Citati aveva inserito nella Valla – c’è una Trinità del male che è contraffazione di quella celeste. L’Anticristo è «lo specchio empio» di Cristo, «Gesù capovolto», la figura che fa letteralmente esplodere «l’immaginazione cristiana».

La fine del mondo

Che Pietro Citati possedesse una buona dose di sensibilità, se non di credenza, apocalittica, è facile riscontrarlo non tanto nei titoli medievali che pubblica – Le storie contro i pagani di Paolo Orosio, l’Antapodosis di Liutprando, le Storie di santi e di diavoli (i Dialogi) di Gregorio Magno, la magnifica Storia degli Inglesi di Beda, la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono, il Viaggio in Mongolia di Guglielmo di Rubruck – quanto nell’attenzione che dedica a Bisanzio, alla sua lenta, inesorabile decadenza, alla sua davvero apocalittica Caduta.

La Valla di Citati è l’unica collana al mondo che restituisce la voce agli Imperatori di Bisanzio di Michele Psello, alla Grandezza e catastrofe di Bisanzio di Niceta Coniata, alla Caduta di Costantinopoli. La fine della “seconda Roma” dopo le devastazioni barbariche, mille anni prima, della Roma più antica, è un “evento leggendario” che ebbe ripercussioni ovunque, in ogni lingua e in ogni forma narrativa e poetica. Segnava davvero la fine del mondo antico, proprio alla vigilia del giorno in cui l’Europa ne avrebbe incontrato uno Nuovo.


Dalla prefazione a Pietro Citati, La follia degli antichi, Feltrinelli Gramma, 2025. Domenica 23 marzo, a Libri Come, Auditorium Parco della Musica, alle ore 11.30 omaggio a Pietro Citati con Piero Boitani, Andrea Cane, Gian Arturo Ferrari ed Emanuele Trevi, Studio 3

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