Per gli imputati, nove in tutto, cade l’accusa di associazione a delinquere. In primo grado le sentenze erano state durissime, ora le pene sono state radicalmente ridimensionate e riconvertite in lavori socialmente utili. «Per noi era fondamentale che cadesse il reato associativo, perché travisava completamente il senso di quello che abbiamo fatto. Faceva pensare ci fosse un guadagno, una convenienza. Ma era solo solidarietà dal basso», racconta una delle delle imputate
Per i nove imputati del processo Robin Hood a Milano, in appello, l’accusa di associazione a delinquere è caduta del tutto «perché il fatto non sussiste». Una sentenza che rovescia completamente l’impianto dell’accusa e la sentenza di primo grado, che aveva visto prescrivere pene fino ai cinque anni e sette mesi ai membri di un informale comitato che fra il 2014 e il 2019 si era occupato di portare solidarietà agli abitanti di un quartiere della periferia milanese.
«Per noi era fondamentale che cadesse il reato associativo perché travisava completamente il senso di quello che abbiamo fatto. Significa traslare un reato che, se c’è, è politico in un reato comune. Associazione a delinquere fa pensare ci sia un guadagno, una convenienza, rimanda all’idea di un racket. Mentre al contrario si trattava di solidarietà dal basso, di autosostentamento di una comunità che non aveva niente», racconta una delle imputate.
La genesi della vicenda
È l’epilogo di una storia iniziata appunto nel 2014 nel quartiere di Giambellino, in un momento in cui, come oggi, l’emergenza case era alle stelle. Giambellino era pieno zeppo di case popolari, soprattutto di Aler, lasciate vuote (e riscaldate) dall’azienda lombarda. E l’unica soluzione per chi attendeva invano l’assegnazione di un alloggio era occupare una di questi numerosissimi appartamenti.
In questo contesto, il Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio aiutava le famiglie occupanti a ristrutturare le case e intanto dava sostegno legale (e linguistico) alle famiglie che volevano richiedere l’assegnazione definitiva di un alloggio. Ma soprattutto portava nel quartiere tutto quello che mancava: si organizzavano doposcuola per i bambini, corsi di calcio, mensa e ambulatorio popolare settimanale con medici volontari, pranzi solidali la domenica.
Cinque anni più tardi, una mattina di dicembre 2019, erano arrivati, col suono roboante degli elicotteri, gli arresti. E un anno fa la sentenza di primo grado.
L’accusa della Procura di Milano era di associazione a delinquere. Il giudice non solo l’aveva accolta, ma aveva anche aumentato le pene richieste. Era stato un processo difficile: interferenze con la difesa, interruzioni, poco spazio alle testimonianze di servizi sociali e associazioni che provavano a spiegare la situazione di quel quartiere e le necessità a cui il Comitato veniva incontro.
Il processo d’appello
Questa volta è andato tutto molto diversamente. Al processo, che si è tenuto il 2 ottobre, i giudici davano l’impressione di ascoltare con reale interesse, dando tutto lo spazio necessario alla difesa e alle dichiarazioni degli imputati.
La sentenza era prevista per il 5 novembre, ma era stata rinviata perché cadeva durante lo sciopero degli avvocati contro il ddl Sicurezza 1660, considerato di «matrice securitaria sostanzialmente populista, profondamente illiberale e autoritaria», come si leggeva nel comunicato. È arrivata invece nella mattina di venerdì 6 dicembre, inaspettata nel contesto politico teso e in dissonanza proprio con quella “matrice securitaria” di cui il decreto sicurezza è espressione.
Le pene sono state radicalmente ridimensionate: se prima andavano da un anno e tre mesi a cinque anni e sette mesi, ora sono tutte da 9 mesi, tranne una di un anno. I reati di cui gli imputati sono stati giudicati colpevoli sono minori, come resistenza a pubblico ufficiale o occupazione. Le pene da scontare saranno comunque riconvertite in lavori socialmente utili.
Un precedente importante
Le motivazioni del presidente della Corte d’Appello Enrico Manzi arriveranno fra trenta giorni, ma l’importanza della sentenza d’appello sta proprio in quell’associazione a delinquere che «non sussiste»: un precedente significativo in un momento in cui il tema dell’abitare è caldissimo.
L’aumento insostenibile degli affitti nelle principali città italiane ha da mesi riportato la questione sotto i riflettori. L’europarlamentare Ilaria Salis, a luglio, aveva denunciato le oltre 12.000 case sfitte solo a Milano, a fronte di 10.000 famiglie in attesa di assegnazione. In Italia si arriva addirittura a 100.000 appartamenti.
Recentemente è anche uscito per Fondazione Feltrinelli un breve documentario sulle occupazioni abitative a Venezia: si tratta sempre di case lasciate vuote e in stato di abbandono, che vengono abitate, ristrutturate, curate e vissute da chi non si può permettere un affitto nella propria città (di nascita o di elezione) e decide di restare nonostante il turismo e il costo della vita troppo alto.
Continuare a vivere in città come Venezia è un atto di resistenza, contro l’abbandono di una città che si trasformerebbe in un museo. Anche continuare a vivere a Milano, o a Napoli o a Firenze, è un atto di resistenza, e di cura, proprio come abitare case altrimenti lasciate all’incuria e alla muffa, o portare dal basso in un quartiere trascurato quello di cui hanno bisogno le persone per vivere bene: la convivialità, la salute, lo sport, la solidarietà. In una parola, il mutuo appoggio.
La sensazione che lascia la sentenza d’appello è proprio questa: una rilettura degli stessi fatti, che smettono di essere dipinti come un’associazione per delinquere, perché nulla avevano a che fare con guadagno e sfruttamento, e vengono risignificati come solidarietà e mutuo appoggio.
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