Un diciottenne ucciso in circostanze da chiarire. Un quindicenne colpito a morte in una sparatoria. Un altro poco più grande perde la vita per un banale litigio. La camorra impone la sua legge. E con la caduta dei paladini dell’antimafia il cambiamento è una chimera
Napoli, la città di nuovo affrescata dalla macchina da presa di Paolo Sorrentino, resta appesa alle sue contraddizioni, eroi di carta che si sgretolano e ragazzini uccisi in strada, morti ammazzati a 15 anni, come Emanuele Tufano. E ogni nuovo dettaglio sull’omicidio fa sprofondare in un cupo pessimismo, nella scena immortalata dalle telecamere spuntano anche bambini.
Ma Emanuele non è l’ultimo. Nella notte tra venerdì 8 e sabato 9 novembre Arcangelo Correra, un diciottenne incensurato, è morto dopo essere stato ferito gravemente con un colpo di pistola alla fronte. Le circostanze sono ancora da chiarire. Ricoverato all'ospedale vecchio Pellegrini di Napoli in condizioni molto gravi, non ce l’ha fatta: è il cugino di Luigi Caifa, 17enne ucciso da un agente della Squadra mobile di Napoli nel corso di una rapina il 4 ottobre 2020, in pieno centro a Napoli.
E ancora pochi giorni fa, in provincia, a San Sebastiano al Vesuvio, è stato ucciso un diciannovenne, Santo Romano. Il suo assassino era appena uscito dal carcere minorile. Il motivo? Una scarpa sporcata.
Torna attuale quel disperato appello di Eduardo De Filippo: “Fuitevenne” (“Scappate”). Questo è un tempo nuovo per la città rispetto agli anni nei quali il Maestro di teatro si interrogava sul futuro, oggi Napoli è viva, piena di turisti, forse troppi, a guardare il centro storico brulicante di friggitorie e b&b. Ma anche questa stagione non risparmia i giovanissimi, dal 1982 ci sono stati una cinquantina di ragazzi uccisi in faide e scontri a fuoco, e, negli ultimi anni, la polverizzazione delle realtà delinquenziali e la diminuzione dell’età di battesimo criminale hanno peggiorato il quadro.
La madre di un ragazzo ferito nell’agguato che ha ucciso il giovane Emanuele ha raccontato di aver denunciato mesi fa il figlio per salvarlo, le sue parole sono lucide e disperanti.
Rinnega il padre
In questa Napoli insanguinata, nei giorni scorsi, è caduto un eroe di carta. Un altro, di nuovo. E si è portato dietro anche brandelli di speranza. Il sogno di riscatto, raccontato con enfasi da giornali e tv, di Antonio Piccirillo naufraga davanti al porticciolo di Mergellina dove le boe e gli ormeggi erano diventati l’ossessione del rampollo di famiglia. Bastava una domanda per capirne il bluff, ma per ogni occasione serve un interprete, e il ruolo assegnato a Piccirillo era quello del ragazzo che aveva rinnegato il padre camorrista.
Chi stazionava a pochi metri dal consolato americano e dal lungomare doveva pagare il pizzo al clan che da anni controlla quell’angolo di città al servizio dell’Alleanza di Secondigliano, la più potente formazione criminale della Campania. Nel tempo post Gomorra, tra le vittime non poteva mancare anche una tiktoker, la popolare Rita De Crescenzo che ha denunciato. Piccirillo, figlio e padre, sono finiti così ai domiciliari per tentata estorsione per aver imposto l’assunzione del rampollo nella società che gestisce i campi boa e preteso soldi mensili per garantirsi la tranquillità.
La storia dell’ultimo eroe di carta crollato sotto il peso del suo passato è una metafora amara. Racconta un rinnovamento di facciata, un presente tirato a lucido con sotto il marcio di sempre, il dolore che non passa, il male che resta. Ieri le guerre di camorra, oggi lame e pistole per contese tra minorenni con risultati simili e innocenti crivellati di colpi. La storia di Antonio Piccirillo è una metafora, un affaccio sui chiaroscuri della città.
