I Centri antiviolenza (Cav) sono pochi e operano con risorse limitate. All’appello ne mancano 220 su tutto il territorio nazionale. Ora Tortuga li ha mappati tutti in un database
Come raccontato su Domani da Federica Pennelli, la mancata pubblicazione dei dati sull’applicazione della legge 194, per la prima volta in 46 anni, ha sollevato forti preoccupazioni circa l’efficacia del sistema e la volontà politica di sostenere i diritti delle donne in Italia.
I centri antiviolenza (Cav), pur svolgendo un ruolo centrale come presidi di libertà per le vittime e di educazione per la cittadinanza, operano con risorse limitate e senza una strategia centralizzata.
I dati che mancano
Il 25 novembre di ogni anno, Istat fornisce i nuovi dati sui Cav: questi sono, però, limitati, e spesso sono già datati di un anno e mezzo o due.
In risposta a questo, il think-tank Tortuga ha costruito un database dei Cav aggiornato a novembre 2024 estrapolando informazioni dal sito del 1522 (numero antiviolenza e stalking) e delle amministrazioni regionali, come Campania e Lazio.
Dati chiari, completi e aggiornati assolvono una doppia funzione: di monitoraggio e di stimolo a una maggiore responsabilità pubblica.
I Centri Antiviolenza che mancano
In Italia ci sono 404 centri antiviolenza. La Convenzione di Istanbul stabilisce uno standard minimo di un centro antiviolenza ogni 50mila donne dai 14 anni in su. In Italia, invece, ne abbiamo uno ogni 67mila. Solo 25 province raggiungono il livello minimo previsto. Alcune regioni, come il Molise, rispettano gli standard europei con un centro ogni 33mila donne, mentre altre, come le Marche, sono ben lontane dall’obiettivo, con uno ogni 136mila donne.
Emilia-Romagna, Sicilia e Veneto necessitano di più di 20 nuovi centri ciascuna. A Milano e Roma ne servirebbero almeno altri 10. In totale ne mancano oltre 220. Avere un Cav in regione o in provincia, però, non basta. Due sono gli aspetti chiave: dove sono e chi li gestisce.
La distribuzione capillare sul territorio serve per garantire tragitti brevi alle vittime di violenza e per facilitare le connessioni tra le operatrici e le volontarie con le realtà del territorio, da assistenti sociali a scuole e aziende. A livello nazionale, un comune su 5 non ha un Cav entro 20 km, con picchi di quasi 2 comuni su 5 nelle isole. Proprio nelle isole e in aree scoperte, i Centri sono spesso gestiti in modo assistenzialista: tra i nuovi 7 Cav in queste zone, solo due sono in mano a enti orientati a una metodologia femminista dell’accoglienza.
Dalla prima Casa delle donne maltrattate del 1986, per oltre 25 anni i centri hanno operato come espressione della società civile senza supporto sistematico da parte dello stato. Per favorire pratiche nate da esperienze di marginalità femminili e orientate all’autodeterminazione, serve che la stessa missione emerga da statuti, decisioni di bilancio ed esperienze degli enti che gestiscono i centri.
L’educazione sessuale-affettiva
La presenza di nuovi centri che non hanno nello statuto il contrasto alla violenza di genere e che fanno meno attività di formazione è più netta nelle province dove troviamo prevalenza di norme di genere tradizionali che perpetuano una visione subalterna delle donne rispetto agli uomini. E proprio nelle norme di genere affondano le radici economiche, sociali e culturali della violenza di genere.
In media, c’è un caso di violenza di genere che le forze dell’ordine denunciano all’autorità giudiziaria ogni 625 donne o, per dare un’altra immagine, ogni 13 minuti. Il dato, una sottostima per tutte le vittime che decidono di non denunciare, è una rappresentazione tangibile degli stereotipi di genere con cui un italiano su due – pur con differenze per età e genere – si trova d’accordo: ad esempio, dall’indagine Istat sull’immagine sociale della violenza, le donne possono provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire? Più del 23 per cento degli intervistati dice di sì.
L’Italia ha bisogno di dati, per capire la pervasività della violenza contro le donne ed elaborare soluzioni condivise, di educazione sessuale e affettiva universale, e di politiche che valorizzano l’esperienza delle associazioni femminili e femministe, piuttosto che favorire la statalizzazione dei centri antiviolenza.
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