Il bilancio è disastroso: 21 persone morte, tra queste tre bambini. Al largo di Lampedusa si è consumata l’ennesima tragedia del Mediterraneo, il mare ormai trasformato in un macabro cimitero. I migranti, partiti il primo settembre dalla Libia, erano 28, ma in Italia sono arrivati solo sette superstiti, di nazionalità siriana, che hanno raccontato il capovolgimento del barcone sul quale viaggiavano dopo il salvataggio effettuato dalla guardia Costiera.

I superstiti sono stati portati a molo Favarolo di Lampedusa e trasferiti all’hotspot di contrada Imbriacola sull’isola. Nelle stesse ore sulla sponda libica, la Mezzaluna rossa ha annunciato che un’imbarcazione con 32 migranti a bordo è affondata al largo di Tobruk, nella zona orientale: un morto e 22 dispersi. Tragedie che imporrebbero risposte governative ed europee, ma poi passa il tempo e preparano il terreno solo alla successive conte dei morti.

Il progetto albanese

Proprio mentre il Mediterraneo ingoiava altre vite, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha parlato anche di immigrazione nella sua relazione all’esecutivo del partito. Parole rilanciate dalle agenzie che raccontano di successi, riduzione di sbarchi e anche della diminuzione dei morti in mare.

Gli arrivi sono diminuiti del 63 per cento rispetto all’anno scorso e del 20 per cento circa rispetto al 2022. Nonostante tutto, Meloni rilancia il suo progetto albanese: «Dovremmo essere molto attenti e scrupolosi perché abbiamo gli occhi del mondo puntati addosso», ha detto prima di aggiungere: «Tutti capiscono che questa iniziativa può cambiare completamente il modo di governare l’immigrazione irregolare».

Un piano, quello relativo ai centri per migranti da realizzare in Albania, che rappresenta un salasso per le tasche degli italiani, sfiora il miliardo di euro, e che pregiudica le garanzie delle persone che verranno condotte in un altro paese e private della propria libertà con una ridotta possibilità di tutela e difesa. Insomma soldi al macero mentre gli sbarchi diminuiscono anche se i morti nel Mediterraneo sono la riprova che la disperazione non si ferma annunciando una inconcludente guerra al traffico di essere umani.

Il tavolo di Cutro

Mentre il progetto Albania viaggia spedito è invece completamente inapplicata l’idea del governo di realizzare un centro per migranti in ogni regione, un piano elaborato dopo la tragedia di Cutro, nella quale morirono almeno 98 persone.

Tragedia che ha portato all’apertura di un’indagine da parte della locale procura che si è conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio per sei indagati, quattro finanzieri e due militari della guardia Costiera, accusati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Sono oltre 600 le pagine di informativa, redatta dai carabinieri di Crotone, nelle quali gli inquirenti acquisiscono i messaggi che gli imputati si scambiano.

«So’ migranti», dice Alberto Lippolis, indagato in qualità di comandante del Roan di Vibo Valentia. Qualcuno replica: «Pazienza». In quelle informative ci sono due elementi che tornano di attualità in queste ore, proprio ieri il comando generale del corpo delle capitanerie di porto ha fatto sapere: «Il livello politico non ha mai condizionato l’operato della Guardia Costiera, né potrebbe mai farlo: l’attività di soccorso in mare è un compito che lo Stato affida alla Guardia Costiera, con precise responsabilità giuridiche, anche di carattere personale. La storia e i numeri parlano chiaro, con le oltre 100 mila persone salvate solo nel 2023».

Il riferimento è alle cronache che hanno riportato quanto all’interno dell’informativa era contenuto, in particolare la testimonianza di Alberto Catone, già comandante del Roan della guardia di finanza di Vibo Valentia. Ascoltato, ma non indagato, ha riferito: «Quando sono arrivato in Calabria la Capitaneria di porto era molto restia a operare in mare in operazioni Sar laddove non c’era una situazione di conclamato pericolo. Questo aspetto dipendeva dall’approccio dell’allora ministro dell’interno balzato agli onori della cronaca con il caso Diciotti».

Queste le sue parole, il riferimento è alla nave della guardia costiera che nel 2018 aveva soccorso 190 migranti nelle acque internazionali al largo dell’isola di Malta. Una nave bloccata in mare per alcuni giorni per ordine dell’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini.

Al tavolo senza accordo

Nell’informativa di Cutro c’è anche altro, in particolare si parla del tavolo tecnico di coordinamento ed emergono divergenze di vedute tra capitaneria di porto e guardia di Finanza.

Divergenze che racconta Gianluca D’Agostino, a capo del centro di ricerca e soccorso della guardia costiera, ascoltato nell’ambito dell’indagine della procura. «Talvolta nei tavoli tecnici veniva insinuato che noi della Capitaneria di porto volevamo accreditarci come forza di polizia. Mi ricordo che in alcune occasioni io stesso chiesi di rivedere il decreto interministeriale in quanto l’intervento immediato verso un target poteva tranquillamente configurarsi come intervento contestuale di soccorso e polizia senza il bisogno di ombreggiamenti, che non sempre rappresentava un’attività funzionale all’individuazione degli scafisti. In questi casi veniva obiettato che così la Capitaneria di porto non avrebbe agito come organo di soccorso ma come forza di polizia e quindi l’accordo non è mai stato modificato», ha riferito ai pubblici ministeri.

Nelle carte viene raccontata anche una riunione svoltasi ad aprile di quest’anno, nella quale la guardia di Finanza esprimeva perplessità per le proposte della guardia Costiera «in relazione sia alla mancata previsione di disposizioni riguardanti il coordinamento delle attività in mare sia al riparto delle competenze nell’azione di contrasto all’immigrazione clandestina».

Osservazioni che ottenevano queste risposte: «La guardia Costiera rimane aperta a proposte modificative della sua bozza, ribadendo la necessità di pensare ad un modello differente da quello sino ad oggi disponibile e che, a parere, si è dimostrato non efficace». Cutro e le tragedie di questi giorni stanno lì a dimostrarlo.

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