Prima le interviste, poi le comparsate televisive, un documentario presentato nei festival e, infine, la candidatura sfumata nel 2021 alle comunali di Napoli. Sul palco era con Alessandra Clemente, già assessora nella giunta De Magistris e figlia di Silvia Ruotolo, vittima innocente di camorra. Nel 2019 un killer aveva ferito una bambina di due anni, Noemi, e Piccirillo junior decise che era il momento di scendere in strada per gridare il suo no alla camorra.
«Amate i vostri padri, ma dissociatevi dal loro stile di vita», diceva il rampollo. Non solo la candidatura, ma anche premi e riconoscimenti. Piccirillo era diventato l’ospite perfetto a ogni occasione, sparatorie, morti, tragedie, lui era lì a raccontare la rottura. Eppure proprio nei mesi della candidatura c’era un altro Piccirillo che svestiva gli abiti del paladino che tifava dissociazione e vestiva quelli del figlio del boss, sulle orme del padre.
«Ha detto papà camma fa’?.. dove stanno le nostre boe? Qui devo lavorare io...», diceva il giovanotto che mischiava resipiscenza a continuità, un poco pentito e un poco no. «Quando andrai a fare la denuncia fai scrivere che siamo in due a volerti uccidere, io e mio padre», diceva a Rita De Crescenzo, nota tiktoker, che aveva osato dire no alla pretesa dei posti boa. La zona di Torretta-Mergellina è sotto il dominio del “biondo”, soprannome del boss Rosario, da anni.
Ambiguità
Nel 2020 riescono a infiltrarsi negli affari degli ormeggi delle barche, l’anno successivo il tentativo raccoglie alcune ritrosie che scatenano il padre, ma soprattutto il figlio. Quell’Antonio che, proprio in quei mesi, arringava le folle contro la camorra voleva essere nuovamente assunto per evitare denunce o controlli degli inquirenti. «Facciamogli uscire la merda dalla bocca a tutti quanti», «Quanto esiste dio ... li devo distruggere!», «Però nel modo più pulito possibile ... ma pure sporco ... voglio andare carcerato per loro puro sporco ... però devono finire», diceva l’attivista anti camorra.
In quelle settimane questo giornale dedicava un lungo racconto su Napoli che andava al voto e sui clan che si dividono, ancora oggi, la città. Tra i protagonisti di quel racconto c’era Piccirillo che dopo aver annunciato la sua battaglia alla camorra cominciava a balbettare davanti a una domanda semplice: «Perché non chiede a suo padre dal quale dice di essersi dissociato di collaborare con la giustizia?».
La sua risposta fu ambigua: «Collaborare non è la giusta strada, lui mi ha sempre detto “Ti ho fatto sempre vivere con il pregiudizio di essere figlio del boss, non ti farei mai vivere con il pregiudizio di essere figlio di un pentito”, non ti farò mai questo doppio male».
Alla domanda su una possibile indagine sulla gestione delle boe rispondeva mentendo: «A me hanno detto che potrei essere indagato, qualcuno delle boe mi avrebbe denunciato per estorsione, ci sono voci, ma non ho ancora una conclusione d’indagine, ma io volevo solo imparare un mestiere e non ho mai fatto niente per conto di mio padre». In realtà agiva per conto del padre; della responsabilità penale si occuperà la giustizia, qui interessa raccontare una città che fatica ad aggrapparsi anche alla speranza.
Ma resta ancora qualcuno che alza la voce, cittadini, associazioni, ma anche gli ex killer pentiti. Uno di loro si chiama Gennaro Panzuto, proprio lui a Domani aveva sollevato dubbi su Piccirillo. A leggere le carte dell’indagine si conferma il ruolo di Panzuto che aveva sollecitato alcune delle vittime a presentarsi in questura per denunciare, invito declinato.
Piccirillo non apprezzava quell’attivismo: «Dopo quello che hanno fatto ’sti cornuti... che hanno camminato con ’sto Genni Panzuto, tutte ’sta cose che poi la gente lo sa no?», prima di parlare così delle vittime, «questi infamoni si dovrebbero prendere e si dovrebbero chiavare con la testa “nfunn”».
Panzuto, come tanti, però non si arrende e continua a urlare ai giovani l’orrore di vivere con una pistola in pugno.
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