Quando si parla di marginalità adulta ci si concentra solo sull’esperienza maschile. Eppure le donne, che rappresentano il 32 per cento del totale, corrono maggiormente il rischio di rimanere senza casa a causa del mercato del lavoro. E se hanno figli devono vivere il trauma dell’allontanamento. Non sono solo tossicodipendenti o alcoliste: molte sono semplicemente povere. Tra loro molte ex badanti. Le politiche pubbliche non prendono in considerazione le loro specifiche esigenze. Senza considerare che molte situazioni particolari di precarietà abitativa non vengono nemmeno rilevate
In Italia la grave emarginazione adulta è un tema che fatica a essere al centro del dibattito pubblico. La mancanza di consapevolezza su un fenomeno così variegato determina l’assenza di approcci specifici, a cui si unisce la complessità nella raccolta di dati precisi e aggiornati. Inoltre, laddove si parla di grave marginalità adulta, ci si concentra quasi esclusivamente sull’esperienza maschile.
Secondo il censimento della popolazione dell’Istat del 2021 le persone senza tetto e senza dimora sono 96.197. La rilevazione dell’Istat rappresenta, da un lato, un’importante novità perché dà visibilità e riconoscimento a segmenti di popolazione difficili da tracciare e percepiti come invisibili. Dall’altro lato, però, presenta dei limiti dovuti alla metodologia di rilevazione che si basa solo su criteri amministrativi: vengono prese in considerazione solo le persone iscritte all’anagrafe con un indirizzo di residenza fittizio.
Il quadro che emerge dai dati Istat mostra come la maggioranza di persone senza dimora è composta da uomini. Le donne, invece, rappresentano circa il 32 per cento delle persone senza dimora in Italia, corrispondenti a 30.790. A partire da questo dato le politiche pubbliche dovrebbero tenere in considerazione le specifiche esigenze di questa parte di popolazione – che spesso rimane sottotraccia – per affrontare in modo efficace il fenomeno dell’homelessness.
Homelessness nascosta
Per le donne, ma non solo, la strada rappresenta l’ultima delle scelte: comporta un'esposizione a livello fisico che spinge le persone a preferire delle soluzioni che non rientrano tipicamente nell’homelessness, ma che possono risultare insicure perché vi è la possibilità di essere esposte alla violenza. «Le donne, pur avendo un tetto sopra la testa, vivono una situazione di grave precarietà, di emarginazione ed esclusione abitativa. Anziché ricorrere ai servizi per la marginalità tendono a rivolgersi ad amici, parenti, familiari trovandosi talvolta in situazioni di sovraffollamento e mancanza di privacy. Questa precarietà abitativa è difficilissima da intercettare: le rilevazioni non riescono a stimare questi numeri», dice Lucia Fiorillo, ricercatrice di fio.PSD (federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora), per spiegare il fenomeno dell’“homelessness nascosta”.
Il modo in cui si parla del fenomeno ha degli impatti sulla visibilità delle donne che sono soggette a una forte stigmatizzazione. Entrano in gioco anche gli stereotipi e i ruoli di genere, che associano alle donne l’ambiente intimo della casa e dei lavori domestici e di cura. Le donne vivono la condizione di grave marginalità per motivi diversi rispetto agli uomini, ma spesso alla base vi sono caratteristiche comuni: la povertà, l’inadeguatezza dell’offerta abitativa e la mancanza di sussidi. Per le donne la condizione di senza dimora può essere percepita come un fallimento personale che devia dalle aspettative di genere.
In realtà, dietro queste dinamiche vi è uno svantaggio strutturale: le donne corrono maggiormente il rischio di rimanere senza casa a causa del difficile mercato del lavoro; hanno, inoltre, maggiori probabilità di vivere in povertà con livelli di risparmio più bassi e di indebitamento più elevati a cui possono associarsi episodi di violenza domestica e altri eventi ed esperienze traumatiche. Le donne hanno anche maggiori probabilità di avere responsabilità di cura e sono spesso a capo di nuclei familiari monogenitoriali.
Poi ci sono alcuni gruppi di donne più esposte a causa di ulteriori condizioni di discriminazione e svantaggio come razzismo, violenze, abusi, problemi di salute fisica o psichica, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o le disabilità.
Caregiver profilo a rischio
«La conta delle persone senza dimora è particolarmente complessa e riguardo alle donne il tema dell'homelessness nascosta è particolarmente rilevante», racconta a Domani Jacopo Faccini Lareno, ricercatore sociale che con il collega Andrea Rampini e il fotografo Luca Meola ha condotto il progetto di ricerca e documentazione fotografica “Milano senza dimora”.
Lareno spiega che quelli raccolti sono dati qualitativi più che quantitativi: le esplorazioni etnografiche hanno coinvolto 15 persone senza dimora nella mappatura di una Milano diversa. «Abbiamo trovato varie relazioni di amore e cura reciproca che vedono donne e uomini in strada creare delle connessioni anche romantiche e amorose. In alcuni casi spinti dalla necessità di trovare protezione reciproca».
I ricercatori hanno osservato anche un altro fenomeno connesso all’homelessness esaminata da una prospettiva di genere: il lavoro povero legato all’immigrazione.
«Abbiamo incontrato alcune storie di donne migranti lavoratrici emigrate a Milano per lavoro e impiegate nei lavori di cura e nei lavori domestici che vivono un continuo ingresso e uscita dal sistema di servizi per le persone senza dimora. Non sono esistenze lineari dal punto di vista della relazione con la strada e con la casa: tutto dipende dal momento della vita e dalla possibilità di avere un lavoro che è associato a un’abitazione come nel caso dell’attività di badantato», continua Lareno.
Nelle storie delle persone che lavorano come badanti capita che la morte della persona assistita si trasformi in potenziali processi di homelessness. Qui, però, emerge un problema strutturale: il fallimento di una società che gestisce il proprio carico di cura appaltandolo a delle figure professionali specifiche che spesso sono delle donne e di «una società che non riesce a tutelare quelle lavoratrici che dopo anni passati a prendersi cura di una persona si ritrovano a non avere nulla», fa notare Andrea Rampini.
Rampini racconta di un terzetto di donne, provenienti da paesi differenti e in fasi diverse del loro progetto migratorio, tra cui è nata un'amicizia legata all'esperienza in strada. Le tre avevano in comune rapporti problematici con delle figure maschili o un'esperienza di strada legata alla separazione dall'uomo con cui erano emigrate.
«Si tratta di biografie complesse che sono una spia sul funzionamento più generale dei processi migratori e anche dell'inserimento in posizioni subalterne nel mercato del lavoro. Questo significa che esistono storie molto belle di alleanze, amicizie, affetto e tutela, ma ci sono anche storie di grande abbandono e invisibilità».
Se la condizione di homelessness può portare alla creazione di legami e relazioni, dall’altro può esporre a dei rischi: è il caso delle madri a cui vengono sottratte le figlie e i figli.
Madri senza dimora
Le donne senza dimora, infatti, vivono una condizione di svantaggio multiplo: sono più esposte a violenza, abusi, disturbi di salute mentale e rischiano con maggiore frequenza la possibilità di separazione dalla prole rispetto agli uomini.
Nel bilancio 2023 dell’organizzazione di volontariato Avvocato di strada – che si occupa di fornire assistenza legale gratuita alle persone senza dimora – si legge: «Confrontando le richieste di assistenza legale provenienti da uomini e donne, si può osservare che per le questioni relative al diritto alla residenza si sono rivolti a noi per l’86,2 per cento uomini; per problemi inerenti al permesso di soggiorno, ancora una maggioranza di uomini (l’81,6 per cento); in materia di diritto di famiglia, invece, sono le donne a essersi rivolte in maggior numero all’associazione, rappresentando il 58,5 per cento delle assistite».
Come spiega Antonio Mumolo, avvocato e presidente di Avvocato di strada: «Quando una donna finisce in strada e ha un figlio minore, il figlio viene aiutato e preso in carico dai servizi sociali e dal tribunale dei minori e quindi in molte situazioni si avvia il procedimento di adottabilità». Inevitabilmente il decreto di adottabilità significa l’allontanamento tra la madre e la bambina o il bambino.
Mumolo racconta di due donne con figli minori che si sono rivolte all’associazione con il decreto di adottabilità: «In entrambi i casi c’è il lieto fine perché c’erano dei familiari che si potevano prendere cura dei minori». Si è attivato un rapido sistema di contatti per raggiungere le famiglie di origine delle donne perché in queste situazioni «si accetta che il minore stia in famiglia piuttosto che darlo in adozione. Bisogna, però, dimostrare tutta una serie di requisiti a tutela del minore: che c'è una famiglia che lo può sostenere, che ha una casa con una stanza per lui, che c’è la possibilità di mandarlo a scuola».
Mumolo poi allarga il campo e riflettendo sulla condizione delle persone senza dimora conclude: «Mentre un tempo in strada c'erano persone che oltre al problema della povertà avevano problemi di alcolismo, tossicodipendenza o problemi di natura psichica che avevano contribuito a determinare quello stato di povertà che le aveva portate in strada, oggi non è più così. Ci sarà ancora qualche persona tossicodipendente o con problemi di alcolismo, ma la realtà è che la stragrande maggioranza di quelle persone sono in strada perché sono diventate povere e in più non c'è il welfare che c'era prima».
Una cosa è chiara: per fornire un sostegno efficace alle donne senza dimora bisogna far emergere esigenze e bisogni specifici e per farlo è essenziale un approccio multidisciplinare. Anche Fiorillo, ricercatrice fio.PSD, afferma che «la popolazione delle persone senza dimora non è un unicum, servono percorsi personalizzati. Inoltre, i profili delle persone senza dimora che si rivolgono ai servizi stanno cambiando con un aumento dei nuclei familiari che nella maggior parte dei casi sono composti da mamme e bambini».
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